“Vive la France du métissage!”

Di finali di calcio, immigrati africani, e chi non li vuole

“Vive la France du métissage!” è lo status pubblicato da un mio conoscente di lavoro, francese di origini vietnamite (che per brevità chiameremo N.), subito dopo la vittoria della nazionale francese nei recenti mondiali di calcio.

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Venerdì, 13 Luglio 2018 00:00

Sul rossobrunismo (parte I)

La confusione è tanta e non è detto che sia un bene – sul rossobrunismo (I)

Questo che leggerete non è un vero e proprio articolo. La massa enorme di informazioni, impressioni, tesi e parole sull’argomento che vorrei trattare (il rossobrunismo) è tale da meritare un approfondimento diviso in diversi interventi. Al massimo potrei far chiarezza su quali siano i temi per me fondamentali da essere conosciuti, discussi, condivisi, in questo momento: il lavoro, il ruolo della sinistra in una società che non offre più agganci con i vecchi rituali, o li ha stravolti ed ha dato alla piccola borghesia e al proletariato risposte diverse, la struttura sociale all’interno della nostra nazione.

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Di sionismo, ortodossia e terra: la trasformazione di Israele in uno stato confessionale

L’approccio alla storica questione israeliana e palestinese si è oramai arenato nella partigianeria politica. L’emotività suscitata dalle immagini di Gaza sotto il pesante attacco di queste ultime settimane da parte delle forze israeliane impedisce una analisi lucida sul percorso che ha portato a questo feroce scontro, oramai secolare. Il calderone in ebollizione della politica ha mescolato e ridefinito impropriamente termini storici come sionismo, panarabismo, ebraismo ecc.

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Il nuovo governo di coalizione Popolari-FPOe fa discutere anche fresco di giuramento. Ambienti vicini al nuovo governo austriaco, e specialmente alla destra della coalizione, avrebbero infatti nei giorni scorsi data come sicura una riforma della disciplina della cittadinanza austriaca, che permetterebbe a chi si sia dichiarato ufficialmente appartenente al gruppo germanofono del Südtirol/Alto Adige (la maggioranza relativa dei sudtirolesi) di chiedere la cittadinanza austriaca, conservando - dato che la legge del nostro Paese permette la cosiddetta “doppia cittadinanza” - al contempo la cittadinanza italiana; un ipotesi che echeggia una rivendicazione storica della destra germanofona sudtirolese contro cui hanno prestamente tuonato politici italiani e leader ai livelli più svariati.

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Mercoledì, 26 Ottobre 2016 00:00

Identità irlandese: dalle origini ad oggi

 di Jacopo Vannucchi, pubblica sul numero cartaceo di marzo

Identità irlandese: dalle origini ad oggi


«De Valera […] aveva cercato di convogliare risorse umane ed economiche nelle campagne, nella convinzione che le attività agricole fossero quelle più adatte ad un popolo di santi e di repubblicani. […] La visione ignorava non solo i desideri degli irlandesi di fare fortuna e migliorare i loro standard di vita […] ma anche i costi umani e sociali dell’arretratezza economica: in particolare la tubercolosi, le malattie infantili, […] [m]entre nelle campagne l’agricoltura e la Chiesa perpetuavano un asfissiante regime patriarcale».
Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi


«Fu divertente finché durò. […] L’Irlanda si sentiva libera, alla fine. […] Libera dalla religiosità autoritaria che compensava l’assenza di moralità civica. Libera dal bisogno di celebrare una pittoresca povertà per fare virtù di una bieca necessità. In questi anni l’Irlanda era rozza e talvolta volgare, governata in modo insufficiente e intralciata dall’assenza di una visione di lungo periodo e di una genuina ambizione pubblica. Era caotica, talvolta al limite dell’anarchia. Ma c’era, al fondo di tutto, una ragione di ottimismo».
Fintan O’Toole, Ship of Fools. How Stupidity and Corruption Sank the Celtic Tiger

Il bipartitismo Fine Gael / Fianna Fáil (almeno fino alla recente crescita dello Sinn Féin) è stato, pochi anni fa, ricondotto addirittura a diversità genetiche. Il primo partito conterebbe su una base prevalentemente di discendenza anglo-normanna, il secondo su una soprattutto gaelica.

