Nelle settimane passate avevamo cercato di contribuire alla discussione chiedendo delle svolte a partire dal metodo del confronto, per poi giungere fino al merito, per questo abbiamo deciso qui di osare di più, iniziando a parlare dei contenuti che, a nostro avviso, dovrebbero riempire quei simboli, tanto decantati, ma oramai svuotati del loro vero portato ideologico.
Siamo assolutamente convinti che al centro vada posto il “lavoratore”, ma soprattutto il “lavoratore” di oggi.
Forse alcuni degli errori fatti in questi anni nascono proprio da qui. Nascono dalla nostra incapacità di leggere i mutamenti profondi che hanno investito la società tutta e, con essa, la vita quotidiana di quel nostro “patrimonio”. Molti in questi ultimi anni hanno parlato di un sistema capitalista in crisi, costretto ad affrontare le nuove sfide cercando di rigenerarsi, diventando sempre più aggressivo. Ma, a nostro avviso, questa è forse una prospettiva limitata, che non ci fornisce un’analisi a tutto tondo della realtà che viviamo. In particolar modo la nostra generazione ha vissuto in questi anni una “rivoluzione” del mercato del lavoro, ha subito la messa in crisi del sistema fondato sul lavoro subordinato, si è dovuta confrontare con un arretramento sul piano dei diritti spaventoso. Non a caso la nostra generazione è la prima a vivere quella strana condizione per cui i figli sono più poveri dei padri.
Per non parlare poi della globalizzazione e dei suoi effetti. Finché l’Unione Europea rimarrà una banca d’affari, piuttosto che un Europa dei Diritti; finché non esisterà un mercato del lavoro omogeneo, che prevede pari salari e pari diritti; continuerà l’esodo di aziende in salute verso “paradisi” dove la manodopera costa un quarto rispetto a quella italiana, continueranno le CIG e le mobilità, continuerà la macelleria sociale.
Abbiamo in questi anni assistito alla destrutturazione del modello classico del conflitto capitale-lavoro, quello che prevedeva un rapporto padrone-lavoratore, in cui da un lato della barricata c’era chi elargiva il salario, mentre dall’altro stavano i lavoratori che assicuravano il profitto del padrone, garantendo la produttività. Oggi tutto questo non esiste più o comunque è una realtà che non riguarda la maggioranza della classe lavoratrice del nostro Paese. Oggi sono molti di più, soprattutto tra le generazioni più giovani, quei lavoratori che sono costretti a barcamenarsi tra un contratto a progetto e un tirocinio, tra una prestazione occasionale e quel magma indefinito delle partite iva. Oggi le aziende basano la parte più significativa dei loro profitti sulla finanza, privando in questo modo i lavoratori della loro arma principale, il blocco produttivo. Il peso della contrattazione si basa quindi su cardini diversi. In questo l’esempio Fnac fa scuola: un’azienda in salute, con profitti in crescita, chiude i battenti perché la politica aziendale della multinazionale di turno preferisce spostare i suo investimenti altrove.
Questa è, in estrema sintesi, la realtà che oggi abbiamo difronte e con la quale dobbiamo venire a patti, modificando il nostro modo di fare politica e i nostri obiettivi. E’ evidente che il “Socialismo” è per noi l’unico modello che riteniamo valido, ma riteniamo anche che non sia più possibile chiudere gli occhi difronte allo stravolgimento del modello economico e sociale che si è verificato. Pensiamo che un’analisi della realtà, senza tabù inutili, sia il primo passo da cui partire se vogliamo ricostruire il nostro Paese, ricostruzione che non può non partire da altro se non dal lavoro e dai lavoratori, dai loro bisogni, dalla difesa della loro dignità e dalla loro riorganizzazione.
Non si può parlare di costruire una sinistra credibile, che veda al suo interno i comunisti come motore principale del cambiamento, se non si riparte dalle fondamenta, se non ci poniamo il problema di analizzare il presente, formulando proposte chiare e credibili, che ci facciano tornare ad essere utili al cambiamento, ma soprattutto ad essere percepiti come tali.
E’ veramente triste vedere come molti in questi giorni si muovano in modo scomposto, annaspano, cercano di gestire un declino ingestibile, fornendo parafulmini che rischiano solo di gettarci in un abisso, se possibile, ancora più profondo. E’ indispensabile per noi, proprio perché comunisti, ambire a qualcosa di più. Dobbiamo essere capaci di sfruttare le potenzialità del momento, quelle poche che ancora abbiamo, per ricominciare e ritrovare quella sinergia, che da anni abbiamo perduto, con quei blocchi sociali che dovrebbero costituire i nostri riferimenti e che, oggi più che mai, hanno un fondamentale bisogno di organizzarsi e di essere rappresentati.
Per concludere così come abbiamo iniziato: “…l’unità del lavoro, non è soltanto lo strumento più efficace di difesa degli interessi economici e morali dei lavoratori: è anche una leva potente per la ricostruzione economica, politica e morale del paese. Marciando verso la propria liberazione, il lavoro organizzato ed unito conduce tutta la nazione sulla via della libertà e del progresso, verso la rinascita.” Giuseppe Di Vittorio, 1944
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