Lunedì, 16 Aprile 2018 00:00

Di sionismo, ortodossia e terra: la trasformazione di Israele in uno stato confessionale

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Di sionismo, ortodossia e terra: la trasformazione di Israele in uno stato confessionale

L’approccio alla storica questione israeliana e palestinese si è oramai arenato nella partigianeria politica. L’emotività suscitata dalle immagini di Gaza sotto il pesante attacco di queste ultime settimane da parte delle forze israeliane impedisce una analisi lucida sul percorso che ha portato a questo feroce scontro, oramai secolare. Il calderone in ebollizione della politica ha mescolato e ridefinito impropriamente termini storici come sionismo, panarabismo, ebraismo ecc.

Lo storico deve astenersi dal giudizio morale, perlomeno nel seguire il percorso ideologico che ha portato Israele su queste posizioni. Per riportare la politica su un piano di serio confronto dal ring della tifoseria, è bene ripercorrere le tappe principali che hanno dato una doppia connotazione negativa al sionismo e all’affermazione del diritto del popolo ebraico di avere una sua terra, chiedendosi anche quanto sia vera una affermazione di questo tipo. Più che sullo stato di Israele, c’è da porsi il quesito fondamentale  sulla sua identità e su quale sia il processo che è stato scelto per arrivare a tale conformazione. Un processo estremamente complicato, che non può ridursi a mere semplificazioni ideologiche utili solamente alla politica ma che deve essere analizzato in ogni suo aspetto.

Lo Stato d’Israele ha rotto il compromesso tra due criteri in conflitto reciproco tipici dell’ebraismo e che la diaspora manteneva, il criterio nazionale e religioso dell’identità. La riunione del popolo d’Israele come Stato nazionale ha sollevato l’enorme problema della possibilità di costruire uno stato “visibile” nella realtà storica, senza che il modello “invisibile” legato alla dimensione religiosa dell’ortodossia ebraica della Redenzione messianica predicato dalle autorità religiose diventi una delusione. Ma con il ritorno nella terra d’Israele il criterio nazionale e quello religioso hanno rischiato di nuovo la collisione, aspirando ognuno alla propria pienezza.

L’ebreo ortodosso praticante  viene indicato con il termine “haredì” (ripreso da un versetto biblico Isaia 66.5 “Coloro che tremano davanti alla parola di Dio”) e promuove i valori della passività ebraica e dell’attesa messianica secondo i comandamenti di Dio e i giuramenti stretti con Lui. Qualsiasi processo storico terreno di un ritorno del popolo ebreo nella Terra Promessa prima della redenzione finale tramite il volere divino è definito empio ed eretico. Una concezione dell’ebraismo cara soprattutto alle comunità ebraiche dell’Europa Orientale, più legate alla vita del ghetto e alle tradizioni più antiche. Non è un caso se il Sionismo come movimento politico nazionale nasce in Germania e in Europa occidentale, grazie al lavoro di Theodore Herzl, un letterato e giornalista ungherese che lavorò in un continente infiammato dai moti del 1848, che nutriva di ideali e di modelli il concetto di Stato nazionale.

Il modello di Herzl non poteva essere altro che la Prussia di Bismarck e tutto il processo politico che portò alla nascita della Germania come stato unico. Il sionismo in questi decenni, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si strutturò con molte caratteristiche simili ad altri movimenti nazionali dell’epoca, con i suoi congressi e le sue società di finanziamento.  Entrò in conflitto con le massime autorità religiose che guidavano le vite delle comunità ebraiche dell’Europa Orientale e attirò gli ebrei russi, molti dei quali avevano fatto propri gli ideali marxisti che porteranno al movimento rivoluzionario durante la Prima Guerra Mondiale. Furono proprio gli ebrei russi a fondare le prime comunità di Kibbutz alternative alle esistenti comunità religiose in Palestina, mettendo al centro della vita di questi insediamenti il lavoro e la coltivazione della terra.

David Ben Gurion, primo leader e fondatore dello Stato d’Israele, era consapevole che il mito sionista da solo non era sufficiente a dare un’identità forte alla nuova costruzione nazionale. L’intreccio tra religione e storia terrena nelle vicende del popolo ebraico portò il leader sionista a creare una sorta di “religione civile” in sostituzione a quella nazionale. Questa sarebbe dovuta essere in contrapposizione al giudaismo rabbinico talmudico e ortodosso, una selezione biblica di tipo mito simbolico per esaltare gli elementi dell’eroismo ebraico per rinforzare l’identità nazionale. La saldatura tra religione e nazionalismo nella costruzione dei miti fondativi nazionali creò un clima culturale di cui si avvantaggiarono anche le componenti religiose.

I nazionalisti forzarono l’interpretazione biblica in senso attivistico e cercarono di ridefinire l’autorità religiosa ortodossa come fonte di legittimazione dei nuovi significati di questi antichi simboli. Perfino nell’esercito si costituì il mito del pioniere che arava la terra tenendo nell’altra mano il fucile, stravolgendo l’iniziale mito della vita dei Kibbutz. L’esercito per il leader israeliano era espressione della forza creativa dei pionieri della nazione e lo strumento culturale per l’assimilazione di chi ritornava in Israele, elemento di fratellanza e di unione e difesa del popolo. Fu un cambiamento ideologico enorme nel movimento sionista. I valori del socialismo internazionale furono rinnegati e messi in secondo piano da Ben Gurion.