Senza bisogno di ricorrere a simili determinismi, è evidente che i tratti culturali dell’Irlanda, nell’Éire come nell’Ulster, sono figli di una secolare maturazione.

L’identità irlandese moderna inizia a consolidarsi nel XVI secolo, con la definitiva fusione di due ceppi etnici: quello gaelico autoctono e quello dei “Vecchi Inglesi”, discendenti dai conquistatori normanni (vassalli, all’epoca, del re d’Inghilterra). In questo periodo l’alterità dell’Irlanda rispetto a Londra ruotò attorno al fallimento della Riforma anglicana, ostacolata sia da insufficienti infrastrutture di comunicazione interna sia dal timore inglese di non sollecitare un intervento spagnolo in difesa dei cattolici. In ogni caso si provvide a insediare una cospicua popolazione protestante nell’Ulster, organizzandone la colonizzazione secondo il modello già sperimentato nelle terre americane della Virginia. La maggiore ondata di coloni protestanti fu però frutto di migrazioni private dalla Scozia.

Questi coloni, circondati da una popolazione cattolica, si stabilirono in insediamenti fortificati (in modo non dissimile dalla gentry bianca nell’odierno Sudafrica post-apartheid). Le violenze contro i coloni perpetrate dai cattolici nel 1641, nel quadro della guerra civile inglese, sono all’origine della sindrome di assedio tuttora operante nell’Irlanda del Nord: i protestanti, che costituiscono la maggioranza dell’Ulster, risultavano e risultano però in netta minoranza nella dimensione pan-irlandese. Questa identità confessionale-locale, peculiarmente combattiva, fu ulteriormente consolidata dalle vicende dell’assedio di Derry del 1689. La città resistette all’assedio del re cattolico Giacomo II, ma le navi inglesi inviate in supporto dal protestante Guglielmo d’Orange in un primo momento si ritirarono, dando ormai per spacciata la sorte degli assediati. I protestanti dell’Ulster compresero che avrebbero sempre dovuto far conto su se stessi più e prima che sul governo di Londra.
Nel resto dell’Irlanda il veemente puritanesimo di Cromwell aveva portato dopo il 1649 a spoliazioni ed espropri agrari ai danni dei cattolici. Dopo il 1689 le leggi restrittive anticattoliche furono ulteriormente inasprite. La popolazione di obbedienza romana si rivolse così a formazioni extra-statali (principalmente la Chiesa e le società segrete rurali), mentre, d’altro canto, furono i protestanti a sviluppare un proto-nazionalismo. Oltre che nell’Ulster essi erano presenti soprattutto a Dublino, dove, come esponenti della borghesia locale, dettero vita a una riflessione politica analoga a quella partorita in quello stesso periodo dai coloni americani.

Nel 1798 la rivoluzione indipendentista di Wolfe Tone (anch’egli un protestante), sostenuta dalla Francia, pur fallendo, convinse Londra a sopprimere l’autonomia parlamentare concessa a Dublino nel 1782. Dal 1801 l’Irlanda fu inclusa con la Gran Bretagna nel nuovo Regno Unito. I protestanti, in maggioranza, si rassegnarono all’Unione, vedendola come il male minore; furono i cattolici, da allora, a ereditare il sentimento nazionalista. Al tempo stesso, sulla scena irlandese, furono i Tories (conservatori) a restare più schiettamente anglofobi, anche per idiosincrasia verso il presunto filo-cattolicesimo degli Whigs (liberali). (L’antipatia dei Tories irlandesi per Londra si doveva anche al fatto che la Chiesa d’Irlanda, pur restando parte della comunione anglicana, era autonoma dalla Chiesa d’Inghilterra.)
Negli anni 1840, appena prima della Grande carestia delle patate e mentre in Gran Bretagna maturava il cartismo, il proprietario cattolico Daniel O’Connell mobilitò enormi masse di fittavoli suoi correligionari battendosi per tre obiettivi: l’abrogazione delle leggi discriminatorie anticattoliche, i diritti dei fittavoli, la revoca dell’Unione. Questo movimento, poi travolto dalla carestia, da un lato iniziò la saldatura tra nazionalismo, cattolicesimo e movimenti agrari; dall’altro lato, fu il primo episodio in cui la politica irlandese si appoggiò sulla Chiesa cattolica per colmare le proprie lacune organizzative. Entrambe le questioni si sarebbero ripresentate trent’anni dopo, con la Grande deflazione.

