Le vicende di una nave della ONG Sea Watch, rimasta quasi tre settimane ferma a poche miglia dalla costa maltese e al cui interno era stipati, oltre ai membri dell’equipaggio anche una trentina di migranti raccolti da un gommone che stava affondando, ha riacceso in Italia il dibattito sull’immigrazione e creato dei dissapori interni fra Salvini da una parte e Di Maio e Conte dall’altra. La crisi sembra rientrata nel momento in cui Malta ha acconsentito allo sbarco e la Chiesa Valdese si è offerta di ospitare nelle sue strutture una decina dei migranti sbarcati a Malta.
Mercoledì 28 Novembre è stato approvato in via definitiva dalla Camera il “decreto sicurezza”. Fortemente voluto da Salvini, il provvedimento introduce alcune nuove norme in materia di immigrazione e di ordine pubblico che riflettono l’impostazione securitaria della Lega. L’abolizione della protezione umanitaria, il depotenziamento dello Sprar, l’estensione della sperimentazione del taser, la stretta sull’abusivismo abitativo e l’aumento dei fondi destinati ai rimpatri sono solo alcune delle misure di un decreto fortemente criticato dalle opposizioni ma diventato legge nonostante le polemiche anche all’interno della maggioranza. Sul “decreto Salvini” il Dieci mani della settimana.
In un libro di venti anni fa, intitolato L’injustifiable (“L’ingiustificabile”), l’autrice Monique Chemillier-Gendreau1 notava un paradosso in seno alle politiche europee: l’estendersi dei diritti dei cittadini europei andava di pari passo a un restringimento dei diritti e delle possibilità offerte ai non europei, al punto che si può parlare di “un declino dei diritti fondamentali degli stranieri in Europa”2.
Il Tribunale del Riesame di Genova ha accolto la richiesta della procura di poter procedere al sequestro dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali che la Lega Nord ha incassato indebitamente fra il 2008 e il 2010. La sentenza di condanna definitiva (truffa ai danni dello Stato) mette la Lega in una situazione complicata, dato che il partito ha ora solo 5 milioni in cassa.
Il "manifesto Calenda": la proposta che non salverà il Paese
Dopo il voto del 4 marzo 2018, le forze politiche sconfitte presenti in Parlamento hanno provato a fare opposizione; essa si è tradotta, sostanzialmente, da un lato nella denuncia dei provvedimenti e delle dichiarazioni di Salvini e dall’altro nell’apprezzamento dell’osservazione dell’inconcludenza del Movimento 5 stelle.
Torrenti, fiumi di parole stanno scorrendo a proposito di quella che da molti è considerata la peggiore crisi istituzionale di questo paese degli ultimi decenni. Il Presidente della Repubblica Mattarella si è rifiutato di nominare un governo Conte che, sostenuto da Movimento Cinque Stelle e Lega Nord, vedesse al Ministero dell’Economia Paolo Savona. Ed io invece mi trovo in seria difficoltà a commentare. Difficoltà perché se penso al baratro che ci si è aperto davanti, sinceramente non vedo un via d’uscita che ci evita il passaggio per la catastrofe.
Dopo il voto
I dati ci danno l’esatta immagine del paese. Basterebbero quindi i numeri per comprendere la volontà del popolo italiano.
Potrebbe accadere – scenari post elettorali
A pochi giorni dal voto è realistico ipotizzare che nessuno degli schieramenti politici attuali disporrà della maggioranza parlamentare, ed è realistico ipotizzare che quindi avrà luogo, in un modo o nell’altro, un’intesa di governo tra PD renziano e suoi alleati di destra (Lorenzin, Bonino, ecc.) da una parte e dall’altra Forza Italia e suoi alleati di centro, dato che tale intesa ragionevolmente disporrà di tale maggioranza.
Senza pretese: da Macerata
Riceviamo da una persona che vive a Macerata questo contributo arrivatoci sabato, con richiesta di pubblicazione in forma anonima, che rispettiamo.
Macerata la dormigliona, Macerata “Civitas Mariae”!
La bianca, la candida, l'insofferente cittadina di quarantamila anime si sveglia tardi col delitto di paese poco più che cominciato.
Indipendensa! – il referendum e la presunta identità Veneta (parte 2)
Leggi qui la prima parte
Cattolicesimo, Federalismo e Conservatorismo
Per comprendere la “questione veneta” è fondamentale guardare all’intreccio tra la storia e la struttura economica e politica del territorio. Come noto, il Veneto è conservatore e localista, sempre sospettoso del governo centrale; infatti fin dagli albori del Regno d’Italia si sono riscontrati movimenti anti-statisti. Sembra che già da prima della nascita dello Stato italiano, ai tempi della tanto rimpianta Serenissima, vi fosse una diffidenza tra l'entroterra della repubblica e il governo Centrale, situato a Venezia. Questa diffidenza si è poi trasformata al momento dell’annessione all’Italia, spostando il nemico verso Roma. Non appare casuale quindi, che sia proprio l’entroterra Veneto, tra le campagne delle province di Treviso, Vicenza e Padova, il territorio in cui gli autonomisti hanno sempre riscontrato un maggior numero di consensi.
