Martedì, 11 Giugno 2013 00:00

Il lavoro che cambia: sindacato e partito

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Leonardo Croatto, Dmitrij Palagi

Partiti e sindacati svolgono la loro funzione di rappresentanza su piani separati, questa distinzione di ruoli non fa però venire meno la possibilità di una visione politica comune, che in Italia ha permesso una storia unica in Europa: quella del PCI e della CGIL nel corso del ‘900.

Ci sono alcuni temi in particolare che dovrebbero vedere un dialogo più forte tra i partiti di sinistra e la CGIL. Il modello di sviluppo, la politica industriale e il ruolo del lavoro come strumento di cittadinanza sono tra questi.

Esiste, a nostro avviso, un limite a sinistra che caratterizza la fase attuale: la crisi di rappresentanza si accompagna ad una crisi elaborativa (decidere quale genera l’altra è un po’ la storia dell’uovo e della gallina) che porta a difendere modelli consolidati in passato anziché produrre riflessioni contestualizzate sul presente. In particolare sul lavoro, sembra che il “fortino” in cui ci siamo trincerati sia quello della fabbrica a tutti i costi, un modello, nelle proposte della CGIL ma anche dei partiti di sinistra, che immagina per il nostro Paese una ricostruzione dei comparti produttivi, e quindi una rigenerazione dei posti di lavoro, fatta top-down: un soggetto con ingenti quantità di capitale disponibile (pubblico o privato) deve essere stimolato a piantare nel nostro paese una attività che, di conseguenza, dovrebbe portare con se un numero consistente di posti di lavoro. Sembra, insomma, che la sinistra, politica e sindacale, non riesca a immaginare strategie diverse dal capitalismo ottocentesco e novecentesco: il padrone ricco e gli operai.

C’è però una parte di società, la più giovane, che non vive più il passaggio dalla scuola al lavoro come una ricerca di un posto offerto da altri (non di rado per la convinzione, oramai diffusa, che il “posto di lavoro” come quello dei propri genitori non esiste più) ma come quel momento in cui con le proprie forze, in autonomia, si prova a dare forma all’idea di lavoro che ci si è fatti durante il percorso di studi, l’inizio di un’attività propria che, per quanto possibile, consenta di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni.

Tra alcuni quadri e delegati più giovani della CGIL, specialmente quelli che si relazionano con i settori della società di età media più bassa e di più alta formazione, è in atto un processo di riflessione su queste nuove dinamiche del mercato del lavoro, che investe anche il ruolo, la strutturazione e le modalità di azione del sindacato: posto che l’Italia sia un paese industriale, e questo nessuno lo mette in discussione, possiamo continuare ad escludere dalla rappresentanza sindacale quei lavoratori che hanno scelto una via autonoma rispetto alle classiche forme di lavoro dipendente? C’è ancora un divisione netta tra il professionista, il lavoratore autonomo e il lavoratore dipendente? Come si intercetta quell’area grigia di lavoratori tecnicamente autonomi che però non hanno le capacità di autotutela che avevano i lavoratori autonomi di venti anni fa?

A queste domande ne fa seguito una molto più importante per quanto riguarda il futuro industriale di questo paese: nei documenti della CGIL si enfatizza, in maniera abbastanza rituale, il ruolo degli investimenti nella ricerca e nello sviluppo per il rilancio delle imprese (pur sapendo che le imprese italiane hanno scelto da tempo la via della bassa manifattura e non quella dell’alta tecnologia); non è più realistico, vista la situazione oggettiva del nostro paese, un investimento per consentire ai singoli soggetti ad alta formazione l’attivazione, in senso professionale, del loro bagaglio di conoscenze?