Nel frattempo la Chiesa cattolica irlandese aveva assunto un profilo più militante e compatto, favorita anche dagli effetti sociali della carestia. Per un verso questa aveva decimato le popolazioni dell’Ovest rurale, più devote alla contaminazione coi riti pagani, favorendo dunque l’uniformità delle pratiche di culto; per altro verso, le famiglie contadine, memori della carestia, tendevano a evitare il frazionamento delle terre e quindi destinavano più figli alla vita ecclesiastica. Questa rinnovata influenza sociale produsse per contrasto un ulteriore arroccamento dei protestanti, irritati anche dalla politica conciliatoria di Londra tesa a evitare di spingere la Chiesa cattolica nelle braccia dei nazionalisti. Fu però una minoranza intellettuale di protestanti à la Wolfe Tone a recuperare nel XIX secolo le tradizioni gaeliche, viste come punto di riferimento per un’Irlanda a-confessionale.

Gli anni della carestia e quelli immediatamente seguenti videro, com’è ovvio, un momentaneo acquietarsi delle pulsioni rivoluzionarie. Fu tuttavia in questo periodo che il nazionalismo definì meglio la propria impalcatura concettuale: in concomitanza con le Rivoluzioni del 1848 l’obiettivo nazionale fu affermato essere subordinato ai diritti dei fittavoli, poiché la Repubblica, si diceva, poteva avere una base solida solo nella proprietà contadina. L’iniquità dei patti agrari era del resto alla radice della morte per fame di un milione di persone, dipendenti dalle patate, in un Paese che restava esportatore di cereali. Proprio dalla piccola borghesia contadina provennero i ranghi della Irish Republican Brotherhood, la prima organizzazione nazionalista moderna (1858).
Queste linee di frattura storiche erano destinate a manifestarsi in tutto il loro potenziale esplosivo dopo il 1912, l’anno in cui il Parlamento britannico approvò definitivamente la Home Rule per l’Irlanda. Londra avrebbe voluto un’Irlanda unita, sia per liberarsi completamente della questione irlandese sia per avere la garanzia che grazie alla minoranza protestante il nuovo Dominion sarebbe rimasto fedele all’Impero. Nel convulso decennio che separa l’approvazione della Home Rule (mai entrata in vigore, per via dello scoppio del conflitto mondiale nel 1914) dal Trattato anglo-irlandese (dicembre 1921) il mantenimento dell’Ulster protestante nello Stato irlandese si rivelò però impossibile.

Dopo la divisione dell’isola, nel 1922, l’Éire (“Stato Libero Irlandese” fino al 1937) e l’Ulster percorsero binari diversi, come diverse erano le due società, ma paralleli. Il tratto comune fu la permanenza al potere di forze conservatrici risolute a impedire sviluppi democratico-progressivi. Nel Nord il governo unionista pose in atto una strategia segregazionista che ricalcava fedelmente quanto avvenuto, oltreoceano, negli stati ex-confederati: la divisione artificiale delle classi inferiori in modo da integrarne una parte a sostegno del regime conservatore e, in specifico, evitare l’affermazione di un partito laburista di massa come invece avvenuto in Gran Bretagna dopo il 1918. L’Irlanda del Nord era tra le aree più disagiate del Regno Unito, per cui un impiego pubblico o l’assegnazione di un alloggio popolare facevano spesso la differenza tra la miseria e una vita decente. La discriminazione occupazionale (e anche elettorale, tramite un attento disegno delle circoscrizioni) tra proletari protestanti e proletari cattolici, in un contesto in cui il potere economico era in mani protestanti, consentì l’erezione di una barriera tra le due comunità religiose. Anche dopo il 1945, quando le sinistre toccarono l’apice storico, la risposta governativa consisté nell’aumento della spesa assistenziale e di impieghi nel settore pubblico. L’inconveniente di questa politica fu che alcune frange della classe operaia protestante si radicalizzarono su basi confessionali, sostenendo a partire dagli anni Sessanta l’estremismo religioso del pastore Ian Paisley.

