Venerdì, 23 Marzo 2018 00:00

Pari opportunità, perché non si può fare "parti uguali tra disuguali"?

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Pari opportunità, perché non si può fare "parti uguali tra disuguali"?

Un disabile può sperare di vedere realizzati i propri sogni, o almeno di "giocarsela ad armi pari" con gli altri?

In teoria la nostra Costituzione dice chiaramente "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Quindi in teoria un handicap non dovrebbe pregiudicare la vita di una persona, almeno a livello di possibilità di scelte. Ovviamente non si può andare contro natura, e un portatore di handicap questo lo sa fin troppo bene: ma se le condizioni generali della persona permettono il raggiungimento di un certo obiettivo con un aiuto 'tecnico' da parte dello Stato, perché questo dovrebbe essere negato?

Sulla pagina Facebook del quotidiano "La Repubblica" è raccontata la storia di una ragazza ipovedente che, al momento di sostenere il test di accesso alla Facoltà di Medicina, si è vista negare quegli ausili grazie ai quali sarebbe stata in condizione di svolgere la prova alla pari con gli altri candidati: banalmente un testo scritto a caratteri più grandi o, in mancanza di esso, del tempo supplementare per svolgere la prova. La mancata "concessione" di questo bonus ha fatto sì che la prova non fosse superata. Ma non sarebbe il fatto in sé a generare il problema; d'altronde le prove di selezione nascono al preciso scopo di mettere fuori qualcuno.

Ma in questo caso la mancanza dell'università ha creato un grave illecito: la ragazza non è stata messa in condizione di affrontare la prova dando il meglio di sé. È come se durante una corsa a cronometro uno dei maratoneti fosse stato fatto partire qualche minuto più tardi, o gli fosse stato allungato il percorso. Infatti il concedere quelle "agevolazioni" non vuole assolutamente dire avvantaggiare la ragazza, ma tutto il contrario: in realtà null'altro si sarebbe ottenuto se non sanare un gap che aveva creato la Natura matrigna di leopardiana memoria.

Magari qualcuno potrebbe dire, restando sulla vicenda raccontata dal quotidiano, "e come potrà fare questa ragazza a svolgere la professione di medico con il suo handicap?". Questa è una questione che spetta affrontare alla ragazza, in un secondo momento: la cosa fondamentale è garantire a chiunque di provare a percorrere la strada scelta. Poi se sarà eccessivamente faticosa saranno i diretti interessati a fermarsi o trovare un sentiero alternativo. Ma non è giusto essere "più realisti del re": perché dobbiamo decidere noi dall'esterno che non esistono branche della medicina dove non è previsto un occhio di lince? E perché dobbiamo altresì stabilire che "nessuno vorrà farsi curare da una dottoressa con un handicap"?

Un simile ragionamento porterebbe, per assurdo, a bloccare anche coloro che hanno un brutto carattere, perché un medico deve essere empatico. Non vale il ragionamento sulla possibilità di cambiare il proprio carattere nel tempo, soprattutto perché nulla garantisce che il cambiamento debba essere in senso positivo. Del resto, quanti vecchietti diventano, coll'andare del tempo, assolutamente egocentrici e rissosi? E anche per quanto riguarda un handicap non si può sapere quali saranno in futuro i progressi della ricerca scientifica: tutti possiamo osservare come, fortunatamente, malattie che solo vent'anni malattie che sembravano irrisolvibili adesso sono considerate alla stregua di un raffreddore!

E comunque, a prescindere da tutto, nessuno ha la palla di cristallo: e se un ragazzo che affronta la prova "da sano" si trovasse in un futuro a essere colpito da una malattia che ne mina le capacità? Che facciamo, nessuno può fare il test a Medicina perché "del domani non c'è certezza"? Avremmo allora una sola certezza: a breve dovremmo "curarci" con le formule magiche, perché non ci sarebbero più professionisti della sanità! D'altronde, come ci scandalizziamo (ed è giusto farlo!) quando ad un colloquio di lavoro a una donna viene chiesto se ha figli, dando per scontato che non sarà in grado di gestirli in caso di malattie, scioperi della scuola e chi più ne ha più ne metta, allo stesso modo dovremmo indignarci per domande sulla "salute" di una persona.

È ovvio che un portatore di handicap motorio non si presenterà a un colloquio per guida alpina, ma se ha presentato la propria candidatura sarebbe corretto fosse giudicato per quello che può rendere sul posto di lavoro, non sulla base del fatto di aver bisogno di ausili per camminare o spostarsi in città. L'unica responsabilità del datore di lavoro verso un lavoratore con handicap è concedere gli ausili di cui lui/lei ha bisogno, ovviamente per quanto di sua competenza: fatto ciò il lavoratore disabile "si trasforma" in un lavoratore "semplice" con diritti e doveri. E, se sul lavoro non rende, "nulla" vieta di allontanarlo senza sensi di colpa.  

Concludendo, la società deve fare assolutamente un salto di qualità: bisogna innanzitutto saper (e volere) guardare oltre l'handicap di una persona. In un lavoratore si guarda il lavoro svolto, non se ha i capelli biondi o rossi, oppure se è alto o basso (a meno che non si stia parlando di un giocatore di pallacanestro!), quindi anche per i portatori di handicap è necessario imparare a non scartare una persona solo per un difetto fisico ma a guardare intanto cosa questa può dare nel contesto lavorativo, e poi come questo gap possa essere risolto.

Insomma, bene ha fatto la ragazza di Agrigento a pretendere di rifare la prova con gli "aiuti" che le spettano. D'altronde c'è una grossa differenza tra eguaglianza ed equità: in un caso si dà a tutti le stesse cose, nell'altro si dà ad ognuno secondo le proprie necessità. Ed è la seconda opzione la chiave di volta della società: dare ad ognuno il necessario per poter esprimere il proprio potenziale senza restare ingabbiato in condizioni che non dipendono dalla propria volontà, ma da situazioni esterne "decise" dalla casualità.

 

Immagine ripresa liberamente da www.writerscentre.com.au

Ultima modifica il Mercoledì, 21 Marzo 2018 09:16
Elena Papucci

Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell'Arci.

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