Sulle prime potremmo derubricare la questione dietro l'etichetta "imbecillità varie ed eventuali". Infatti chiunque abbia un minimo di conoscenza delle cose del mondo è perfettamente in grado di decretare l'assoluta indipendenza delle due questioni. Ma purtroppo in Italia ci sono tanti, troppi, che non hanno idea di quale sia la procedura attraverso la quale arrivano i soldi agli extracomunitari; anzi, per meglio dire, i fondi destinati alla loro accoglienza.
Infatti il buon Fabrizio ha un bel mettere in relazione i problemi di suo figlio con l'accoglienza migranti: ovviamente indigna la situazione dei portatori di handicap nel nostro paese, ma non serve a nulla rifarsela con chi salva la via ai migranti. I soldi ci devono essere per entrambe le esigenze, anche perché in quel caso non vale la teoria dei "vasi comunicanti"; i fondi in nessun caso possono essere travasati da una parte all'altra.
Quindi una questione è presto risolta: non vale l'aut aut. In nessun caso accogliere chi arriva da noi per provare a rifarsi una vita toglie qualcosa a chi invece è nato nel nostro paese con gravi problematiche. Questa la soluzione logica del problema; Bracconeri non ha quindi nulla di cui preoccuparsi o indignarsi.
Ma quello che invece indigna il lettore è il parlare a nome non soltanto del figlio disabile, ma di tutti i genitori di portatori di handicap e/o diversamente abili (definizione obbrobriosa…) stessi. Veramente gela il sangue la volontà di ergersi a portavoce di un'intera categoria di persone, composta dalla più svariata umanità, accomunata solamente da una caratteristica certamente non scelta deliberatamente. Si dà per scontato che tutti gli affetti da un handicap siano così meschini da scagliarsi contro chi ha problemi sicuramente diversi dai propri, ma magari non di portata inferiore.
Ma, caro italiano medio, mi dispiace deluderti: i disabili (o i loro genitori) non parlano "come un sol uomo", ma sono capacissimi di sviluppare un pensiero autonomo. Ce ne sono di razzisti, purtroppo, ma anche tanti pronti ad accogliere il loro prossimo, o almeno non propensi a vederlo come un nemico o qualcuno su cui scaricare le proprie recriminazioni. Ed è qua l'inghippo: il ragionare per stereotipi fa perdere di vista la semplice realtà dei fatti. Un disabile non è un unicum sempre uguale a se stesso, a cui di volta in volta è stato dato un diverso volto e/o nome.
Se non è corretto attribuire ai portatori di handicap un generico odio verso i propri simili, rei di non avere anche loro una condizione di svantaggio, non è altresì pensabile di immaginarli tutti "angioletti". Infatti non è così strano imbattersi in portatori di handicap "carogne", preoccupate solo del loro tornaconto e capaci di usare la loro disabilità a loro favore, per ottenere dei vantaggi che altrimenti non sarebbero alla loro portata. Altrimenti detto: il fine giustifica i mezzi! D'altronde non c'è da stupirsi: nessuno potrebbe stupirsi di trovare un biondo "buono" ed uno "cattivo". E allora, perché non applicare lo stesso metro di giudizio a chi si trova su una sedia a rotelle?
E non c'è nulla di male se dichiariamo che un disabile "ci è antipatico"; d'altronde, non diremmo forse la stessa cosa di un normodotato? Anzi, qualsiasi portatore di handicap dovrebbe essere fiero di stare antipatico a qualcuno, poiché è quel sentimento che gli restituisce la sua umanità, che lo rende umano, avente sue proprie caratteristiche e peculiarità, e non lo rinchiude in un recinto di innaturale asetticità, come una bambola distaccata dalle cose del mondo.
Quindi il tweet del "ragazzo della 3C" può essere definito un tipico esempio di un modo di ragionare del quale ci dobbiamo liberare, se vogliamo far diventare i portatori di handicap davvero parte del mondo. Dobbiamo infatti riconoscer loro il diritto di avere un pensiero autonomo, e riconoscerci il diritto di rispondere liberamente a questo pensiero, senza essere legati da sentimenti di pietà e/o colpa.
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