Giovedì, 26 Gennaio 2017 00:00

Il dilemma europeo: intervista a Paolo Ciofi

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Intervista tratta dal numero cartaceo Sinistra ed Europa: un rapporto complesso (vedi qui)

Il dilemma europeo: intervista a Paolo Ciofi


Nel marzo del 2015 Futura Umanità, l’associazione per la memoria storica del Pci da lei presieduta, ha promosso un importante convegno sulla figura di Enrico Berlinguer. Le relazioni esposte in occasione di tale iniziativa sono state recentemente raccolte in un volume da lei curato in collaborazione con Gennaro Lopez (Berlinguer e l'Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo, Editori Riuniti, 2016). A suo avviso, chi oggi ha raccolto, nell'Europarlamento, il pensiero di Berlinguer circa l'Europa?

Oggi, di fronte alla Brexit, che è la dimostrazione clamorosa del fallimento dell’Europa dei trattati di Maastricht e di Lisbona, le parole di Enrico Berlinguer, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica possibile». Il fatto che dopo la sua morte sia stata costruita non l’Europa dei popoli e dei lavoratori, ma l’Europa della finanza e dei mercati che sfrutta, opprime e divide i popoli e i lavoratori, ci dice che il pensiero e la pratica politica del segretario del Pci non hanno avuto, e non hanno tutt’ora, molti seguaci nell’Europarlamento. La vittoria del capitalismo neoliberista su scala globale, insieme alla liquidazione del partito di Berlinguer, ha portato alla conversione delle socialdemocrazie in traballanti stampelle del sistema dominante e del pensiero unico, senza più neanche la volontà di redistribuire la ricchezza a vantaggio dei lavoratori subalterni e dei ceti intermedi. Mentre il partito della sinistra europea è poco più di una sigla, non ha radicamento sociale salvo rare eccezioni, e appare diviso anche su fondamentali questioni di principio. Ma d’altra parte, in questo quadro non esaltante, di fronte alla crisi ormai conclamata dalla Brexit dell’Europa costruita sugli interessi del capitalismo dominate e delle tecnoburocrazie che lo rappresentano, proprio il pensiero critico e la visione politica rivoluzionaria di Enrico Berlinguer tornano d’attualità come punti di riferimento ineludibili per la costruzione di un’altra Europa.

Antitetiche rispetto al disegno europeista promosso da Berlinguer, appaiono le posizioni euroscettiche che, anche a sinistra, raccolgono un crescente consenso. Qual è la sua opinione in merito all’idea di un “plan b” per l’Europa lanciata da Varoufakis, Melenchon, Lafontaine e Stefano Fassina, lo scorso settembre?

È difficile non essere euroscettici in questa Europa. Nella quale il lavoro da diritto torna ad essere una merce mal pagata in balia delle oscillazioni del mercato, e i diritti all’istruzione, alla salute, alla pensione vengono smantellati e trasformati in fonti di profitto per privati, assicurazioni e banche, mentre si moltiplicano le guerre tra poveri e alle porte premono masse di diseredati contro i quali si innalzano muri di incomprensione e di odio. Il problema però non consiste nell’essere in astratto più o meno scettici, pro o contro l’Europa, ma di stabilire quale Europa si vuole. E cosa si fa per mettere in campo un progetto alternativo, lottando su tutti i terreni – culturale, sociale, politico – per poter realizzare tale progetto. È impensabile che la via d’uscita, come già aveva previsto Berlinguer, possa consistere nel ritorno al passato dell’Europa delle patrie, retrocedendo verso Stati nazionali chiusi nella propria identità. L’innalzamento delle barriere nazionali, nelle condizioni della globalizzazione del capitale, significa perdere di vista la portata e la configurazione inedita del conflitto tra le classi, con la conseguenza che i lavoratori finiscono per combattersi tra loro, aprendo la strada a prospettive imprevedibili e incontrollabili, invece di unirsi nella lotta per un’Europa nuova che garantisca libertà e uguaglianza sostanziali. La via nazionalista è dunque una prospettiva falsa, un’illusione pericolosa che alimenta spinte irrazionali e fascistiche senza intaccare i fondamenti su cui si regge il dominio del capitale finanziario in Europa e in ogni singolo Paese. Da questo punto di vista, il cosiddetto “piano b”, come pure il dibattito sul tema euro no-euro sì che divide la sinistra, a mio parere non vanno al cuore del problema: lo dimostra tra l’altro proprio la Brexit, che ha messo in evidenza come il diffuso stato di malessere sociale e di incertezza sulle prospettive sia esploso in un Paese dove l’euro non ha corso. Mentre, per altro verso, la Grecia, emblema della vittoria della sinistra in un solo Paese, rischia di essere soffocata dalle attuali politiche europeiste. Per cui il tema vero è quello di un “piano a”, che rovesci l’intero impianto dell’Unione mettendo al centro, al posto del capitale, il lavoro: nelle sue moderne declinazioni culturali, sociali e politiche. Aveva proprio ragione Berlinguer: senza un adeguato peso politico delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo l’Europa non esiste.

