Lunedì, 24 Giugno 2013 00:00

Io so' Carmela: la graphic novel

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15 Aprile 2007. Carmela si getta dal settimo piano di un palazzo della periferia di Taranto, dopo anni di una guerra che ha tentato invano di combattere da sola.
Oggi a sei anni dalla sua morte, la sua famiglia continua a lottare perché Carmela possa ottenere giustizia, perché la sua storia rompa finalmente il muro del silenzio e dell’indifferenza.

Ora c’è una grafic novel che la racconta, racconta di lei, del suo inferno, racconta dei suoi tentativi di farsi coraggio, racconta di quel suo essere bambina che le è stato portato via senza altro motivo che non quello della violenza e della sopraffazione. Una violenza tremenda, quella violenza che ti porta via tutto, compresa la dignità del tuo essere donna o, come nel caso di Carmela, la felicità di vivere quel momento particolare della vita in cui si inizia a “diventare grandi”, a scoprire sensazioni che non si conoscevano e che ci regalano ogni giorno una sorpresa. Per Carmela non è stato così. Lei non ha vissuto nessuna gioia, per lei non c’è stata nessuna sorpresa, per lei c’è stato solo l’inferno.

Ma la cosa che della storia di Carmela fa più rabbia e che ricorre in tutto il racconto è l’ignoranza. L’ignoranza delle istituzioni e della magistratura che non hanno saputo, o voluto, ascoltare. L’ignoranza della scuola che non ha saputo svolgere il suo compito più importante, capire e guidare i ragazzi verso la vita. L’ignoranza della gente, secondo cui una ragazza, o meglio una bambina, è semplicemente una “Puttanella”.
Quell’ignoranza che genera nella migliore delle ipotesi indifferenza, nella peggiore altra violenza, come in una sorta di perversa spirale infernale, che pochi o addirittura nessuno cerca di interrompere.
Sei anni sono passati da quel maledetto giorno in cui Carmela ha smesso per sempre di sperare. Sei anni e solo venerdì si è aperto, a Taranto, il processo contro i suoi stupratori, ma solo tre dei cinque colpevoli, visto che per due di loro, minorenni all’epoca dei fatti, il tribunale ha deciso di optare per la “messa alla prova”.

L’Italia ne ha viste tante in questi anni, sono cambiati i governi, la crisi economica e sociale ci sta mettendo in ginocchio, i “Cittadini” hanno conquistato un posto di primo piano nella vita pubblica del paese, ma nulla è cambiato. L’indifferenza resta e, come diretta conseguenza, l’assordante silenzio su questa come sulle centinaia di altre storie simili che hanno macchiato il nostro “Bel Paese” in questi anni.
I dati sui casi di violenza di genere, femminicidi e non, ci parlano di numeri imbarazzanti e di una preoccupante tendenza a crescere.
Dicevamo poco o niente è stato fatto affinché la scia di sangue si fermi. E’ vero che per lo meno le luci della ribalta si stanno accendendo su queste storie, che al contrario di quanto accadeva in passato le donne hanno cominciato a parlarne e a gridare aiuto, ma purtroppo il loro grido non sempre sfonda le coscienze di chi qualcosa potrebbe farla.

Basti pensare che Carmela ha dovuto aspettare sei anni perché la magistratura si accorgesse della sua storia, nonostante lei, seppur bambina, avesse fatto i nomi dei responsabili e indicato i luoghi del suo dramma.
La violenza di genere, il femminicidio, troppo spesso spaventa. Spaventa persino chi avrebbe il compito di proteggerci, spaventa perché costringerebbe tutti ad una riflessione profonda sulle cause scatenanti. Costringerebbe ognuno a fare i conti con la realtà e ad ammettere che il nostro non è un paese “civile” e non lo è perché, nonostante tutto, non si è mai liberato da una concezione della donna che la vede come un oggetto da possedere e da usare per scopi riproduttivi o di cura.

Perché continuiamo ad essere assoggettati al pensiero dominante, secondo cui la donna diventa importante agli occhi dell’opinione pubblica solo se ricopre il ruolo di “velina del potere”. Non siamo mai stati in grado di andare oltre quell’idea di donna che si realizza dedicandosi al “focolare”, in un Paese in cui a pagare il prezzo più alto della crisi, oltre i giovani, sono proprio loro, le donne.
Come possiamo veramente considerare un paese civile, quello in cui una ragazza che esprime un’opinione diversa, durante una discussione in classe, si sente rispondere dai suoi compagni: “sta’ zitta puttana!”?
Solo permettendo alle donne di conquistare la propria autonomia e permettendo loro di emanciparsi dal ruolo di subalternità e, troppo spesso, dipendenza, in cui la solitudine e le condizioni economiche le hanno relegate, solo allora l’odio e la violenza cesseranno. Solo allora la nostra guerra potrà dirsi vinta. Solo allora Carmela e tutte le altre potranno avere giustizia.

Immagine tratta da: www.comunicazionedigenere.wordpress.com

Ultima modifica il Domenica, 23 Giugno 2013 17:05
Carlotta Sorrentino

Nata a Roma nel 1984, figlia e nipoti di compagni, sono cresciuta, anche se non lo ho mai conosciuto, nel mito di mio nonno, partigiano a sedici anni. Sono iscritta a Rifondazione Comunista dal 2001, dopo neanche venti giorni dall'omicidio di Carlo Giuliani, dalla Diaz e da Bolzaneto. Oggi sono una mediatrice culturale e lavoro con i bambini stranieri, professione scelta per passione, ma anche perche' ci credo ancora, nonostante tutto. Sono un'inguaribile idealista e forse, anche per questo, continuo ad amare la Politica!

 

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