Nel ricchissimo programma della manifestazione, dalla mattina alla sera, si sono svolti numerosi momenti di formazione e approfondimento: aperti a tutti ma rivolti in particolare a giornalisti e operatori SPRAR sono stati gli incontri delle mattine, tra cui #ionondiscirmino - corso di formazione per inquadrare la tematica della discriminazione razziale in riferimento allo sfruttamento lavorativo, all’accesso alla cittadinanza e ai servizi sociali – e Il linguaggio giornalistico e l’informazione sui fenomenti migratori – un occasione di formazione a cura dell’Atlante delle Guerre, uno dei maggiori partner del meeting.
Durante il pomeriggio è stato dato spazio a presentazioni di progetti, dibattiti politici sul tema delle discriminazioni e geopolitici con un focus specifico su Africa e Medio Oriente. Questi hanno raccolto i contributi di noti giornalisti, figure istituzionali, nonché la presenza di chi tutti i giorni si impegna nell’ambito dell’accoglienza e dell’integrazione.
Tra le iniziative politiche e di approfondimento del meeting, riguardo alla parte relativa ai progetti, ricordiamo La narrazione come interazione, uno sguardo rivolto alla raccolta delle storie scritte dai migranti e all’autonarrazione dei percorsi di vita – progetto DiMMi, portato avanti dalla Fondazione Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano. Qui si lega tematicamente il progetto Eisbolè della FARM – FAbbrica dei Racconti e della Memoria che, utilizzando i linguaggi del teatro, del docufilm e del cortometraggio, affronta le “realtà filtrate da sguardi e culture, effetti confusi con cause, a volte per sbaglio, a volte per scelta” (come dal flyer), soffermandosi ironicamente sugli stereotipi e sui luoghi comuni reciproci tra italiani e migranti, uno strumento, secondo le ideatrici del progetto, che, attraverso l'impatto emotivo dell’arte, rompe le differenze e favorisce la comprensione e quindi anche l’integrazione.
Un altro degli incontri pomeridiani è stato Identità in definizione che, in seguito ai saluti istituzionali del Vicepresidente di Regione Toscana Monica Barni e il vicesindaco di Cecina Giovanni Salvini, ha riflettuto sulla questione dei "cittadini stranieri di nuova generazione", ossia i figli di stranieri senza naturalizzazione che, pur essendo nati e vissuti in Italia, a causa dello ius sanguinis non hanno ancora la cittadinanza italiana. Tra i molti ospiti ricordiamo: Francesca Chiavacci (Presidente Arci Nazionale), Fioralba Duma (Movimento Nazionale degli Italiani Senza Cittadinanza), Eva Giovannini (giornalista), Marwa Mahmoud (Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane), Fabio Mugnaini (sociologo).
Insieme ai tanti momenti di riflessione, culturali e di formazione, al MIA non sono mancati concerti serali, laboratori di pittura o di formazione per ragazzi, esposizioni di mostre.
Degli eventi serali dei 5 giorni ricordiamo il live degli Assalti Frontali, che non è stato solo un concerto musicale ma anche un contributo suggestivo in seguito allo scambio interculturale che il gruppo hip hop ha fatto in Libano con l'Arci. Il concerto degli Assalti Frontali è infatti stato aperto da un gruppo hip hop di ragazze provenienti dal campo profughi di Shoruq (Deisheh, Betlemme) a simboleggiare quella vicinanza politica che si può trasmettere con la musica, con quelle note e voci in cui si legge la rabbia e il malessere del presente ma anche la voglia di cambiare e il desiderio di riscatto delle giovani palestinesi. Durante il concerto Militant A ha presentato i suoi libri Storia dell'orso bruno e Soli contro tutto - Seconda edizione di un romanzo non autorizzato che racconta la lotta della scuola pubblica, laica e solidale.
