Sabato, 13 Luglio 2013 00:00

Il futuro del lavoro, tra Cambogia, California e Cina

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Gli argomenti sollevati dall’articolo di Croatto e Palagi sono molti e complessi; volendo intervenire su molti di essi, per comodità cercherò di seguire il loro ordine di esposizione, anche se lo farò in maniera poco organica e spero non troppo confusa.

1) Concordo su molte delle assunzioni dell’articolo, certamente sulla prima che “la crisi della rappresentanza si accompagna ad una crisi elaborativa”; ho l’impressione che questa crisi elaborativa sia in Italia più accentuata che altrove: basti confrontare ad esempio i materiali prodotti dalle fondazioni della sinistra tedesca (Fondazione Ebert, Fondazione Luxemburg, Fondazione Bockler) con la povertà, e gli scarsi mezzi, delle corrispondenti strutture italiane. Sono meno convinto che la “fabbrica a tutti i costi” costituisca il modello di lavoro dominante. È vero che, volendo darci un riferimento teorico più ampio, il nesso accumulazione del capitale – creazione di posti di lavoro continua ad essere indebitamente dominante. Ma accumulazione del capitale non è tout court fabbrica. E fuoriuscire dalla creazione di plusvalore come base dello sviluppo e dell’occupazione è cosa piuttosto difficile, e secondo me, non alla portata dell’autoimpiego, quanto forse di politiche macro (vedi il testo di Mazzetti “Ancora Keynes?!”).

2) Lo sviluppo di forme di auto impiego o di rapporti di lavoro non standard (cioè diversi dal modello fin qui prevalente “lavoro full time a tempo indeterminato”), può essere categorizzato in diversi modi, a partire da diversi punti di vista, che non necessariamente sono contraddittori gli uni con gli altri. Si può introdurre legittimante la categoria di “lavoro economicamente dipendente”: “economicamente”, non “giuridicamente”. Quella per cui lavoro in stretta connessione con una impresa o datore di lavoro che etero-determina quel che faccio, anche se non sono in alcun modo dipendente. Restando in quest’ottica si può essere dei “falsi lavoratori autonomi”, oppure si può essere “parzialmente autonomi”, ma quel che conta è l’inserimento in una catena di comando che ha una impresa (spesso una grande impresa) che tiene il coltello dalla parte del manico. Non è una questione che riguarda solo i lavoratori, ma le stesse imprese, come dimostra l’infinita diatriba sulla subfornitura e la dipendenza economica che oppone le associazioni datoriali industriali alle associazioni datoriali artigianali (le prime riportando tutti i rapporti inter-impresa al dato giuridico della indipendenza di rapporti fra soggetti autonomi, i secondi cercando di dimostrare che al di là delle forme ci sono dei rapporti di dipendenza che sollecitano qualche tutela pubblica addirittura nei confronti di alcune tipologie di impresa): “ti pago quando sta scritto in contratti liberamente sottoscritti” vs “no, mi paghi entro un termine ragionevole che mi aiuta a preservare la mia indipendenza”. Un altro filone di pensiero parla invece di “lavoro autonomo di seconda generazione”, intendendo che nel capitalismo contemporaneo si creano nicchie che richiedono la moltiplicazione di unità di impresa/lavoro che hanno una ragion d’essere indipendente dallo sfruttamento selvaggio che fa capolino dietro l’idea dei “falsi lavoratori autonomi”. Ovviamente tutte e due le visioni possono essere vere, magari è diverso il “confine” che gli uni e gli altri pongono fra queste due categorie. “Continuare a escludere dalla rappresentanza sindacale quei lavoratori che hanno scelto una via autonoma rispetto alle classiche forme di lavoro dipendente ?” (questa è la domanda retorica che si pongono Croatto e Palagi) non ha senso se si tratta di “lavoratori economicamente dipendenti”. Se si tratta di “lavoratori autonomi di seconda generazione” la questione è più complessa, perché l’area di interessi comuni con i lavoratori dipendenti tradizionali è più ristretta che nel caso precedente, e forse è meglio per tutti se, accanto alla ricerca di convergenza con i lavoratori dipendenti, questi lavoratori si coalizzano fra loro, magari trovando convergenze nell’organizzazione di alcune tipologie di servizi, etc.

