Venerdì, 26 Gennaio 2018 00:00

Podemismo come quarta rivoluzione?

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Podemismo come quarta rivoluzione?

Negli ultimi anni si sono avute, potremmo dire con un certo understatement, varie novità nei movimenti che concorrono a definire il quadro politico del mondo occidentale. Virtualmente chiunque avrà sentito parlare di ondata populista, pericolo populista, populismo, eccetera. Molti, probabilmente, si saranno sentiti un po’ male in arnese nel decodificare correttamente un termine talmente ambiguo – alcuni si saranno anche posti la legittima domanda se sia così terribile essere populisti ovverosia richiamarsi al popolo. La confusione sorge non soltanto da tale domanda, ma anche dal fatto che nel discorso dominante il termine populismo sembra riferirsi in aggregato a formazioni diverse, appartenenti ai due capi opposti dello spettro politico (destra/sinistra) o che addirittura da esso si autoescludono e se ne proclamano estranee.

Lasciando per il momento da parte i populismi “di destra”, guardiamo a quelli “di sinistra”. A prima vista il campione risulta piuttosto limitato, con presenze significative soltanto in Francia (La France insoumise) e in Spagna (Podemos). In altri Paesi questa sensibilità politica è rappresentata o da partiti di piccole dimensioni (ad esempio Razem in Polonia) oppure da tendenze interne a partiti che aderiscono a un’ideologia socialista (ad esempio Syriza in Grecia). Le caratteristiche peculiari di questo populismo di sinistra – per brevità: podemismo – appaiono:

a. Il favore che incontrano presso le fasce giovanili dell’elettorato, in contrasto con il discredito riservato ad alcuni partiti della tradizionale sinistra “novecentesca” (socialdemocratica o comunista) i quali si mantengono invece insediati presso le fasce di età più avanzate.

b. La critica alla globalizzazione, muovendosi però nel solco del movimento alter-globalista di inizio millennio: ovvero non rifiutando l’unificazione mondiale garantita dalla rete Internet e dagli accordi di circolazione, bensì chiedendo di affiancare alla globalizzazione delle merci la globalizzazione dei diritti.

c. Collegato al precedente, la predilezione per una politica di confini aperti e di accoglienza cosmopolita nei confronti dei migranti, in opposizione diretta al comunitarismo etnico e xenofobo proprio dei “populismi di destra”.

d. La critica alla democrazia rappresentativa sedimentatasi in Europa dopo le rivoluzioni democratico-borghesi dei secoli XVIII e XIX, l’adozione del suffragio universale tra i secoli XIX e XX, la scelta democratica determinata dall’esito della Seconda guerra mondiale. Il modello a cui il podemismo si richiama è quello, invece, della democrazia diretta, che garantirebbe la partecipazione immediata e personale di tutti i cittadini.

e. La critica alla diseguale distribuzione della ricchezza, che costituisce il perno dell’intera visione economica.

f. La visione dei processi di automazione industriale e informatica quali distruttori permanenti di occupazione.

g. Dipendente dalle due precedenti, la proposta di introdurre forme reddituali collegate alla condizione di cittadinanza, le quali costituirebbero una difesa contro la povertà che il ristagno occupazionale farebbe altrimenti dilagare.
h. La preoccupazione per il riscaldamento del pianeta e l’impatto catastrofico del mutamento climatico indotto dalle emissioni industriali di gas serra; conseguentemente, la promozione di stili di vita e di consumo a basso impatto ambientale.

i. Infine, la disillusione (in un arco che va dalla sfiducia all’antieuropeismo) riguardo l’Unione Europea quale istituzione in grado di favorire i citati punti programmatici o di essere ad essi conformata.

La natura giovane di questo movimento lascia per ora indefiniti i contorni ideologici dello stesso, sebbene si possano già cogliere: un vago cosmopolitismo che non contempla l’idea di nazione; la sostanziale sfiducia verso la dinamica produttiva; un profondo richiamo all’eguaglianza nei diritti di tutti gli uomini. Il testo più strutturato che si possa collegare a quest’area è probabilmente «Il capitale nel XXI secolo», di Thomas Piketty, che ha venduto in tre anni 2,5 milioni di copie nel mondo: una cifra più che ragguardevole per un tomo economico di 700 pagine. È necessario quindi chiedersi: il podemismo è “here to stay”, qui per restare? Può costituire il volto del XXI secolo per la sinistra (che, ricordiamo, è meramente una definizione topografica)?

