Martedì, 17 Luglio 2018 00:00

Di magliette rosse, "benaltrismo" e altre amenità

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Di magliette rosse, "benaltrismo" e altre amenità

Lo scorso 7 luglio è stata la giornata delle magliette rosse: esponenti di associazioni e comuni cittadini si sono vestiti di rosso contro l'emorragia di umanità. Rosso come i vestiti fatti indossare ai bambini che affrontano la traversata verso l'Italia, nella speranza di essere più visibili in caso di naufragio.

Questa iniziativa, lanciata da Libera e condivisa da varie associazioni ha unito tutti coloro che si oppongono alla politica italiana in materia di immigrazione, ma soprattutto alla mentalità dominante secondo la quale gli immigrati "ci rubano il lavoro" e tutti i diritti in generale. Ma dall'altra parte si è dovuto registrare la reazione di coloro che non hanno perso occasione per ribadire l'esistenza di altre problematiche, sostenendo la necessità di occuparsi di "ben altro". Ovviamente nessuno nega l'esistenza di altre questioni ugualmente importanti, né alcuno ha la presunzione che indossare una semplice t-shirt possa aiutare fattivamente gli immigrati. Ma d'altronde si è sentito il dovere morale di schierarsi, di mettere i puntini sulle I e ribadire l'esistenza di un'Italia che si oppone alla chiusura dei porti, che non vede nello straniero la causa dei propri problemi.

Ed è questo il senso del "Maglietta Rossa Day": non risolvere i problemi degli immigrati, neanche dire "sono tutti bravi e buoni" (atteggiamento piuttosto odioso, oltreché irrealista), semplicemente accendere i riflettori sulla loro storia e schierarsi a fianco della loro sofferenza. Quindi perché una manifestazione di tal fatta dovrebbe arrecare danno agli Italiani? In fondo non si sta chiedendo soldi a nessuno (la t-shirt ognuno la acquista coi propri soldi) né si sta intralciando la risoluzione dei "ben altri" problemi di cui soffre l'Italia. Il problema di fondo sembra essere non volersi rendere conto dell'esistenza di problematiche serie, anche se le stesse non ci riguardano direttamente. Nessuno di noi ha, per fortuna, fatto esperienza di un naufragio, né della necessità di salvarsi. Ma non possiamo far finta che certe realtà non esistano.

Quindi è inutile (e abbastanza stupido) nascondersi dietro la frase "ci sono altri problemi da risolvere". Intanto da un governo ci si aspetterebbe appunto la risoluzione ai problemi, o almeno una fattiva azione in quella direzione. E comunque il "Maglietta Rossa Day" non voleva avere carattere risolutivo, ma semplicemente essere un minuto di riflessione e condivisione di una sofferenza che, seppure lontana dalla nostra realtà quotidiana, non può (anzi, non potrebbe) lasciarci indifferenti. Ma c'è un'altra questione che è saltata agli onori della cronaca lo scorso 7 luglio: chi ha il diritto di indossare la maglietta rossa? Perché, attenzione, il rosso non sta bene a tutti. E no, non c'entrano le questioni politiche: in quel caso nulla c'entravano i Comunisti, poiché la manifestazione non voleva avere caratterizzazione politica, bensì umanitaria.

Certo, avrebbe fatto un po' ridere (per non piangere) vedere ad esempio un Salvini rossovestito: le sue politiche hanno sbandierato ai quattro venti gli intendimenti del suo mandato in materia di immigrazione. Sappiamo già che non è interessato alle sorti dei migranti, e lo avremmo continuato a pensare anche se avesse trovato la t-shirt rossa e si fosse fatto un selfie da usare come immagine del profilo su Facebook. Nel suo caso ci vuol altro che una maglietta rossa per far cambiare idea all'elettorato! A nessuno interessa che non abbia trovato la maglietta per l'occasione, anzi probabilmente il suo unirsi alla manifestazione la avrebbe svilita, riducendola ad un mero show a favore di telecamere! Quindi, Salvini non faceva parte dei "modelli in rosso". Ma le altre persone? Perché si è diffuso il pensiero che solamente una persona povera possa fare sua l'ideologia umanitaria di difesa dei migranti?

Non certo perché si pensa che qualcuno possa immedesimarsi nella situazione: per fortuna gli Italiani non hanno (ancora?) questa problematica. E quindi, chi ci autorizza a pensare che una persona ricca non possa essere sensibile a determinate tematiche e non debba, anzi, utilizzare le sue ricchezze per mettere una toppa alle umane sofferenze? Chi siamo noi per ergerci a interpreti della altrui mentalità? Non sempre è vero che "chi è a pancia piena non crede al digiuno". Magari perché, prima di mangiare, anche lui ha vissuto l'esperienza della fame. O più semplicemente perché nessuno di noi vive nello spazio, e ci sono per fortuna persone in grado di rendersi conto anche di situazioni che non li riguardano direttamente. Quindi smettiamola di essere snob e pensare che “chi ha l'attico a New York" non debba interessarsi di certi argomenti, mentre chi abita a Scampia sia "per DNA" più propenso a caricarsi sulle proprie spalle i mali del mondo.

Perché questo atteggiamento snob? Anzi, si potrebbe sperare che chi ha i soldi voglia tramutare il pensiero umanitario in azione fattiva, e possa fare qualcosa per risolvere la situazione di cui si è occupato. E quindi, non è meglio se si riesce a coinvolgere anche persone che possono andare dalle parole ai fatti? D'altronde l'idea di base dovrebbe essere cambiare una realtà, non preservarla in maniera che si debba, di tanto in tanto, tornare a vestirsi di rosso! Quindi ben venga l'impegno di persone "con le mani in pasta", consapevoli della situazione. Perché dal minuto di silenzio si possa passare alla discussione e all'azione per trovare una soluzione alla questione.

E che dire delle centinaia di immagini del profilo che il 7 luglio hanno invaso i profili Facebook? Un male dei nostri tempi sicuramente. Così come l'hashtag #apriteiporti, che per giorni ha fatto mostra di sé sulle bacheche di persone di ogni tipo. Certo, a volte sarà potuto sembrare una dimostrazione di intenti anche di cattivo gusto, ma c'è anche un lato positivo, ovvero la questione dell'emulazione: se io vedo un'amica che di punto in bianco mette sui social network una maglietta rossa magari resto colpito dal colore e quindi mi vado ad informare sul perché di questa decisione. Sia mai che, una volta informato, decido anche io di interessarmi di immigrazione e diritti e diventare parte attiva di un progetto in favore dei più sfortunati. Insomma, abbiamo i social network: cerchiamo di tramutarli in uno strumento di promozione sociale.

In definitiva, nonostante i dubbi che da ogni parte può aver suscitato la manifestazione delle magliette rosse, credo non si possa buttare via il bambino con l'acqua sporca: sicuramente le intenzioni erano buone. Non si può bocciare un momento di presa di coscienza su una problematica globale. Ma certo si è consapevoli che non può finire lì. Ma insomma, la maglietta rossa può essere servita a contarsi, a capire di quante forze possiamo disporre. Adesso che sappiamo chi siamo e dove siamo abbiamo il dovere di iniziare un percorso, tirare fuori le idee e trovare il modo di realizzarle (e possono tornare utili coloro che hanno "l'attico a New York"). Quindi, indossiamo gli abiti da lavoro e… gambe in spalla!

 

Immagine ripresa liberamente da pxhere.com

Ultima modifica il Lunedì, 16 Luglio 2018 18:51
Elena Papucci

Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell'Arci.

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