3) Le divisioni “fra il professionista, il lavoratore autonomo e il lavoratore dipendente” non saranno nette, ma certo sono profonde e complesse; per la verità non sarebbe poco neanche superare le profonde divisioni che travagliano il lavoro dipendente al suo interno, ma questo (e il modo di farlo) è un altro tema. Il come farlo non è semplice. Un collega raccontava che un dirigente di un potente consiglio sindacale di un grande gruppo industriale tedesco, interrogato su una certa passività del sindacato a lottare per estendere le tutele sindacali (che in Germania sono solide) ai lavoratori delle fabbriche di subfornitura, meno sindacalizzate e con molti lavoratori precari (che hanno condizioni non troppo diverse dai loro colleghi italiani) rispondeva che dopotutto stava a loro, ai lavoratori “marginali”, farsi sentire, e che anche ai lavoratori delle fabbriche leader nessuno aveva regalato nulla e ogni piccola conquista era costata lotte, impegno, fatica. Questo è un modo di pensare molto diffuso anche da noi, che non andrebbe sottovalutato, che sembrerebbe avere qualche giustificazione, se non si riflettesse sul fatto che tutte le condizioni di lavoro “si tengono”, dipendono le une dalle altre, e che sarà molto difficile difendere le conquiste già acquisite violando il principio per cui occorre sempre tendere a parificare le condizioni di lavoro per lavori tecnicamente uguali.

4) Un punto importante è che la crisi della fabbrica fordista modifica la posizione, i compiti, le aspettative anche dei lavoratori dipendenti standard, di quelli che stanno nella “fabbrica”. Un economista francese (Coriat) che ha studiato il toyotismo, i principi produttivi che negli anni Ottanta hanno collocato la fabbrica giapponese in una posizione infinitamente più forte della fabbrica fordista (americana) tradizionale, ha parlato di “autonomazione”: il lavoratore giapponese applica l’automazione, l’innovazione tecnologica, ma soprattutto gli si richiede autonomia, ed è per questo che è più produttivo, si assume più responsabilità, è più polivalente, polifunzionale, anticipa le criticità ed è in grado di risolverle senza aspettare le risposte dell’Ingegner Taylor, che darà delle sue buone risposte, ma sempre dopo. Altri autori hanno parlato di “imprenditività”, per segnalare quelle caratteristiche, per certi versi proprie dell’attività imprenditoriale, ma che nel capitalismo moderno sono delegate al, si potrebbe dire rovesciate sul, lavoratore dipendente, che rimane dipendente, produttore di plusvalore etc. etc., ma che si assume delle funzioni, per esempio accettare o no i beni semilavorati che provengono da un reparto “a monte”, che possono essere rifiutati perché di non soddisfacente livello qualitativo o anche perché la domanda del bene finale è improvvisamente venuta a mancare. Per l’impresa è conveniente attribuire queste funzioni al lavoratore (fra l’altro risparmia, pagando meno controllori intermedi del lavoro altrui); inoltre concentrare l’attenzione sulle “competenze” che consentono l’imprenditività è un modo di non rimettere in discussione l’organizzazione del lavoro e le “catene di comando” sul lavoro storicamente consolidate. Comunque il succo generale di quello che volevo dire è: non attribuiamo al nuovo lavoro autonomo tutte le caratteristiche innovative del lavoro che possono appartenere (anche) al lavoro salariato, e che non sono tutte “buone” (per esempio lo stress è un condizione generalizzata dei “nuovi lavori” e sempre più però anche dei “vecchi lavori”).

Il modello giapponese da molti anni è stato da alcuni interpretato come un modello accentuatamente dualistico: un nocciolo di lavoratori “a vita”, altamente flessibili, integrati nel sistema di impresa ed una massa fluttuante, con tutele decrescenti a seconda della collocazione nei vari “anelli di subfornitura”, progressivamente lontani dall’impresa centrale. Questo modello, che costituisce probabilmente una delle anime del “toyotismo”, spiega fra l’altro perché è assolutamente improprio parlare di “fine del lavoro a tempo indeterminato”: nel tempo cambieranno le caratteristiche e le tutele (e in Giappone si stanno indebolendo) di cui godono i lavoratori “centrali”, ma la differenziazione del lavoro, lungi dall’essere il prodotto di una azione sindacale disomogenea, è una necessità assoluta per la flessibilità di sistemi di impresa versatili e flessibili. Questi elementi sono trasfusi nel modello della “value global chain”, la “catena produttiva globale”, in cui poche imprese leader (in Europa soprattutto quelle tedesche) disarticolano le originarie catene produttive verticalmente integrate (quelle per cui la Ford di Henry Ford possedeva dalle miniere in cui veniva estratto il minerale alle officine in cui veniva lavorata la lamiera alle fabbriche in cui venivano prodotte e assemblate le auto alle fabbriche della componentistica: tutto sotto un unico marchio) e frammentano il ciclo produttivo in maniera flessibile (ossia potendosi sostituire un produttore di fase o di componente con un altro in un paese diverso senza eccessivi costi) appoggiandosi alla presenza di mercati aperti e a regole favorevoli alle imrpese. È un modello produttivo non certo limitato alla produzione industriale, ma diffuso in tutti i settori a partire da quelli terziari.

L’Europa non ci salverà; tutta la costruzione dell’Europa non solo è stata fatta in modo da accompagnare, a scapito dei sistemi nazionali di garanzia del lavoro, lo sviluppo di imprese globali, ma è addirittura stata fatta, secondo alcune interpretazioni, precisamente a questo scopo.