Durante la mattina e il pomeriggio si sono svolti corsi di pittura gestiti dalla Carovana culturale siriana e un laboratorio sul tema dei diritti umani e delle migrazioni - laboratorio Popoli in transito - rivolto ai ragazzi del Centro di aggregazione SocializzAzione del Circolo di Ponte a Elsa gestito dai volontari del Servizio Civile Nazionale e Regionale del Comitato Arci Empolese Valdelsa. Il laboratorio, ultimo tassello di un percorso iniziato al Centro di Ponte a Elsa sul tema delle guerre e della mediazione dei conflitti, con un focus sul Medio Oriente e in particolare sulla questione curda, al MIA si è incentrato sui diritti umani – sulla base della DUDU e della Convenzione dei diritti all’infanzia –, sulla diseguaglianze sociali, geografiche e politiche e sulle migrazioni, tutto, chiaramente, in chiave ludica e interattiva ma al contempo formativa. Con un camper colorato invece, il gruppo di artisti siriani e non solo, dal 2014 gira tutta l'Europa presentando opere artistiche e letterarie di alcuni degli autori più noti in Siria. Le opere prestate alla Carovana in maniera totalmente gratuita per solidarietà da parte degli autori – il costo di alcune di queste vale più del costo del camper! – sono state esposte nel grande stand del ristorante. Parafrasando le parole di uno degli artisti della Carovana, lo strumento dell'arte diventa messaggio universale poiché è il più efficace per poter raccontare aspetti della realtà che tendenzialmente rimangono nascosti: la Siria non è fatta solo di guerra e paura ma anche di colori, pittura, poesia, fotografie e cultura. Le opere artistiche ad esempio non raffigurano o simboleggiano soltanto le ferite e le conseguenze della guerra ma comunicano anche amore, cambiamento, metamorfosi, voglia di vivere. Gli stessi artisti siriani hanno anche diretto un laboratorio artistico rivolto ai ragazzi presenti al meeting. Questi ultimi si sono messi alla prova tagliando e colorando dando vita a una suggestiva e interessante opera d'arte esposta a sua volta all'interno dello stand.
Allacciandoci al tema della Siria, merita un occhio di riguardo il dibattito Conversazioni sulla Siria. I reportage, i racconti, l’attivismo e l’espressione artistica con i giornalisti Emanule Giordana e Fulvio Scaglione e le testimonianze di Aida Husseini (dell’Associazione Basmah e Zeitoun, Libano) e degli artisti della Carovana Culturale Siriana. Il dibattito è stato introdotto da alcune poesie (lette in arabo e in italiano) e pezzi di prosa, di una potenza lancinante e una bellezza struggente. Scaglione, come si può leggere nelle pagine del suo ultimo lavoro, Il patto col diavolo, ha fornito un quadro del complesso mosaico della crisi siriana che non ha fatto sconti alle responsabilità dei paesi occidentali, Italia compresa e alle logiche di “esportazione della democrazia” che sono una linea costante in tutta la politica estera statunitense dall’89 in poi. La crisi siriana, afferma Scaglione, stimolato dalle interessanti domande di Giordana, non è determinata esclusivamente dalle responsabilità delle petromonarchie né da quelle del regime di Assad.
Il Patto col diavolo è duplice, poiché da un lato scoperchia il rapporto perverso tra lo Stato Islamico e il regime saudita e dall’altro il rapporto tra quest’ultimo e l’occidente, recentemente sottolineato da Trump. La strategia politica che dall’’89 in poi abitualmente chiamata esportazione della democrazia, ha sempre avuto lo scopo di occupare politicamente lo spazio geopolitico lasciato vuoto dallo smembramento del mondo sovietico e del Medio Oriente. A conferma della ferrea alleanza tra le petromonarchie del golfo egli stati occidentali, basta guardare un telegramma del Dipartimento di Stato americano del 30 dicembre 2009 in cui si legge che “i donatori dell’Arabia Saudita rappresentano la più significativa fonte di finanziamento dei gruppi terroristi sunniti in tutto il mondo. Mentre l’Arabia Saudita come tale prende seriamente la minaccia terroristica all’interno del paese, è stato e resta molto difficile persuadere i dirigenti sauditi a trattare il finanziamento al terrorismo che emana dall’Arabia Saudita come una priorità strategica. (…) Occorre fare di più, dal momento che l’Arabia Saudita rimane una base di supporto finanziario critica per Al Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba (terroristi pakistani, ndr) e altri gruppi terroristici inclusa Hamas, che probabilmente riceve milioni di dollari all’anno da fonti saudite”.
