Sul corpo femminile e sulla donna in generale continuano a pesare delle immagini, dei modelli, delle rappresentazioni, iperbolizzate e diffuse a livello capillare dalla pubblicità e dai media in generale che impongono implicitamente alla donna di essere e comportarsi in un certo modo. I modelli di genere presentati nei media influenzano soprattutto la costruzione adolescenziale del sé, del proprio e dell’altrui corpo. Riempiono l’identità ancora embrionale o comunque non del tutto formata di ragazzi e ragazze che trovano in quelle rappresentazioni dei modelli cui aspirare, a cui si sentono di dover aderire, a cui vogliono corrispondere per trovare un proprio posto nella società.
In una società in cui all’Homo sapiens che nella definizione data da Giovanni Sartori si caratterizza per la sua capacità di creare e comprendere concetti astratti, si è sostituito l’Homo videns, che, sempre seguendo Sartori, è capace soltanto di conoscenza percettiva, i media costruiscono un sistema di desiderio di omologazione che finisce per diventare distruttivo per molti e molte di coloro che a certi modelli, inevitabilmente, non riescono ad aderire, a cui non possono corrispondere, perché quei modelli sono irraggiungibili e infiniti, inappaganti per loro stessa natura.
Il desiderio di omologazione ai modelli proposti dall’immaginario mediatico, dalle rappresentazioni simboliche, dai costrutti socio-culturali è un desiderio estenuante, insaziato e insaziabile e che va a sostituirsi all’immagine stessa del sé, che risulta frustrata dall’incapacità di corrispondere perfettamente al modello, frustrata in questa tensione infinita all’omologazione, a uniformarsi all’ideal-tipo costruito socio-massmediaticamente. La rappresentazione simbolica del sé viene inquinata dall’immagine di un sé irreale che ad essa si sovrappone, ma per sottolineare la sua distanza irraggiungibile, incolmabile per i e le più.
I media, ha sottolineato Tonello, hanno dato estrema forza e incoraggiato certi modelli (soprattutto femminili), certi stereotipi che hanno finito per imporsi come una vera e propria forma mentis, un linguaggio comune, una forma comune di pensiero e di percezione che ci spinge a volerci adeguare a una costruzione simbolica, a volerci riconoscere dentro un immaginario indotto, inculcato, plasmatoci addosso. E dentro questo immaginario non c’è spazio per chi non si adegua, per chi non è omologato. Così come non c’è spazio per chiunque non rientri nei modelli e nelle norme che agiscono sulla sessualità dei nostri corpi, che producono le identità sessuali.
Questi modelli e queste norme “patologizzano”, o vorrebbero “normalizzare”, “curare” gli orientamenti sessuali non eteronormati e le identità sessuali fluide, le identità queer che rivendicano la loro “deviazione”, la loro “distorsione” (queer deriva dal tedesco quer che significa storto, di traverso, che si oppone radicalmente a ciò che è straight, dritto) rispetto alle identità eterosessuali e cisgender, rispetto alle norme e agli imperativi dell’eterosessualità e del binarismo maschile-femminile. Si tratta di identità non incasellabili nella gabbia del sistema diadico, oppositivo, dualistico degli aggettivi maschile e femminile.
Sesso maschile e sesso femminile, come sottolineato da Tonello, anziché designare semplicemente l’insieme del corredo cromosomico, l’insieme delle caratteristiche genetiche, biologiche, anatomiche, vogliono identificare due universi di realtà ben precisi che non sono innate o biologiche, bensì frutto di costruzioni storiche, culturali e sociali sedimentatesi nel tempo e agite da pregiudizi che diventano fondanti un certo tipo di verità, che diviene l’unica ammissibile e addirittura pensabile. Come direbbe Foucault, la sessualità è un dispositivo di potere che plasma il soggetto, che modella, performa e norma le identità.
Stessa cosa dicasi per il genere, che si distingue dal sesso (l’insieme della caratteristiche biologiche e anatomiche, la forma dell’apparato sessuale) in quanto “processo di costruzione sociale e culturale ed indica la rappresentazione, la definizione e l’incentivazione di quei comportamenti che danno vita allo status di uomo/donna”1. Mascolinità e femminilità sono pertanto concetti relativi e, a differenza di quanto ritiene il pensiero comune tradizionale, sono concetti dinamici e contestuali, che mutano e si evolvono nel tempo e nello spazio, e, a seconda delle aree geografiche e dei tempi storici acquisiscono differenti significati e differenti definizioni. Definizioni che però sono sempre tentativi di normazione.