Nel corso della storia moderna e contemporanea l’Occidente è stato irrorato da tre grandi correnti rivoluzionarie succedutesi nei secoli. Dapprima, le Rivoluzioni inglesi – quella militare del 1642-49 e quella parlamentare del 1688-89 – hanno posto la questione dei diritti civili, ossia i diritti dei cittadini nei riguardi del potere statale. Un contributo ideologico fondamentale alla messa in discussione dell’autorità divina del monarca, così come un forte fattore di mobilitazione di massa, fu fornito dalla temperie religiosa del puritanesimo, che assegnava a ciascun uomo singolo il compito di riconoscere nella propria vita i segni della predestinazione. Successivamente la Rivoluzione francese, e i suoi ideali diffusi in Europa dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, rivendicarono i diritti politici, ovvero i diritti di partecipare alla definizione delle decisioni dello Stato quale corpo collettivo. I più conseguenti estensori della lotta contro l’assolutismo monarchico e l’oppressione imperiale delle nazionalità furono i giacobini che, sebbene destinati ad esercitare solo per breve tempo un ruolo politico di rilievo, lasciarono un profondo impatto sia ideale sia organizzativo sulle venture associazioni democratiche. Infine fu la Rivoluzione d’Ottobre in Russia a proclamare l’effettivo riconoscimento dei diritti sociali, ovvero i diritti ai pieni sviluppo e tutela della persona umana (lavoro, sanità, istruzione, abitazione). Già la Costituzione francese del 1793 aveva dichiarato che «il fine della società è la felicità comune». A compiere questa rivoluzione fu il movimento bolscevico, sul cui esempio la sinistra socialdemocratica in tutta Europa costituì partiti comunisti intesi come sezioni nazionali di un partito internazionale. L’influenza del bolscevismo e della rivoluzione sovietica, così come l’universalità del suo messaggio, fu di scala ben superiore rispetto a tutti i precedenti soggetti rivoluzionari.

Potrebbe essere il podemismo il quarto soggetto radicale rivoluzionario che sussegue idealmente ai tre precedenti e si pone alla guida di una quarta rivendicazione dei diritti? Ed eventualmente, di quali diritti? Nella dinamica che muove dalle Rivoluzioni inglesi a quella d’Ottobre si nota un progressivo spostamento degli obiettivi di lotta dalle sfere sovrastrutturali a quelle immediatamente economiche: dal reclamare un equo e pari trattamento nel campo dei rapporti giuridici si passa al reclamarlo nelle sedi delle istituzioni politiche e, poi, nei campi del lavoro e della formazione. Non sarebbe quindi azzardato vedere nel podemismo un’ulteriore tappa di questo processo, che dalla struttura economica procede all’infrastruttura stessa, ossia all’ambiente, alla biosfera, reclamando non soltanto la difesa del pianeta e delle specie viventi (inclusa quella umana) dall’inquinamento, ma anche un ritmo di vita più moderato e più rispondente a esigenze di vivibilità, ad esempio proponendo di ridurre l’orario di lavoro. In realtà, proprio sulla questione del lavoro si mostra la fragilità politica del movimento podemista. Prima che Marx individuasse nel lavoro il cardine antropologico identificativo dell’essere umano e del posto dell’uomo nel pianeta, già Hegel aveva scritto nella “Fenomenologia dello Spirito”: «il lavoro forma, coltiva». Lavorando, la coscienza servile si libera dalla paura verso il signore e riconosce nel prodotto del lavoro il significato del proprio essere.

Il rapporto del podemismo con il lavoro è a dir poco idiosincratico: esso è visto a toni foschi, come qualcosa che porta sventure (l’automazione, l’automa, l’uomo-macchina è una delle figure che Freud identificò come “perturbanti”, ossia al tempo stesso familiari e minacciose). E dal lavoro, secondo il podemismo, bisogna fuggire: riducendo le nostre ore di lavoro e magari azzerandole, sostituite provvidenzialmente da un reddito assistenziale – pardon, “di cittadinanza”. Questa fuga dal lavoro è collegata in modo strettissimo con l’indistintezza ideologica, teorica, culturale del podemismo e con i suoi capisaldi programmatici richiamati in precedenza. Non è affatto difficile riconoscere in essi l’espressione immatura di una fetta di società avente le seguenti caratteristiche:

a. Età giovane.

b. Condizione occupazionale precaria.

c. Titolo di studio elevato (con grande probabilità sovraqualificato rispetto all’eventuale professione effettivamente svolta).

d. Forte alfabetizzazione digitale.

e. Orientamento mentale sovranazionale (vuoi per l’alta formazione ricevuta, vuoi per la condivisione di una cultura di massa cosmopolita, vuoi per la partecipazione a un mercato del lavoro internazionale).