La retorica dell’autoimpiego, dello sviluppo locale, delle iniziative locali, che tanto spazio ha nelle politiche del lavoro europee, è, in questa visione, un modo di indorare la pillola da parte delle élites dominanti e di accompagnare un indebolimento selettivo del tessuto industriale che certo fa pagare i prezzi più alti ai lavoratori “marginali”.

5) Un altro punto importante dell’articolo di Croatto e Palagi riguarda “il futuro industriale di questo paese” e il “sistema produttivo che vogliamo ricostruire”. Penso che sarebbe bene partire da un’analisi delle tendenze in corso (quali modelli di impresa e di sistema di imprese si vanno affermando?) e delle possibili alternative ad esse.

Nei modelli di impresa emergenti c’è forse più “Cambogia” che “California”, per riprendere i termini estremizzati degli autori della’articolo. In ambito internazionale il modello di impresa in questo momento vincente è quello delle imprese “a partecipazione statale” cinesi (1), non quello delle ipotetiche microimprese californiane; anche se questo è un dato accuratamente ignorato, con imbarazzo, dalla maggior parte degli analisti dello sviluppo cinese. L’elemento di superiorità “mesoeconomica” di questo tipo di struttura di impresa è, ci sembra, la presenza di una rete di “integratori di sistema”, che fanno sì che molte scelte di impresa siano coerenti con le scelte economiche generali del paese, anche a scapito della massimizzazione immediata dei profitti, perché tengono conto di un insieme complesso di obiettivi. Una rete di “integratori di sistema” è anche quella costituita, in Giappone, negli anni Sessanta - Ottanta, da un personale dirigente devoto certo alle ragioni dell’impresa, ma anche alle indicazioni del MITI, il Ministero dello sviluppo tecnologico giapponese; in Cina la fedeltà ad una entità sovra aziendale passa attraverso la nomenclatura del PCC (il partito comunista); quest’ultimo, attraverso tale nomenclatura, orienta le politiche industriali e indirizza, in maniera coerente con alcuni obiettivi nazionali strategici, ma sufficientemente flessibile, le scelte delle amministrazioni locali e tutti gli organismi di rilevanza economica (2). Si tratta di modelli non replicabili in Occidente, ma con cui comunque avremo sempre più a che fare, e che ci riproporranno la necessità di una “integrazione di sistema” fra politiche macro, politiche industriali, strategie di impresa e sollecitazione di comportamenti pro-attivi da parte dei lavoratori, almeno da parte di quelli in posizioni-chiave. Date queste considerazioni, continua a sembrarmi centrale la riflessione sulle forme di un nuovo intervento pubblicoÈ all’interno di questo, come ci stanno, in modo non corporativo, i lavoratori; e quali forme di partecipazione sono possibili per i cittadini-utenti rispetto alle imprese pubbliche o simili (o alle amministrazioni pubbliche).

Il modello “bottom up” delle “tante piccole imprese” può avere momenti cooperativi, ma anche di feroce competizione al ribasso (soprattutto se “il mercato”, i “cittadini-utenti” non hanno criteri di valutazione chiari o se comunque sono posti dalle circostanze in aperta contraddizione con gli interessi dei lavoratori: per intendersi, il conflitto pensionato-badante, ma in generale il rapporto dei cittadini con le strutture che erogano servizi sociali e che sono di solito insufficientemente finanziate).

Concludendo provvisoriamente, penso che uno spazio per il “contributo del singolo” (o per i singoli associati in cooperativa), che ha buone idee imprenditoriali ci sia, probabilmente anche piuttosto ampio, ma non senza una grande ripresa dell’intervento pubblico e statale in particolare. Un sistema pubblico strutturato può interagire con alcuni sviluppi di mercato, ma ha prima da essere (ri)costruito. Nel pubblico vanno immesse intelligenze e poteri: tecnici, ingegneri, economisti, giuristi, esperti di comunicazione, etc. Quanto più saranno attivi e capaci, tanto più il sistema pubblico potrà giovarsi di sinergie, consulenze, competenze specifiche etc., prestate anche in forma privatistica, ma, prima, va ricostruito il “pubblico”.


(1) Si tratta di imprese a “partecipazione statale” in senso proprio, ossia che associano privati (spesso membri dei gruppi dirigenti) e proprietà pubblica (spesso bancaria); anche le PPSS italiane in teoria seguivano questo modello, in pratica però vi erano sporadiche tracce della partecipazione di privati.

(2)  Tale intreccio è fortemente intriso di elementi di corruzione e nepotismo, che però, contrariamente alla letteratura che fa derivare da questi difetti la crisi economica, non sembrano avere ripercussioni sul ritmo della crescita.

Immagine tratta da www.meetthemediaguru.org

Franco Bortolotti

Coordinatore Scientifico dell'IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali) CGIL Toscana ed economista.

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