Nel deserto causato dalla crisi, qual è, insomma, il sistema produttivo che vogliamo ricostruire? Un paese “alla cambogiana”, fatto di fabbriconi (magari a capitale e proprietà straniera), in competizione con gli altri paesi manifatturieri del mondo, o un paese “alla californiana” che punta ad affiancare alla manifattura che esiste nuove attività ad alta tecnologia nel terziario avanzato, nelle professioni della creatività e nell’artigianato dell’immateriale? Nel paese europeo con il più alto mismatch tra titoli di studio e professione svolta, che, cioè, produce laureati che poi buttano alle ortiche i loro studi, non sarebbe più utile avviare una grande riflessione su come si riattivano quelle conoscenze che vengono oggi disperse? E, dal punto di vista del “posizionamento politico”, non è un grande salto a sinistra iniziare a pensare che ognuno possa diventare il proprio datore di lavoro, proprietario di quei mezzi di produzione che sono le sue conoscenze? Non è possibile immaginare una ricostruzione bottom-up fatta da tante piccole social enterprise messe in condizione di nascere e crescere? Che fine ha fatto il modello cooperativo che piaceva alla sinistra di una volta? È evidente che uno scenario del genere può far immaginare una grande competizione ed una disgregazione ancora maggiore di un mercato del lavoro che poi si ricondensa nel predominio del più ricco e del più forte, nelle dinamiche ormai note dei sistemi capitalistici. Questo modello non è ideale, nessuno propone un’utopia socialista versione 2.0, c’è invece una valutazione oggettiva dello stato del nostro Paese: i singoli, anche con capacità elevate, o sono schiacciati in un sistema produttivo asfittico (e quindi costretti ad accettare condizioni di lavoro dettati dalla grande offerta di lavoratori e la disponibilità di posti di lavoro) o restano fuori.

In questa valutazione è necessaria una riflessione, più politica e meno sindacale, sul ruolo della soggettività nel mercato del lavoro, se, cioè, un singolo può essere messo nella condizione di dare un contributo in piena autonomia allo sviluppo del paese o se l’unico modo per dare questo contributo è il diventare parte di una macchina controllata da altri, che annulla le individualità. C’è quindi una riflessione sul ruolo del pubblico e dell’intervento statale nella regolazione del mercato e della rete produttiva. Il ruolo della proprietà privata dei mezzi di produzione perde di senso in un modello dove non esiste più la necessità di un soggetto terzo tra la pianificazione e la realizzazione del prodotto (soprattutto di quelli immateriali).

Questo modello non è in alternativa a quello dell’industria pesante. Anzi, è quello che ci permette di non dipendere da strutture transnazionali che disgregano progettazione (la parte del lavoro di qualità e a resa migliore) e manifattura. Capire cosa produrre e per chi produrre implica un ripensamento degli equilibri tra lavoro materiale e quello immateriale, ma fuori dalle illusioni di chi pensa che non ci sia più necessità degli operai, come di chi ritiene ininfluenti (e magari anche poco romantici!) i produttori della parte immateriale di un prodotto, o di beni immateriali tout court.

Concretamente, sono due i livelli su cui sarebbe necessario attivarsi. Per quanto riguarda quello sindacale c’è la necessità di ricomporre questi lavoratori all’interno di un’organizzazione collettiva, che permetta la rappresentazione degli interessi di lavoratori non ascrivibili a categorie esistenti e con esigenze non riconducibili a quelle del subordinato. Sul piano politico c’è la necessità di ripensare il tessuto produttivo come sistema più complesso e vario, capace di riaffermare il ruolo del pubblico e dello Stato nella costruzione di nuove articolazioni più moderne che possano dare agibilità a quei laureati o diplomati che oggi se ne vanno a realizzare le proprie idee altrove o che, per restare, disperdono il loro capitale di conoscenze accumulato in anni di studio. Spostare il sistema di produzione su merci diverse, convincersi che non ci si può limitare (almeno non a lungo) a “costruire trattori” oppure a sperare che Gucci acquisti la Ginori. Creare un legame indissolubile tra formazione e lavoro, secondo una concezione stabilita dalla Costituzione, per cui studiare e lavorare sono attività legate alla realizzazione dell’individuo come parte di un sistema di relazioni sociali.

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La foto è di Davide Barbera

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