Dopo alcune pagine di introduzione storica, doverose e essenziali, si analizza il cosiddetto “Trentennio glorioso”, ovvero gli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli anni ’70. L’autore oltre a ricordare i prodigiosi aumenti di pil e ricchezze, porta alla luce alcune delle contraddizioni del boom economico italiano, tra cui, ad esempio, i diritti negati ai lavoratori. Comunque sia, è un periodo di sviluppo grazie, soprattutto, alla grande avanzata delle coscienze individuali e collettive. Si passa quindi al cosiddetto “Trentennio pietoso”, periodo che viviamo in diretta, ahimè.
In questo doloroso passaggio tra le due epoche, gli attori sociali (sindacati e partiti di sinistra) subiscono l’avanzata della ristrutturazione capitalista imposta da Reagan e da Thatcher. Ciò avviene mentre si attua una clamorosa perdita del potere salariale a vantaggio del capitale e delle rendite. Si adottano, ad esempio, provvedimenti legislativi quali l’abolizione della scala mobile e anche il complessivo ritiro dello Stato italiano da settori pubblici rilevanti e strategici. La privatizzazione delle aziende pubbliche oltre a essere operazione fatta male e frettolosa (a favore del profitto immediato di pochi) si collega all’esplosione (non è un caso, ma è una scelta genuinamente politica) di forme contrattuali di lavoro a tempo determinato e precarie. È la mano ben visibile del mercato che si autoregola e incide pervasivamente nei tempi e nella vita delle persone. A ciò va aggiunto l’attacco alla contrattazione nazionale (operazione tuttora in corso) per favorire e assecondare la contrattazione aziendale. Ritorna anche il cottimo come modalità in cui si esplica la prestazione lavorativa, non solo nel presente ma soprattutto come modello di relazioni contrattuali nel futuro.
Nulla di nuovo per carità, ma è giusto prendere atto del ritorno ottocentesco e grottesco alla parità tra capitale e lavoro. Quest’ultima è solo di forma perché il capitale, attraverso mercato e presunta concorrenza, codifica il nuovo diritto del lavoro e persegue una devastante moderazione salariale. Tutto ciò è giustificato per favorire la cosiddetta competitività internazionale. Pare di capire, dunque, che l’Italia giochi la sua partita di sviluppo e ricchezza con le stesse modalità di un paese da terzo o quarto mondo (o forse anche peggio). Purtuttavia, l’autore ci invita a riflettere sul fatto che fenomeni analoghi siano presenti anche in Germania, paese preso a modello e con un grande surplus commerciale. Anche qui, però, si utilizza la deflazione salariale e il ricorso ai famosi mini-job, ovvero la sottoccupazione di ampie fasce di lavoratori, soprattutto quelli che svolgono mansioni a basso valore aggiunto. È ciò che avviene anche in Italia dove il ciclo produttivo si fraziona e si esternalizza liberamente. Il nostro, inoltre, è un paese dove è ormai comune il ricorso e l’abuso al part-time involontario, finalizzato a affrontare fin troppo agevolmente i cicli economici e picchi di produzione. L’altra faccia della medaglia, però, ci narra di lavoratori costretti a accettare due o più lavori per raggranellare un salario dignitoso.
Simone Fana, a tal proposito, si sofferma a analizzare i dati statistici: questi, ormai da tempo, parlano di un paese agli ultimi posti per ore lavorate. Basterebbe ciò per smascherare la presunta ripresa italiana; è in atto, invece, una “mutazione della composizione qualitativa dell’occupazione italiana” ovvero un’accelerazione, apparentemente senza possibilità di arresto, verso una terziarizzazione del nostro paese. Nonostante ciò, si continua a perseguire, in ambito lavoristico, un modello che privilegia uno sviluppo basato sull’esportazione, perché la domanda interna ristagna proprio per i bassi salari. Ci continuano a parlare anche di scarsa produttività del lavoro, ma dai dati emerge come il numero di ore per ogni singolo lavoratore in Italia sia ben superiore alle altre economie avanzate dell’area euro. Pertanto, basta il buonsenso per concludere che ciò non dipenda dai lavoratori ma dalla insufficiente inclinazione dei capitali privati (quelli pubblici sono semplicemente assenti) agli investimenti e a assecondare la crescita dell’economia reale. Infatti, i dati riportati nel libro ci raccontano come i profitti, sempre maggiori, siano stati trasferiti direttamente alla rendita finanziaria. A tal riguardo, c’è stata una crescita della rendita tra il 1990 e il 2013 superiore all’84% mentre gli investimenti si sono ridotti del 47% nello stesso periodo.
Questi cambiamenti, per l’autore, si collegano anche a una vera e propria “metamorfosi antropologica” della società, in cui i desideri e i bisogni dei consumatori prevalgono sui diritti dei lavoratori. Quest’ultimi, infatti, privi di alcun tipo di coscienza, vivono in una sorta di schizofrenia in cui si scagliano gli uni contro gli altri. In ogni caso, il mercato è colui il quale detta le regole e dove comunque trionfa il primato del consumo a spese della dignità dei lavoratori stessi (vedi la liberalizzazione completa degli orari di lavoro e le selvagge aperture domenicali).