Appena nasciamo entriamo in questi sistemi performativi, appena nasciamo agiscono e conferiscono significato alle nostre identità di genere questi dispositivi di potere: subito ci viene assegnata un’identità di genere, un fiocco rosa o blu, una F o una M da apporre sui documenti anagrafici e quelle iniziali si portano dietro tutto un mondo di significati e definizioni strutturanti prestabiliti, che noi giochiamo e ripetiamo infinite volte, rivestiamo come interpretassimo dei ruoli. Ruoli che ormai ci hanno incorporato, ruoli che ci precedono e ci plasmano, che ci costringono a uno sforzo sociale per potervi aderire quotidianamente e che ci impediscono di pensare a incarnazioni diverse della sessualità, a dislocazioni, a deviazioni, a identità multisessuali, identità che non possono rientrare in un binarismo perfetto ad esempio, e che semmai, ancora oggi pensiamo di dover “normalizzare” (si pensi all’aberrante pratica, diminuita e condannata dall’Oms ma ancora in voga, di interventi chirurgici – vere e proprie mutilazioni genitali – sui corpi intersessuali prima della pubertà al fine di “correggere la loro doppiezza cromosomica e indirizzarli verso un solo sesso), di dover “raddrizzare”.
Il mondo in cui viviamo è capace di pensare e, di fatto, di ospitare ed accogliere, solo la dualità, la diade maschio femmina, mentre è incapace di allargare le maglie del potere (sempre inteso in maniera foucaultiana come azione che si esercita su un’altra azione, non come prodotto o come grado zero della violenza nel senso weberiano ma come azione produttrice, che produce anche soggettività, genera e struttura le identità), è incapace di creare e pensare nuove identità, di aprirsi alla contingenza.
Al contempo si sono imposti due mondi, il femminile e il maschile, a cui si accompagnano tutto un immaginario e un sistema di caratteristiche, prerogative, qualità e mancanze che ormai si sono strutturati come dati di fatto, e interiorizzati in maniera così diffusa e penetrante che la stragrande maggioranza è convinta, in maniera quasi automatica e irriflessa, che ciò che è femminile non possa essere che in un solo modo e ciò che è maschile nell’esatto opposto; che le donne abbiano determinate predisposizioni (tipo la predisposizione alla cura, la sensibilità, l’empatia, l’essere “multitasking”…) e gli uomini delle altre (la razionalità, l’incapacità di comprendere nel profondo l’animo umano, il pragmatismo), ritenendo soprattutto che queste siano caratteristiche innate, e incontrovertibili.
Al massimo, quello che potremmo dire è che la maggiore presenza di alcune caratteristiche nelle donne e negli uomini, deriva anch’essa da un processo storico ed evolutivo, oppure da caratteristiche fisiche, anatomiche che hanno sviluppato certe attitudini: la forza muscolare dell’uomo può aver spinto quest’ultimo a dedicarsi alla caccia e poi all’“arte della guerra”, ma ciò non significa che l’uomo è di per sé violento o aggressivo mentre la donna è per sua natura docile e pacifica.
La nostra, ha detto Tonello, è una società schizofrenica, che da una parte invita e incita all’espressione libera del proprio sé, delle proprie personalità, che fonda la sua costituzione sul principio dell’uguaglianza, ma dall’altra questa parità e questa uguaglianza vengono continuamente negate dai fatti, dalle continue violazioni della dignità di chi, in particolare, appartiene alle categorie più vulnerabili, di chi non rispecchia i modelli imposti dalla società e dalle rappresentazioni mediatiche, delle minoranze sessuali, delle donne stesse, viste ancora, spesso, come oggetti da poter manipolare e possedere a proprio piacimento.
La nostra società, come molte altre, disegna e stabilisce chiaramente ciò che chiamiamo maschile e ciò che chiamiamo femminile. Le “agenzie socializzanti” (famiglia, scuola, gruppo di pari) agiscono per formare la nostra personalità, il nostro carattere, l’immagine di noi stessi e degli altri e così facendo, più o meno direttamente, performano la nostra identità, che è frutto dell’azione, degli stimoli, dell’educazione, dei contesti, della visione, del sistema di valori e di pensiero messi in atto da questi agenti/fattori/ambiti di vita e di crescita. Oltre alle agenzie socializzanti agisce però in maniera pervasiva anche la società e i processi di mediazione simbolica filtrati dai mass media, dalla pubblicità, dagli “ordini”, gli imperativi, che sembra impartire il mondo che ci circonda per poter risultare vincenti, accettabili, riconoscibili, finendo così per restare intrappolati in quelle stesse cornici di intelligibilità e di significazione che crediamo di essere noi a produrre, a dare a noi stessi ma che in realtà ci precedono e ci strutturano, ci producono.