Anche in una mail inviata nel 2014 da Hillary Clinton – resa pubblica poi da Wikilwaks e che ha creato un grosso scandalo per la candidata alla presidenza – a John Podesta – allora consigliere della presidenza Obama nonché uno dei maggiori collaboratori della famiglia Clinton – viene rivelato il perverso triangolo tra USA, petromonarchie del Golfo Persico e ISiS: “Anche se questa operazione militare/paramilitare va avanti, dobbiamo usare i nostri mezzi diplomatici e più tradizionali per fare pressione ai governi del Qatar e dell’Arabia Saudita, che forniscono supporto clandestino finanziario e logistico all’ISIS e ad altri gruppi Sunniti radicali della regione”1, si legge nella mail. Peccato però che già nel 2010 (quindi dopo l’uscita del telegramma sopra citato) gli Stati Uniti abbiano concluso la vendita di armi a un singolo paese che è la più massiccia della storia americana: 60 miliardi di armamenti consegnati in un colpo solo all’Arabia Saudita, identificato un momento prima come il maggior finanziatore dei gruppi terroristici sunniti. Una vendita record fatta dall’amministrazione Obama – Clinton, superata soltanto adesso da Donald Trump che lo scorso maggio ha firmato a Riad (Arabia Saudita) la vendita di armi e sistemi di difesa del valore 110 miliardi al re Salman. È evidente che stiamo assistendo a uno spettacolo che risulterebbe grottesco se non fosse radicalmente drammatico. E non solo perché l’Arabia Saudita, insieme al Qatar, è uno dei massimi finanziatori del terrorismo fondamentalista, ma anche perché è uno dei paesi in cui i diritti umani vengono fortemente limitati, a cominciare dalla pena di morte “distribuita come l’aspirina”, per citare le parole di Scaglione, dietro il silenzio complice e omertoso dei nostri governi.
Anzi, i politici europei non mancano di fare visite costanti in Arabia Saudita: Hollande vi è stato due volte e lo stesso Hollande a marzo 2016 ha conferito la Legion d’Onore (uno dei massimi simboli della Republique, fondata sui valori di Liberté, Egalité, Fraternité!) al Principe ereditario Saudita Mohammed Bin Nayef – uno dei principali implementatori di quelle leggi che rendono l’Arabia Saudita uno dei paesi più oppressivi al mondo – durante una cerimonia all’Eliseo; altre tre volte in Arabia Saudita vi è stato Valls insieme a 200 imprenditori francesi (i cui contratti sono stati avallati dall’attuale presidente Macron, allora ancora Ministro dell’Economia); 30.000 sono invece gli inglesi che lavorano in Arabia Saudita; i “boschi verticali” e quasi tutti i più grandi e architettonicamente importanti palazzi milanesi sono stati costruiti al 100% con i soldi dell’Arabia Saudita, senza dimenticare che le bombe utilizzate da quest’ultima sono di produzione italiana. È chiaro allora che la retorica sdoganata nei discorsi istituzionali e pubblici e sui media e sulla stampa occidentali è una colossale farsa, prosegue Scaglione. Non ci può essere vera lotta al terrorismo se i principali sostenitori dei terroristi sono anche i nostri migliori amici e loro partner d’affari economici e finanziari.
In un quadro simile anche la graduale perdita di avamposti dell’ISIS e il combattimento a Raqqa che vede lo Stato Islamico in difficoltà, così come la presunta morte del Califfo potranno sì rivestire un valore simbolico e propagandistico nella percezione comune, ma non basteranno a eliminare il problema del terrorismo se si mantiene in vita questo circolo vizioso di patti e rapporti politici, strategici e soprattutto economici tra paesi occidentali e le petromarchie del Golfo Persico.