A ciò si aggiunge una rapida diffusione della cosiddetta gig economy, ovvero il lavoro svolto per mezzo di piattaforme online, dove è l’algoritmo che sceglie il candidato più veloce per effettuare la consegna. È il cottimo puro, ovvero un vero e proprio lavoro dipendente mascherato in cui non sono previsti diritti (né ferie, né malattia). Nasce, così, un nuovo modello di organizzazione del lavoro, già così diffuso soprattutto nelle nostre città. Nel libro, quest’ultimo è definito come “la forma più avanzata dello sfruttamento moderno”, perché, tra l’altro, non esiste più alcuno spazio per le parti sociali in cui incontrarsi e contrattare il rapporto di subordinazione. L’autore, inoltre, invita a riflettere sul fatto che questo modello abbia comunque un vasto consenso materiale perché permette anche una politica aggressiva di prezzi ridotti. È il caso di soffermarsi e ragionare su cosa, concretamente, si risparmia: ovvero sul costo del lavoro stesso. Tale modello ha necessità di reggere l’attuale livello di consumi per tenere in piedi questo sistema economico che ha vissuto la crisi del 2007/2008. Quest’ultima è stata raccontata da tutti i media mainstream come causata da un eccesso di consumo. Tutti o quasi, in Occidente, ci hanno detto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Simone, invece, centra la vera causa del declino ossia il crollo del reddito reale dei lavoratori dovuto a una politica di moderazione salariale di lungo corso.
Nel libro si invita a riflettere anche sul fatto che il progresso tecnologico non è stato, non è, né seguirà uno sviluppo neutro ma è detenuto saldamente nelle mani delle classi dirigenti capitaliste. Infatti, se da un lato tale processo imporrebbe naturaliter la riduzione delle ore lavorate tenendo invariato il salario, è un fatto che le ore lavorate si sono ridotte dal 1870 al 1979 per poi arrestarsi, anzi si assiste oggi alla crescita di esse. Ecco perché siamo dinanzi a un modello di sfruttamento del lavoro che abbina un alto livello tecnologico al punto più basso delle condizioni di lavoro. Dominio e progresso in un mix micidiale. La ricetta del capitalismo reale prevede anche un basso livello di occupazione e partecipazione delle nuove generazioni, l’aumento dell’età pensionabile (fino al punto che essa coincida con il fine vita) e una precarizzazione permanente del tempo e dei contratti di lavoro.
Pertanto, sono essenziali interventi strutturali, un tempo detti radicali, che possano superare lo squilibrio tra vita lavorativa e vita attiva.
L’autore affronta questo problema e ha il grande merito di riprendere il discorso su una misura che viene da lontano eppure è molto moderna: parliamo, infatti, della riduzione dell’orario di lavoro. In quest’ambito si individuano più ipotesi, le quali hanno tutte dei pro e dei contro. Sostanzialmente, vi è l’ipotesi cosiddetta compatibilista ossia quella di una riduzione del tempo del lavoro per occupato ma con conseguente diminuzione proporzionale del livello salariale. Ciò determina sì un aumento del numero degli occupati ma, d’altra parte, non si va a scalfire l’assetto dei rapporti di produzione. Infatti, l’impresa resta centrale perché continua a detenere lo strumento del tempo; così è in grado modulare la produzione in base al mercato e alla dinamica dei prezzi, con l’unico interesse di aumentare i profitti.
L’altra ipotesi è quella cosiddetta conflittuale, con la quale la riduzione dell’orario di lavoro è realizzata a parità di salario. Ciò determina la riduzione delle possibilità per le imprese di utilizzare il tempo per realizzare profitto immediato. Aumenta, in questo modo, il costo del lavoro, ma l’equilibrio potrebbe comunque essere raggiunto attraverso l’aumento della produttività. Impresa certo non semplice ma neppure impossibile. Ciò implica un ulteriore passaggio ovvero quello da uno stato di libero mercato a quello in cui vige un sistema misto. In esso, lo stato stesso è imprenditore tra gli altri e avvia una grande operazione di democratizzazione tra le parti sociali. Infatti, la determinazione dei livelli di produttività investe una rivitalizzazione e un avanzamento progressivo degli attori, a partire dai sindacati e tutti i corpi intermedi.
La questione della riduzione dell’orario di lavoro, soprattutto a seguito dei grandi progressi tecnologici e della gigantesca diffusione di processi di automazione (che in ogni caso è già ora causa di distruzione di posti di lavoro), è una questione troppo importante ed è da riproporre continuamente tra i lavoratori. Le politiche economiche dei vari governi succedutisi si sono invece concentrate sempre sulle stesse misure: riduzione delle tasse per le imprese, detassazione degli straordinari e flessibilità totale nell’organizzazione dei turni. Perciò questo è un libro utile per rimettere al centro uno degli obiettivi storici dei lavoratori di tutto il mondo e riproporre un punto di vista diverso e alternativo alle soluzioni neoliberali che da trent’anni vanno avanti in Occidente. Da ciò riparte un discorso, necessario a sinistra, sulla redistribuzione delle risorse e sulla riduzione delle atroci disuguaglianze in Italia e nel mondo. There is an alternative.