Nel caso dell’Éire gli elementi di freno furono l’arretratezza delle strutture agrarie e il potere della Chiesa cattolica, sui quali andarono ad agire le profonde divisioni politiche seguite alla guerra civile del 1922. La prima classe dirigente del nuovo stato, improntata ad una visione liberista e liberale e raggruppata nel Cumann na nGaedheal, rappresentava gli interessi finanziari, commerciali, industriali e delle aziende agricole più grandi e moderne. Per contro i nazionalisti seguirono nei primi anni una tattica astensionista, mentre i laburisti stentavano a decollare. Ciò lasciò il Cumann privo di sostanziale opposizione, in un sistema politico zoppo. Unitamente alla sua debolezza organizzativa, ciò spinse il partito a fare affidamento sull’appoggio della Chiesa cattolica, alla quale in cambio fu riservata un’influenza ancora maggiore nel campo culturale e dei costumi.

L’arrivo al potere dei nazionalisti (Fianna Fáil), nel 1932, paradossalmente, si tradusse in una spinta ulteriormente conservatrice sul piano sociale. Il loro leader De Valera, veterano dell’Insurrezione di Pasqua e già capo del Governo provvisorio nel 1919, restava fedele al ruralismo ottocentesco e impostò la politica economica sul sostegno alle campagne (da cui il FF riceveva la maggior quota di voti), ove dominava il clero cattolico. La neutralità irlandese durante la Seconda guerra mondiale preservò in parte il Paese dalla ventata progressista che investì nel dopoguerra le nazioni belligeranti: l’assistenza sociale restava imperniata su basi caritatevoli e la tubercolosi si confermava una malattia endemica. Gli elettori segnalarono comunque la necessità di un ricambio: nel ’48 il governo del FF fu sostituito da una coalizione tra laburisti e moderati del Fine Gael; tuttavia, la debolezza del nuovo esecutivo e l’instabilità politica impedirono qualsiasi riforma e, assieme al clima della Guerra fredda, rafforzarono ancor di più la posizione della Chiesa (che senza fatica riuscì a stroncare un primo tentativo di introdurre il divorzio).

Fu solo negli anni Sessanta che l’Irlanda sembrò smuoversi verso il futuro. La classe dirigente forgiatasi nei conflitti di mezzo secolo addietro lasciò il posto a una generazione più giovane, anche tra i laburisti che da partito socialista-agrario presero un’impronta maggiormente cosmopolita e liberal. Gli investimenti industriali crebbero cospicuamente e il Paese iniziò ad abbandonare l’identità agricola. A partire dagli anni Ottanta un regime fiscale particolarmente conveniente e l’ampia disponibilità di manodopera anglofona disposta a lavorare a salari comparativamente bassi hanno attirato numerose imprese multinazionali, specialmente, negli ultimi anni, del settore informatico.
Alla fine del XX secolo non solo l’Éire si era guadagnata l’epiteto di “tigre celtica” per la celere corsa del suo PIL, ma anche l’Ulster ha avviato a soluzione il trentennale conflitto armato e la secolare segregazione della comunità cattolica. È tuttavia emblematico che, poco dopo l’accordo di pace (1998), i partiti “moderati” tradizionalmente rappresentativi delle due comunità siano stati scavalcati nel consenso dalle frange più radicali (il Partito unionista dell’Ulster dal Partito unionista democratico di Paisley, il Partito socialdemocratico e laburista dallo Sinn Féin). Il fatto che entrambe le confessioni scelgano che nella nuova condivisione del potere siano i partiti “estremi” a rappresentarle, ritenendoli evidentemente in grado di negoziare più duramente, è un segno della prudenza e forse della diffidenza con cui ci si approccia alla pace.