La visione di Scaglione, riguardo alla crisi siriana, è realistica e di conseguenza lascia pochi spiragli all’ottimismo: come Italia non possiamo fare niente essendo un paese debole e impotente da un punto di vista di ruolo geopolitico all’interno di un sistema di alleanze in cui il nostro paese conta poco o niente – basti vedere la questione dei flussi migratori. Secondo il giornalista l’unico modo per provare a risolvere la crisi in Siria sarebbe un patto internazionale proprio perché in Siria non c’è una guerra intestina ma una guerra internazionale in cui vi sono in gioco gli interessi di ciascuno. Senza un vero accordo internazionale la Siria resta ostaggio e parte di quella III Guerra Mondiale (come l’ha denominata Papa Francesco) fatta di tanti pezzetti.
Finché però permane l’interesse a mantenere la Siria in una condizione di caos ed ebollizione un tale tipo di accordo non vi sarà mai, se non soltanto quando tutte le pedine in gioco avranno guadagnato qualcosa. Interessante anche la testimonianza di Aida che ci ha parlato del lavoro svolto dalla sua Associazione, Basmah e Zeitoun, che ha portato all’apertura di 9 centri sociali nei campi profughi, di cui 8 a Beirut e uno in Turchia. Nei centri si portano avanti progetti educativi, ambientali, di sensibilizzazione, formazione e consapevolizzazione, in particolare per le donne, spesso ignare di quali siano i propri diritti, desideri e bisogni e il loro ruolo all’interno della società. Il primo centro è stato aperto in un campo di rifugiati palestinesi a Beirut in cui vi sono anche tantissimi siriani. Dopo aver portato la prima assistenza è stata realizzata una scuola per i bambini del campo e avviato un lavoro con le donne, che hanno imparato a ricamare e a prendere coscienza dei loro diritti e dei loro desideri e i loro bisogni. Nei campi, racconta Aida, la situazione è estremamente difficile: mancano infrastrutture, acqua potabile, l’elettricità è un lusso.
La percentuale di rifugiati in Libano è straordinaria: nel 2016 erano circa due milioni, ovvero 20 volte di più del numero di rifugiati presenti in Italia. Un numero che è lievitato dopo lo scoppio della crisi siriana, tanto che i rifugiati siriani in Libano sono circa 1 milione e circa 270 mila sono i rifugiati palestinesi arrivati in Libano dopo la guerra arabo-israeliana del 19482. Se si pensa che il Libano è una piccola striscia di terra di circa 6 milioni di abitanti (libanesi), questi numeri fanno ancora più impressione, poiché mostrano che la metà della popolazione è costituita da rifugiati. In pratica in Libano una persona su tre proviene dalla Siria o è un rifugiato palestinese. Il lavoro portato avanti da Aida e dalla sua Associazione è perciò rivoluzionario e di vitale importanza, non solo per i profughi nei campi ma anche per il Libano stesso.
Impetuosa e duramente tragica è stata invece la testimonianza di uno degli artisti della Carovana, chiuso per tre volte nelle carceri di Assad, dove ha subito ogni giorno torture devastanti, fisiche e psicologiche, ed è stato costretto a spostare i cadaveri che affollano le prigioni. Alcuni dei suoi schizzi riportano le agghiaccianti torture perpetrate sul suo corpo e sulla sua mente, tracce indelebili di un regime sanguinario che però non si può additare come esclusiva causa del caos siriano, che, come hanno cercato di mostrare Scaglione e Giordana, richiede un’analisi complessa e non banalizzante o che cade in nette e ipocrite semplificazioni (come spesso fa la stragrande maggioranza della stampa occidentale) che deve porre in causa interessi e rapporti e strategie geopolitiche che partono molto da lontano e che vedono coinvolti i grandi “esportatori della democrazia” dei paesi occidentali.
Il Meeting è stato dunque un incontro necessario per approfondire tematiche di urgente importanza, dalla gestione dei migranti al caos geopolitico siriano, fornendo strumenti e momenti di formazione per chi opera nel sistema dell’accoglienza, per chi lavora e/o realizza progetti sulla non discriminazione e sull’integrazione, per chi si occupa di giornalismo e per chiunque sia interessato a sviluppare un certo tipo di competenze e di conoscenze di cui oggi c’è forse ancora più bisogno.