Con l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, il Clero inizia a essere il protettore degli interessi locali. In questo modo la gestione del potere e dell’ordine del territorio (soprattutto nelle campagne Venete più lontane dalle istituzioni) inizia a basarsi sull’influenza della chiesa e della famiglia. Quest’importanza dell’elemento familistico e spirituale riesce a perpetuarsi anche durante il ventennio fascista nonostante le sue politiche patriottiche. Alla nascita della Repubblica italiana, nonostante i compromessi tra il regime fascista e la Chiesa, quest’ultima rimane il vero collante sociale tra i cittadini e le istituzioni, e non perde il suo ruolo di riferimento nel territorio euganeo. Questa concezione è perseguita nel corso degli anni, tanto da far diventare il Veneto una roccaforte della Democrazia Cristiana. Nonostante la DC proteggesse gli interessi locali, riusciva a garantire un controllo politico e istituzionale della regione a livello nazionale. A fianco della DC erano però presenti molte voci critiche, che richiedevano un maggior distacco da Roma.
L’idea che il Veneto dovesse aspirare a una maggiore autonomia, o addirittura che non fosse Italia, si ritrova nei discorsi politici già dagli anni ’20, quando iniziavano a circolare le prime idee indipendentiste tra i partiti politici e i giornali, sia a destra che la sinistra. Con il fascismo queste sono forzatamente messe a tacere, per poi rinascere verso gli anni ’70, dopo il boom economico, quando i movimenti autonomisti e indipendentisti iniziano a istituzionalizzarsi. Questo periodo coincide con il cosiddetto “miracolo del Nord-Est”, quando, grazie al passaggio da uno sviluppo basato sull’agricoltura ad uno sviluppo industriale basato sulle piccole-medie industrie, questo territorio riesce a sollevarsi dalla povertà e dalla depressione. Il Veneto diviene l’emblema di quella che viene definita “Terza Italia”, che contrappone l’Italia dei distretti industriali al triangolo industriale (Milano-Genova-Torino, la prima Italia) al Sud Italia (con un economia di industrializzazione assistita). Da questo periodo è incominciata la fioritura di diversi distretti industriali ad alto potenziale, caratterizzati da un capitale sociale estremamente forte, improntati su una subcultura bianca (di area cattolica) che permetteva stretti rapporti tra le imprese, il territorio e la comunità.
La Terza Italia (che comprende oltre al Nord-Est, anche Toscana, Emilia Romagna e Marche), divenne un modello di sviluppo a cui guardava tutto il mondo, e viene considerato uno degli esempi più eclatanti di passaggio da un sistema fordista a uno postfordista. Grazie a questa struttura economica, in poche generazioni il Nord-Est ha visto la sua popolazione trasformarsi da contadina - afflitta da carestie e dalla piaga della pellagra, costretta a cercare fortuna in Brasile, Svizzera, Argentina e addirittura in Romania - a piccolo borghese, trascinatrice dell’economia, locomotiva d’Italia. La maggior parte dei protagonisti di questa rinascita erano contadini, proprietari di piccoli pezzi di terra, che hanno iniziato a creare micro imprese, in genere a carattere familiare e artigianale, che a stento raggiungevano i 10 dipendenti. Nasce così il mito del Veneto gran lavoratore, che con le proprie forze è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri e ottenere ricchezza e benessere. Un benessere che per molti veniva “minacciato” dallo stato centrale, e in particolar modo dai fondi utilizzati per risanare il mezzogiorno. Negli anni '70 e '80 è stata infatti l'improvvisa ricchezza che ha portato la classe media a diventare protagonista di rivendicazioni di tipo indipendentistico soprattutto per motivi fiscali (per mantenere la ricchezza dove la si è prodotta). Iniziano così a formarsi dei veri e propri partiti autonomisti, tra cui la Liga Veneta, nel 1979.
Con l’ingrandirsi della Liga Veneta e il processo di secolarizzazione della chiesa, inizia a nascere una nuova concezione della politica locale più laica della DC, che riesce a catalizzare meglio il malcontento popolare, unendo le questioni dell'autonomia a quelle del federalismo fiscale. Alla fine degli anni '80 la Liga Veneta formerà la Lega Nord, e con l’inizio della seconda repubblica il Veneto diventa una roccaforte del Carroccio. La Chiesa non ha comunque mai perso del tutto la sua influenza nella regione, e in molti comuni si è ritrovata ad essere il principale rivale della Lega. Essa continua tutt’oggi a interessarsi delle vicende politiche locali, basti pensare che alcuni giornali cattolici hanno invitato i fedeli a votare sì per quest’ultimo referendum, un consiglio che sembra aver poco a che fare con le questioni spirituali.