Per ciò che riguarda l’Éire, sebbene il PIL irlandese sia nel suo complesso cresciuto a ritmi “cinesi” (e stia adesso tornando a galoppare dopo la recessione), ciò si è accompagnato ad un altrettanto marcato aumento della diseguaglianza. Le statistiche sulla crescita del profitto occultano, cioè, la persistenza di sacche di sotto-sviluppo sociale. L’influenza reazionaria della Chiesa cattolica appare essersi disintegrata nel giro di pochi anni: soltanto nel 1985 è stata liberalizzata la vendita dei contraccettivi, nel 1993 depenalizzata l’omosessualità, nel 1996 introdotto il divorzio e chiuse le “case della Maddalena” (istituti di segregazione per donne “disonorate”). Sebbene restino forti restrizioni all’interruzione di gravidanza, nel 2015 il matrimonio è stato esteso agli omosessuali, cinque anni dopo l’introduzione delle unioni civili.
Tuttavia questa potente spinta libertaria, incoraggiata dal capitalismo cosmopolita, innestandosi sul corpo di un Paese a lungo tenuto sotto una cappa di oscurantismo, sembra aver più che altro prodotto una variante “stracciona” del turbocapitalismo. A cento anni dall’Insurrezione di Pasqua l’Ulster resta separato mentre nella Repubblica d’Irlanda le aspettative sociali della rivoluzione sembrano andate ancora una volta deserte.

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Mercoledì, 13 Gennaio 2016 00:00

Trieste maledetta - Intervista a Pietro Purini

Intervista allo storico Pietro Purini a cura di Roberto Capizzi uscito sul mensile di Novembre

Trieste maledetta

Storicamente eterogenea dal punto di vista etnico, ed al centro di un impero crogiuolo di lingue e popoli diversi, può descriverci la composizione etnica di Trieste prima della Prima Guerra Mondiale?

Fino al 1914 Trieste era una città estremamente dinamica e composita nazionalmente. Con 243.000 abitanti era la quarta città dell'Impero dopo Vienna, Budapest e Praga; l'accrescimento medio di popolazione era di 5.000 abitanti l'anno. Gli immigrati provenivano da tutta l'Austria Ungheria (soprattutto da Istria, Slovenia, Dalmazia, Carinzia, Stiria, Boemia), ma anche dall'Italia (Friuli, Veneto, Puglia) e dall'intera Europa. In città erano presenti comunità greche, serbe, croate, ceche, ebraiche, svizzere, tedesche luterane, armene, turche, nonchè circa 35-40.000 "regnicoli" italiani, lavoratori provenienti dall'Italia che però non avevano la cittadinanza austriaca, quelli che al giorno d'oggi definiremmo "gasterbeiter". La popolazione dunque era estremamente variegata: per citare i soli gruppi più grandi, nel censimento del 1910 il 64% dichiarò che la propria lingua d'uso era l'italiano, il 25% lo sloveno, il 5% il tedesco e poco meno dell'1 % il serbocroato. In realtà la lingua d'uso non era un criterio preciso per definire quale fosse la nazionalità dei censiti: in una città di forte immigrazione era possibile che neoimmigrati di madrelingua slovena, croata, tedesca o ceca, dessero come propria lingua d'uso l'italiano semplicemente perchè quella (o meglio: il dialetto triestino) era la lingua che usavano sul posto di lavoro. Inoltre i rilevatori del censimento erano funzionari del Comune di Trieste, controllato del Partito liberal-nazionale (gli irredentisti favorevoli all'Italia): è quindi probabile che i risultati di questo censimento siano comunque sbilanciati a favore della componente italiana.

