Partirò però da un dato, numerico e netto, che non lascia molto spazio all’interpretazione: in Italia si spende in ricerca circa 1.2% del PIL (circa 22 miliardi di euro), ben sotto il 2% della media UE e quattro volte meno di quanto investa la Germania. La crescita degli investimenti nel settore, dalla crisi del 2008 a oggi, è stato molto simile tra la nostra penisola e gli altri paesi europei (circa 0.2%), ma l’obiettivo di raggiungere il 3% del PIL entro il 2020 pare sempre più una chimera oggi che, praticamente, ci siamo arrivati. Altro dato importante da sottolineare è come a livello europeo il totale degli investimenti in ricerca e sviluppo sia riferito per due terzi alle imprese e per un quarto ad università ed enti di ricerca pubblici.1
Indissolubilmente legati alla spesa nella ricerca, troviamo gli investimenti per la formazione: anche in questo caso l’Italia, che spende circa il 4% del PIL, si trova agli ultimi posti d’Europa.2 Attenzione però a non trarre una conclusione troppo sommaria: dalle tabelle OCSE si vede come l’Italia non sia così fuori dalla media del 4.9%, né così lontana dal riferimento tedesco (4.3%). Allora cos’è che non funziona nel nostro sistema?
Partiamo dal definire una linea: nel mondo scientifico-tecnologico (quello delle lauree STEM – science, technology, engineering and mathematics) c’è una filiera ben delineata che parte con la formazione universitaria, passa da quella post-laurea, arriva al bivio tra ricerca accademica e quella applicata e si conclude con il ritorno economico-tecnologico per le aziende, le università e la società intera. Tra le due sponde, pubblico e privato, si sta cercando, da qualche anno, di costruire ponti sulla base del concetto del trasferimento tecnologico, cioè come portare nella pratica le scoperte fatte nei laboratori e nei dipartimenti universitari. Semplificando ai minimi termini questo ragionamento, l’ordine delle cose dovrebbe portare ad avere un ritorno, economico e non solo, per ogni euro investito in istruzione, formazione e ricerca.
Qua però casca l’asino italiano. Se infatti la spesa per la formazione è abbastanza in linea con quella europea (sempre migliorabile, sia chiaro!), quello che non viene per niente valorizzato è tutto ciò che c’è dopo la laurea e la sua diretta immissione nel mondo lavorativo-produttivo. Solo per fare un esempio banale basti pensare alle migliaia di menti in fuga che creano gruppi di ricerca di alto livello all’estero e che non avrebbero avuto la stessa possibilità qua da noi; ognuna di quelle persone è una fetta di istruzione pubblica per cui noi abbiamo pagato (e quindi investito) senza poi veder tornare il dividendo. È proprio di oggi l’indagine ISTAT su dottorati e post-dottorati italiani e, pensate un po’, ben il 17.2% dei dottorandi italiani vive all’estero!3
Quindi, per fare il punto, l’Italia investe una fetta molto piccola del proprio PIL per istruzione e formazione; non investe, né con il pubblico né tramite privati, nella ricerca, sminuisce il ruolo e la posizione di propri talenti e non crea posizioni per chi, nonostante tutto, continua a fare ricerca tra mille difficoltà. Il risultato è chiaramente una desertificazione delle università e degli enti di ricerca, una fuga in massa dal paese di ragazzi che si portano dietro la vera ricchezza, cioè la conoscenza, e un ritorno tecnologico, sociale ed economico che non arriva. E chiaramente senza impatto di ritorno diventa difficile fare leva per investire e convincere che la ricerca possa essere quel famoso volano dello sviluppo di cui tanti parlano.
Infine, a parte ma non poi così tanto, c’è il problema della strutturazione nelle università pubbliche delle figure che fanno ricerca. Con la riforma Gelmini l’Italia è diventata uno dei pochi paesi nel mondo che non hanno né figure di ricercatori universitari a tempo indeterminato, né figure che si debbano guadagnare sul campo la permanenza tramite una valutazione “results based” del loro lavoro. Ad oggi gli unici fattori che contano per fare il ricercatore in Italia sono il tempo e la lealtà. Solo per citare due numeri, ad oggi nel nostro paese solo il 10% dei dottorati diventa ricercatore o professore (contro il 25% medio UE), mentre ben il 40% non rifarebbe l’esperienza dottorale, ritenendola inutile e controproducente, nonostante l’altissimo tasso di occupazione post-PhD (96%).
Lancerò una provocazione, forte: perché non togliamo di mezzo i concorsi e tutte le alchimie per farli vincere a chi sa già di vincere e non mettiamo in mano ai responsabili dei progetti gli stipendi dei loro sottoposti? Poi ne potremo rendere conto direttamente, sia che vogliano favorire un parente sia che scoprano il nuovo Albert Einstein! Non volevo essere così tragico, ma, ahimè, questo è, ad oggi, lo stato della ricerca scientifica in Italia. Uno stato per niente ben disposto verso la ricerca e chi la vuol fare.
1 https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-12-01/spesa-rd-l-italia-investe-l-13percento-pil-quarto-germania-134159.shtml?uuid=AEq0BdLD
2 https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-08-29/italia-terzultima-europa-spesa-istruzione-germania-spende-doppio-190050.shtml?uuid=AE8jEVJC
3 http://scuola24.ilsole24ore.com/art/universita-e-ricerca/2018-11-26/bene-occupazione-e-stipendio-crolla-soddisfazione-paradosso-dottorato-ricerca-secondo-istat-193623.php?uuid=AE0a6jnG&fbclid=IwAR3XjO0_3soaCBymTwr0daVwMw8xcUzWydMKLraFsdpovBjoJoWu1HwANC0
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