Il linguaggio stesso, le espressioni, i modi di dire sono già di per sé portatori di una visione binaria e carica di stereotipi del genere, e vanno a disegnare un’immagine delle donne e degli uomini, del maschile e del femminile che finisce per venire interiorizzata e riprodotta come si trattasse di un’immagine reale, innata e non un prodotto del linguaggio, dei dispositivi di sapere e potere che agiscono e plasmano, producono le soggettività. Basti pensare a espressioni come “piange come una femminuccia”, per denotare maschi dotati di una sensibilità spiccata, o “si atteggia come un maschiaccio” nel caso di una ragazza o di una donna che non corrisponde perfettamente all’ideale femmineo proposto dai modelli televisivi o dal cinema o dalla pubblicità o in generale dai canoni di bellezza e di “femminilità” proposti/imposti dalla società.
Pensiamo all’infanzia e all’educazione dei bambini e delle bambine, che fin dalla nascita indossano rispettivamente, come accennavamo prima, tutine blu e rosa per denotare, identificare la loro maschilità e la loro femminilità; i giocattoli poi si distingueranno in macchinine e trenini, robottini, spade per i primi e bambole, cucine e pupazzi per le seconde. Femminile e maschile (intesi, di nuovo, non come insieme di caratteristiche biologiche e genetiche, ma come tematizzazioni, definizioni di “ciò che è maschile e di ciò che è femminile”) vengono visti, interiorizzati, agiti, come realtà incontrovertibili, innate, naturali, anziché con la consapevolezza del loro essere costruzioni socio-culturali. Il genere è un prodotto del potere – come lo è la sessualità –, è una costruzione sociale, storica, culturale che noi riproduciamo continuamente nello sforzo di corrispondere, di aderire perfettamente alle tematizzazioni, alle norme che precedono e accompagnano il genere.
Ognuno di noi infatti è inserito in una cornice di significato già pre-impostata, in una cornice in cui risultiamo riconoscibili, intelligibili se ad essa siamo conformati, se vi entriamo alla perfezione. Chi non rientra in questa cornice di significato perde la propria visibilità, la propria riconoscibilità, la propria intelligibilità oppure diviene vittima di discredito e discriminazione, di disprezzo e di stigmatizzazione. Viviamo dentro un immaginario che offre precisi modelli, precise norme che agiscono sui nostri corpi tessendo su di essi l’universo del maschile e quello del femminile. Noi finiamo per interiorizzare questo immaginario e lo riproduciamo infinite volte cercando di corrispondervi in maniera ormai quasi del tutto automatica, inconscia.
Bisogna riconoscere che soprattutto sulle donne da parte della società vi è una pressione tale per cui “la performance” di adeguamento al genere femminile si fa più faticosa ed esposta al giudizio altrui (una donna rasata a zero, vestita con pantaloni larghi, con tratti duri e con un corpo massiccio verrà ritenuta poco femminile, una donna poco attraente o poco curata nell’aspetto o nell’abbigliamento viene disprezzata), sebbene i canoni e i modelli cambino in continuazione. Ma in realtà anche sugli uomini grava una pressione altrettanto pesante, anzi, probabilmente, per fare un esempio un maschio omosessuale è meno accettato rispetto a una donna lesbica, perché l’omosessualità in una società maschilista, fallocentrica e machista, comprometterebbe e tradirebbe, svilirebbe la propria virilità che una simile società ritiene ancora oggi un valore determinante e caratterizzante il maschio – come se poi un maschio omosessuale dovesse necessariamente essere meno virile rispetto a un maschio eterosessuale, oltre al fatto che la virilità e la sua ostentazione non dovrebbero esser considerati affatto come valori.
Ad ogni modo le definizioni, e le tematizzazioni che gravano sul genere e sull’identità sessuale finiscono per normare e normalizzare: del resto descrivere è sempre anche normare, inserire in una cornice normativa che conferisce significato a quei corpi su cui agisce, che definisce e norma la loro intelligibilità. Ed è proprio da questi dispositivi normativi che intervengono sui corpi, che plasmano i corpi fornendogli un significato (pre)determinato, che esplode una realtà fatta di stereotipi e di preconcetti nei confronti del maschile e del femminile, così come nei confronti di tutto ciò che ci sembra non rientrare in questa rigida stigmatizzazione. Consapevoli dell’esistenza degli stereotipi e dei pregiudizi che pervadono la società e i nostri stessi sistemi di pensiero e di percezione, dobbiamo produrre un atteggiamento critico verso di essi, verso ogni tipo di rappresentazione che sia lesiva della dignità umana, perché come diceva Karl Popper, “i cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente non sono il risultato del caso, ma sono il risultato di un processo educativo”. Occorre educarci ed educare ad essere cittadini e cittadine, nel senso più alto e giusto del termine.
1 http://www.psicolab.net/2010/sesso-genere/
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