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La guerra continua negli stadi: il ruolo del calcio nella violenza nazionalista nei paesi della ex Jugoslavia

Sfido chiunque appassionato di pallone a non aver mai provato questo gioco malinconico. Provate a inserire tutti i più forti calciatori dei paesi della ex Jugoslavia in un’unica squadra. Dzeko, Jovetić, Modrić, Ivanović, Handanović: solo per citare per ogni ruolo alcuni dei più forti giocatori a livello europeo e mondiale; vedrete che il risultato sarà un “dream team” tale da far impallidire la stessa Jugoslavia precedente alla guerra.

Quel conflitto sanguinario e drammatico, come solo possono esserlo le guerre civili, che ha portato alla disgregazione della federazione jugoslava e di conseguenza questi calciatori a giocare con casacche nazionali diverse. Le guerre balcaniche si sono concluse oramai da anni, ma l’odio che per quasi un decennio le ha alimentate continua a infiammarsi alla minima occasione. Che fosse probabile una protesta con tanto di lancio di oggetti nei confronti del premier serbo Alexsandr Vučić in occasione della cerimonia a Srebrenica per celebrare i vent’anni dalla strage era plausibile. Prevedibile che Kolinda Kitarović, nuovo presidente della Croazia, sottolineasse l’importanza dei voti croati in Erzegovina dopo la vittoria alle presidenziali, acclamata da molti reduci di guerra. Ma che un anno fa la partita valida per le qualificazioni al prossimo Europeo francese tra Serbia e Albania si trasformasse in una battaglia, con tanto di drone militare portante di una bandiera del Kosovo, non se lo aspettava nessuno.

Osservando lo stupore e l’indignazione della Uefa e la reazione della stampa europea sembra quasi che tutto ciò fosse totalmente inaspettato (solamente due anni prima, per le qualificazioni ai Mondiali in Brasile, la partita tra Serbia e Croazia si era conclusa con cinque espulsioni in campo e scontri fuori dallo stadio). Come gli intellettuali jugoslavi che, increduli, osservavano l’evolversi drammatico degli eventi di quella estate drammatica del 1991, mentre proprio dagli stadi si diffondeva l’incendio della guerra. Il calcio nella diffusione dei nazionalismi della penisola balcanica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, ancor di più che nel resto d’Europa. Qui la violenza calcistica come risultato del rapporto tra condizioni economiche e sociali difficili e la strumentalizzazione politica ha portato a conseguenze disastrose. In Bosnia Erzegovina si ricordano di Vedran Puljić, tifoso del Sarajevo a cui spararono fuori dallo stadio di Široki Brijeg due anni fa.

Sempre in territorio bosniaco, il derby tra le due piccole squadre della tristemente famosa cittadina di Mostar è una delle partite più pericolose del campionato, in una nazione che in Europa è tra i primissimi posti come violenza negli stadi. La guerra sui campi di battaglia e la distruzione di intere città e paesi è stata rinchiusa negli stadi, in un clima generale di tensione e rigidi controlli dell’informazione, come accade in Serbia, dove sugli scontri tra tifoserie è stata imposta la censura. I conflitti nella penisola balcanica negli anni Novanta probabilmente sono iniziati negli stadi, in quella generazione cresciuta dopo la morte di Tito, figlia di uno stato oramai decadente vittima di anni di corruzione e grande povertà, causati da un sistema federale incapace di riformarsi pronto all’autodistruzione. Non è un caso se molti vedono nella partita tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria del 13 maggio 1990 l’inizio della guerra. Quel match valido per le qualificazioni alla Coppa dei Campioni allo stadio Maksimir di Zagabria si trasformò in un mattatoio, dove la stessa polizia jugoslava che doveva garantire la sicurezza della partita iniziò a pestare i giocatori e tifosi croati. Famosa la foto dell’calciatore croato Zvonimir Boban che allontana a calci un poliziotto serbo che pestava un suo giovanissimo compagno di squadra. Želiko Raznatović, comunemente noto come “Arkan” la Tigre dei Balcani, arruolava i componenti del suo agguerrito branco di Tigri nella curva dello stadio Maracanà di Belgrado, tra i più coloriti e facinorosi tifosi dello Stella Rossa.