Nell'ultimo decennio, a ridare forza agli indipendentismi ci ha pensato la Crisi Economica: le piccole imprese, che sono rimaste le protagoniste dell'economia Veneta, sono passate da un periodo di benessere a uno di depressione. In questo modo si è iniziato a diffondere un malcontento generale, in quanto il ceto medio si è ritrovato a sprofondare verso il basso da una posizione privilegiata, duramente conquistata, che sino a poco tempo fa risultava tra le più eminenti nel panorama industriale europeo. Inizia quindi a diffondersi una visione distorta di questa situazione: le persone devono subire la crisi economica causata dalle grandi banche estere, dall'Euro ed altri fattori, una crisi che viene dall'esterno e che si contrappone al precedente miracolo economico che viene visto come un successo interno, il risultato degli instancabili lavoratori veneti, che da povera realtà contadina sono diventati il motore economico d’Europa. Questa concezione ignora però che lo sviluppo dell’Italia del dopoguerra è stato influenzato soprattutto da “fattori esterni” alla regione, in primis i fondi del piano Marshall.
Che la questione della struttura economica sia strettamente legata al sentimento autonomista è evidente anche dai risultati del referendum in Lombardia. Dai dati si evince come tra i territori Lombardi che hanno partecipato più attivamente al referendum dell’autonomia sono quelli di Bergamo e Brescia. Queste province sono anch’esse caratterizzate da una struttura economica simile a quella del Nord-Est, fatta di distretti Industriali diffusi. Invece a Milano, vera locomotiva d’Italia e centro della grande industria italiana, il malessere per una fiscalizzazione troppo alta è meno presente, e ciò si è tradotto in una bassissima affluenza alle urne. Un altro fattore di malcontento derivante dalla situazione politica ed economica è il differente status del Veneto con le realtà circostanti: le altre due Venezie storiche sono infatti state dichiarate per ragioni differenti “a Statuto Speciale”, e godono quindi di maggiori privilegi. La questione delle regioni a Statuto Speciale è delicata e a mio avviso in parte anacronistica: attualmente sono venute a mancare alcune delle ragioni storiche che motivavano la scelta di considerare i territori del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia meritevoli questi privilegi.
Il Trentino Alto Adige, composto dalle province autonome di Bolzano e Trento, è diventato a statuto speciale nel 1946, dopo i trattati di pace del dopoguerra, in risposta alle richieste di autonomia e alle proteste della popolazione di lingua tedesca. Lo Statuto in questo caso è stato utilizzato come garanzia di tutela per la popolazione di lingua tedesca, compensando così i danni del ventennio fascista, che aveva attuato politiche di italianizzazione forzata. Il Friuli Venezia Giulia è invece stata l’ultima regione a divenire a statuto Speciale, nel 1963, non tanto per la presenza di una minoranza Slovena all’interno del territorio, quanto per l’importanza strategica e politica della regione, che si trovava in una zona di confine tra la Jugoslavia di Tito e il blocco occidentale.
Questo ultimo punto, “l’invidia” dello Statuto Speciale, è uno dei fattori principali che ha portato la gente a votare al Referendum. Lo stesso Zaia, forte del risultato della consultazione, ha dichiarato di voler trattare con lo stato proprio l’ottenimento di un Veneto a Statuto Speciale.
Identità, politica e cultura
Quella Veneta è un’identità che non si fonda su una reale cultura condivisa, ma rappresenta una narrazione, spesso enfatizzata per motivi politici. Esistono effettivamente somiglianze culturali nei territori delle Venezie, tradizioni, usi e costumi tipici della regione storica, che accomunano la popolazione di questi luoghi. Ma regioni con tradizioni comuni sono presenti anche nel restante territorio italiano: perché non esiste un forte sentimento indipendentista anche in Piemonte, nelle Marche o in Basilicata? Nel caso del Veneto ogni localismo è stato gonfiato, enfatizzato e portato all’estremo. Si elogia un presunto “popolo Veneto”, che sembra più unito dalla tendenza al conservatorismo e dall’ostentata difesa del proprio territorio e dei propri interessi più che da una tradizione degna di essere perpetuata e conservata. Nella costruzione di una “venecità autentica” sono infatti in gioco interessi storici ed economici, che però hanno ben poco da spartire con il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Ma d’altronde l’utilizzo dell’identità come mezzo politico è uno dei capisaldi di moltissimi movimenti, partiti e rivendicazioni a partire dagli anni ’60 fino ad oggi. In questo caso però non si tratta di una rivendicazione di un’identità subalterna negata o di una cultura di minoranza, ma di un’invenzione identitaria, costituita su miti ben precisi, e tesa al mantenimento dei propri privilegi e il proprio status quo.
L’identità Veneta viene così gonfiata, creando un tradizionalismo enfatizzato, che tende a imputare a cause esterne i problemi e i mali che ci circondano. Eppure la Mafia del Brenta, il fallimento della banca di Vicenza e Veneto Banca, il Mose i Pfas nell’acqua …. Sono tutti “disastri nostrani”, Veneti DOC.
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