Non vi è dubbio che i “diritti ambientali” costituiranno una questione forte dello sviluppo umano nel corso del XXI secolo: il riscaldamento globale e l’impennata demografica portano a un’enorme pressione sulle risorse del pianeta. L’equa allocazione di queste non può essere, evidentemente, lasciata nelle mani del mercato, che per definizione è costituito da soggetti alla ricerca del profitto privato e quindi indipendenti da considerazioni di equità e di sostenibilità. Ma le contraddizioni che attraversano il podemismo lo rendono inadatto a questo compito; la radice di tali inadeguatezze risiede appunto nella distanza dal lavoro: non soltanto sul piano programmatico, ma, soprattutto, nella distanza reale dei suoi sostenitori da organiche esperienze di lavoro.

Anche al di là delle contraddizioni macroscopiche – ad esempio tendere a rimuovere il crescente impatto ambientale dei grandi server in termini di emissioni di gas serra – la critica economica podemista si arresta al dato delle diseguaglianze di reddito, senza mai porre in discussione il sistema che le produce. La proposta di reddito di base, garantito indipendentemente dal lavoro, è del tutto interna a un sistema economico che relega gli esseri umani verso la precarietà esistenziale e la mancanza di senso, preoccupandosi soltanto di garantirne la permanenza in vita – ed è lecito chiedersi per quanto tempo, vista l’eutanasia applicata nei Paesi Bassi su persone depresse. Lungi dal proporre soluzioni all’odierna questione sociale, il podemismo offre un meccanismo di autoriciclaggio. La resa all’automazione, quasi si trattasse di una ineluttabile condanna del fato, è una vera e propria forma di nuovo luddismo – con la piccola differenza che l’alleanza tra uomo e macchina viene rotta, stavolta, in favore della macchina. L’automazione è un mutamento produttivo importante, ma per nulla sconvolgente rispetto all’introduzione delle macchine a vapore, dell’energia elettrica o dei processori informatici. Uno sconvolgimento potrebbe giungere in futuro dalle biotecnologie, dalle nanotecnologie, dall’informatica quantistica, ma al momento ciò sembra di là da venire. E nella storia dell’uomo fu proprio il più devastante disastro occupazionale – l’introduzione del telaio meccanico – a porre le basi per la nascita del più duraturo e possente movimento dei lavoratori.

La visione depressiva e passiva dell’automazione – un banale aggiustamento del sistema produttivo – deriva non solo da un’insufficiente conoscenza della storia umana (del resto, parliamo di persone che hanno sovente frequentato l’università) ma da una sua mancata interpretazione sistematica e organica, da una mancata coscienza o anche solo conoscenza della realtà del lavoro e dei suoi problemi.

Anche il rapporto del podemismo con la questione nazionale è denso di contraddizioni. Per un verso si immagina un ideale mondo privo di confini, seguendo in ciò la politica destrutturante del capitale che chiede libertà estrema di movimento, ha interesse a distruggere le regolamentazioni istituzionali e distrugge effettivamente quelle nazionali con la sua propria forza. Per altro verso si lavora contro le uniche istituzioni – quelle sovranazionali – che potrebbero efficacemente imporre, ad esempio, la “tassa patrimoniale globale” invocata da Piketty. L’idea di nazione viene distrutta in favore di un fondamento istituzionale unicamente procedurale, ma neppure questo può cancellare le specifiche diversità dei vari movimenti, arrecate dal contesto storico nazionale. Del resto proprio la concezione procedurale della politica è molto in sintonia con quella liberale (si veda la posizione pilatesca sulla questione catalana: non importa che la Catalogna divenga indipendente o meno, ma che siano i cittadini a decidere tramite referendum).

Vi è quindi un punto di contatto rilevante tra il podemismo e il “populismo di destra”, intendendo per esso la cosmesi demagogico-sociale che fa da fondale al discorso fascista: la caparbia refrattarietà a confutare il modo di produzione capitalista nelle sue strutture portanti, limitandosi invece a proporre aggiustamenti correttivi, essi stessi devastanti sul piano sociale, dei suoi esiti.

Ultima modifica il Venerdì, 26 Gennaio 2018 18:37
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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