La sinistra italiana si trova oggi divisa su linee di fratture marcate rispetto al tema dell’Europa, tra il succitato euroscetticismo e l’idea di un’Europa ancora più radicalmente unita. Vi è una prospettiva di ricomposizione tra queste due anime? Quale delle due ha oggi maggiore prospettiva di radicamento?

Occorre essere molto chiari su un punto. Non si esce dalla crisi se non si è in grado di condizionare e di mettere sotto controllo il capitale finanziario, in Europa e in Italia. Anche ponendo dei limiti alla proprietà sui mezzi di produzione e di comunicazione, in modo da assicurarne la funzione sociale e di fare in modo che l’iniziativa economica non offenda la sicurezza e la dignità della persona, come prevede la nostra Costituzione. Ma è evidente che il capo del filo di una simile prospettiva non si può afferrare se non si costituisce una soggettività politica con caratteristiche popolari e di massa, che dia forza e rappresentatività alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro secolo. Piuttosto che dividersi sul “piano b” e sulla questione dell’euro, la sinistra dovrebbe cercare l’unità su questo tema strategico, che è diventato di stringente attualità. In Europa e nel mondo preme la necessità di una civiltà più avanzata: di un nuovo socialismo, diverso dai modelli finora conosciuti. Persino in America, con Sanders, si è tornati a pronunciare la parola socialismo.

Stiamo assistendo, nel nostro continente, a spinte sempre più fortemente antieuropee e spesso venate da xenofobia, come si è visto con la Brexit e come si può constatare dalle posizioni della Lega e del Front National in Francia, di Orban e Jobbik in Ungheria e anche di altri esponenti politici. C’è ancora futuro per quella idea di Europa che animò l'iniziativa dei padri fondatori dell’Unione?

Direi che non c’è futuro per l’Europa se non si torna ai fondamenti. Si fa un gran parlare del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita di cui Altiero Spinelli fu promotore. Ma lo si fa spesso, in particolare da parte del presidente del consiglio, ignorandone i contenuti veramente innovativi e riducendolo a un volantino di propaganda in cui scompare l’essenziale. Ovvero il nesso che lega la questione sociale con la questione democratica per perseguire l’obiettivo di fondo di un nuovo ordinamento, in cui non basta affermare il principio liberale dell’uguaglianza davanti la legge. «La rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici». Di conseguenza, sarà necessario affrontare il nodo della proprietà privata, che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Un’impostazione che si ritrova nella Costituzione del 1948, in netto contrasto con i trattati europei, che assumendo come fondamento l’economia di mercato non lasciano alcuno spazio ai diritti del lavoro e ai diritti sociali, considerati variabili dipendenti dal mercato. Non è un caso che dalla collaborazione tra Enrico Berlinguer e Altiero Spinelli, eletto al Parlamento europeo nelle liste del Pci e poi nominato vicepresidente del gruppo comunista, sia nata la proposta più innovativa di quegli anni, il passaggio dal mercato comune all’unità politica dell’Europa. «Senza la forza del Pci - ha osservato il padre del federalismo europeo - non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». E ciò è stato possibile, aggiungeva, perché Berlinguer «ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei». Democrazia e socialismo: le due parole chiave che l’Europa dei trattati tra oligarchie di potere ha nella sostanza cancellato. Emarginando l’Europarlamento e la partecipazione democratica, concentrando proprietà e ricchezza nelle cattedrali del capitale. Generando esclusioni e malessere, accentuando lo sfruttamento esasperato della persona umana e dell’ambiente. Alimentando con ciò la crescita dei terrorismi e il rischio di una guerra planetaria. Ma condannando al tempo stesso sé stessa a un irrilevante ruolo gregario nello scacchiere globale. Democrazia e socialismo per l’affermazione piena della libertà e dell’uguaglianza: sono le parole chiave da recuperare e rinnovare nei significati, se vogliamo arrestare il declino del nostro continente e far avanzare nel mondo la funzione di pace, di cooperazione, di solidarietà e di progresso di un’Europa nuova. Sono le parole che hanno guidato l’impegno di Enrico Berlinguer. E che oggi, in una mutata condizione del mondo, si ripresentano come una necessità storica che chiede una risposta.

Ultima modifica il Mercoledì, 25 Gennaio 2017 22:04
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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