I meritevoli giovani disoccupati, magari figli come lo stesso comandante di militari serbi o burocrati, venivano invitati dopo la partita nella gelateria in Kneza Miloša, una delle vie principali di Belgrado, di proprietà di Arkan per discutere sul futuro della Serbia. In quel locale gremito di ragazzi frustrati dall’impossibilità di un futuro e ubriacati di dottrina nazionalista, gli ultras dello Stella Rossa diventavano così membri di uno dei gruppi paramilitari più famigerati attivi nelle guerre jugoslave. Inoltre il comandante serbo decise di ripulire una parte del bottino di guerra nel calcio a fine del conflitto in Bosnia Erzegovina, investendo proprio nel pallone. Il primo due di picche lo prese proprio dalla sempre amata Stella Rossa nel 1996, l'allora presidente del club più famoso di Belgrado rifiutò l'offerta di Arkan. La Tigre scelse allora di acquistare l'Obilic, l'altra squadra della capitale, e nel giro di un paio di anni non solo la portò nella massima serie ma gli fece conquistare il primo e unico titolo nazionale della sua storia. La scelta di puntare su un club originariamente così modesto era dettata da suggestioni al limite tra storia e leggenda nonchè megalomania. Obilic FK come Milos Obilic, uno dei sovrani serbi che combatté nella battaglia contro il Kosovo, nella quale il popolo serbo perse contro i turchi e restò senza patria per 500 anni. Arkan, tra l'altro, si sentiva il messia, il nuovo Obilic, capace di riscattare il popolo serbo e il conflitto appena terminato ne era la prova.

Proprio con questa immagine abilmente costruita, Arkan riportò le sue Tigri in Kosovo all’inizio dell’ultimo conflitto balcanico, trovando nuove reclute proprio nella tifoseria della sua nuova squadra. L’esaltazione nazionalistica serba è sopravvissuta alla guerra ed è ancora fortemente presente negli stadi. L’effige di Arkan è visibile sugli stendardi degli ultras della squadra belgradese, il cui negozio ufficiale è pieno di T-shirt con la scritta “Kosovo je Srbija”. “Snage Srbjia”, la sigla “1389” anno della leggendaria battaglia del Campo dei merli nella piana di Kosovo Polje tra l’esercito serbo e gli ottomani. Non solo in Serbia la cultura calcistica è pesantemente invasa da derive nazionalistiche. I tifosi dell’Hajduk Spalato, oltre a bandiere che riportano la tradizione degli aiducchi, i pirati che terrorizzavano l’Adriatico nell’età moderna, hanno coloratissime magliette con l’effige dell’ex presidente croato Tudjman e il simbolo del suo partito nazionalista. La tifoseria della Dinamo Zagabria, in particolare i famigerati Bad Blue Boys (BBB), possiedono un vasto repertorio di cori nazionalisti e colorate bandiere che inneggiano alla grandezza dello stato croato. Recentemente è nato un nuovo gruppo ultras appoggiato dal nuovo presidente Mapić, molto più incline a relegare da una parte il forte sentimento nazionalista croato della curva, che però è stato oggetto di agguati e numerosi scontri da parte del nucleo storico dei Blue Boys.

Come citato in precedenza, la divisione amministrativa della Bosnia in tre repubbliche autonome (Croata, Serba e Musulmana) si riflette anche nel calcio, aumentando nel paese gli scontri tra tifoserie di matrice nazionalista e religiosa. Un calcio bosniaco preda oltretutto di una federazione completamente in mano a un manipolo di corrotti, che si spartiscono tra di loro i ricavi delle amichevoli giocate dalla Nazionale bosniaca e i fondi della Uefa per lo sviluppo delle strutture calcistiche; una corruzione denunciata in piazza più volte dagli stessi tifosi in manifestazioni spesso represse dalle forze dell’ordine. Episodi di violenza che vengono sottovalutati pericolosamente dalla Uefa e dagli organi di vigilanza del calcio europeo e mondiale, inseriti in una escalation silenziosa che già una volta in passato ha prodotto danni enormi. Negli anni Settanta e Ottanta il fenomeno hooligans nel Regno Unito era nato in quelle cittadine e sobborghi della classe operaia e industriale, in cui stava covando un sentimento di rabbia pronto a esplodere per le difficili condizioni economiche del paese e per quella guerra condotta contro l’industria manifatturiera e mineraria a favore della nascente politica finanziaria mondiale.

Nei paesi balcanici questo sentimento di rabbia alimentato dalla retorica nazionalista ha prodotto una guerra e ancora oggi il focolaio del nazionalismo aggressivo non si è spento. In quella pace traballante che regna sui paesi della ex Jugoslavia, la guerra è stata rinchiusa e relegata negli stadi, tenuta nascosta agli occhi del continente e riemerge in occasione delle celebrazioni della memoria bellica. Le tifoserie di questi paesi ovunque vanno ostentano con manifestazioni violente e disordini questi sentimenti di odio, tramite gruppi minoritari di facinorosi che macchiano intere nazioni. Gli incidenti dei tifosi serbi a Genova in occasione della partita con l’Italia lo scorso anno e i disordini all’estero dei tifosi croati di quest’ultimo periodo ne sono una testimonianza. Elementi nazionalistici che sono presenti in altri sport: basti guardare le esultanze di Novak Djoković ad ogni vittoria e trofeo, il tuffo in piscina della nazionale di pallanuoto serba facendo con tre dita della mano il simbolo della trinità serba agli ultimi europei ecc.

Per combattere questa violenza nata da sentimenti che con il calcio e con lo sport non hanno niente a che fare, sarebbe necessaria una più severa vigilanza da parte degli organi competenti per bastonare tramite dure sanzioni (come la minaccia del taglio ai fondi di finanziamento alle federazioni, l’esclusione dalle competizioni internazionali sia di club che delle Nazionali, penalizzazioni nel ranking ecc) le federazioni calcistiche per costringerle a promuovere presso i propri governi delle legislazioni severe sulla violenza negli stadi. Nella sua immobilità causata da una mancata unione d’intenti e nella sua vocazione economica, l’Europa del calcio osserva indifferente l’esplodere momentaneo di questi casi di violenza, ignorando una situazione che in questi paesi è diventata la normalità. Una delle missioni principali dello sport e del calcio dovrebbe essere quella di trasmettere sentimenti di unione e amicizia, cercando di far dimenticare davanti a un pallone anni di guerre e di odio, non contribuire a soffiare sulle ceneri ancora ardenti di un conflitto dimenticato. Che ancora rumoreggia negli stadi, aspettando il momento in cui il pallone volerà fuori dagli spalti riversandosi in strada.

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«Belfast offrirà una cornice spettacolare ed apporterà qualcosa di molto speciale alla storia di questa corsa già mitica»Michele Acquarone rilascia questa dichiarazione a inizio 2013, quando è ancora direttore di RCS Sport (organizzatrice dell'evento), per annunciare la partenza da Belfast del Giro d'Italia n°97 (maggio-giugno 2014). Probabilmente il riferimento è al "cielo di Irlanda" cantanto dalla Mannoia o alle suggestioni che evoca il trifoglio nell'immaginario italiano.

Le polemiche che sono scoppiate attorno all'evento sportivo, ad un anno di distanza dall'annucio, non riguardano però la cultura celtica. E neanche le vicende che hanno portato al licenziamento di Acquarone. È la ferita dell'Ulster (le contee settentrionali rimaste sotto il controllo britannico) che continua a sanguinare. A ricordare il problema della questione irlandese sono state le dichiarazioni dell'onorevole Anna Lo, dell'Alliance Party (partito moderato di orientamento liberale), che ha proposto di rimuovere dal tracciato del Giro d'Italia le bandiere e i murales di Belfast (che caratterizzano la città), perché legate a un passato di guerra.

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