Il sionismo per non perdere il suo significato e vedere esaurito il suo compito dopo la fondazione dello stato d’Israele, si trasformò secondo la linea tracciata da Ben Gurion. Questo cambiamento ideologico da un socialismo pacifista comunitario a un nazionalismo collettivo, forse dovuto o giustificato dall’esperienza dell’Olocausto, portò alla formulazione di quel concetto nazionalreligioso molto caro all’ultraortodossia e ripreso o meglio conteso dal sionismo: la Grande Israele. E per completare e legittimare il Sionismo come artefice della creazione di uno stati ebraico, venne promulgata la prima legge fondamentale, la Legge del ritorno, che garantì la cittadinanza ad ogni persona di discendenza ebraica del mondo, purché si trasferisca in Israele con l'intenzione di viverci e di rimanervi e a condizione, se ancora in età, di compiere il servizio militare che per i maschi dura tre anni e per le femmine due anni.

La legge del ritorno e la legge sulla cittadinanza vennero promulgate dalla Knesset  nell'estate del 1950, mettendo in pratica il fondamento del Sionismo moderno, ossia il ritorno degli ebrei alla terra di Israele. Oltretutto segnò un punto di contatto e collaborazione con i gruppi religiosi ortodossi, anche se alcuni di loro condannarono la nascita dello stato israeliano come una forzatura contro la tradizionale passività ebraica definita nelle Sacre Scritture. Una posizione radicale che ancora oggi viene portata avanti da certe comunità, come il gruppo religioso dei Neturai Qharta (Sentinelli delle Mura) presenti alla Conferenza di Teheran di qualche anno fa in cui l’allora presidente iraniano Ahmadinejad promise la distruzione dello stato d’Israele.

Nella sua vicenda storica il peso della territorialità è aumentato ed è passata l’idea della terra come mezzo per realizzare la ricostruzione ebraica nazionale, come espressione del rapporto speciale tra il popolo e la Terra d’Israele, come base della sua sicurezza e come santificazione, che sia religiosa o laica, del territorio e dell’insediamento per il popolo ebreo. Inoltre va considerata errata la concezione che afferma la fine della Diaspora con la proclamazione dello Stato d’Israele. Esso ha bisogno di una diaspora forte, come la diaspora ha bisogno dello stato. Una delle riserve più forti dello stato soprattutto nei suoi primi anni di vita fu la forza e l’unità degli ebrei nella Diaspora.

La questione sull’essenza del popolo ebreo e del ruolo dello stato israeliano è ben lontana dal ritenersi chiusa, anzi Israele probabilmente è un tassello in più all’interno della domanda sull’identità ebraica. Vi è ancora la tendenza alla dispersione diasporica di molte comunità ebraiche nel mondo davanti al terrore di essere inghiottite nell’insediamento, con il perenne richiamo alla sicurezza dei confini davanti ad un insicurezza vissuta come parte integrante della vita in Israele. Dall’altro lato, Israele come stato laico è un attrattore di valori ebraici proprio in relazione a questo dibattito sull’identità. Lo stato israeliano quindi è attraversato politicamente e culturalmente dal dibattito sulla configurazione dell’identità ebraica all’interno dello stato, sulla definizione di chi sia ebreo all’interno come detto ma anche al di fuori di esso.

I conflitti tra o laici e religiosi o tra una componente religiosa contro un’altra sono la ricchezza stessa di Israele, che più di assimilare trasforma. Lo stesso sionismo e la stessa componente religiosa che nella sua storia si sono scontrati e poi relazionati in merito al tema dell’identità dimostrano come essi stessi siano solo due interlocutori all’interno di un processo più ampio. Ciò che definisce il sionista oggi non è più la volontà di fondare uno stato ebraico nella terra d’Israele, poiché è già stato fatto, perciò la sua definizione è cambiata come colui che riconosce il principio che lo stato d’Israele non appartiene ai suoi cittadini, ma all’intero popolo ebreo. Sull’identità di questo popolo la componente religiosa si è battuta per restituire alla formula tradizionale la definizione di ebreo nella Legge del ritorno del 1952, ovvero è ebreo chi è figlio di madre ebrea o si è convertito secondo le regole.

Ma nella definizione religiosa classica l’ebreo secondo le regole non è identificato da alcun comportamento particolare, non vi è alcuna indicazione di patria o lingua né di qualche elemento di appartenenza alla comunità. Anche lo stesso fatto che un uomo non figlio di madre ebrea possa entrare a farvi parte dimostra chiaramente che gli ebrei non costituiscono un popolo. Quindi l’ebreo sostanzialmente è colui che vi si identifica come tale. Riporto quindi la definizione di israeliano da parte dello storico Abrahm Ben Yehuda: “è israeliano colui che possiede una carta d’identità israeliana”. Dietro a questa semplice identificazione tecnica legata alla carta d’identità vi è tutto un insieme ricco e ramificato di diritti e doveri che collegano l’israeliano alla collettività e all’organizzazione che li unisce.

Quindi la parola israeliano designa un modo di esperienza ebraica totale, in cui la componente religiosa ebraica è presente come quella laica, ma come elementi di un insieme più ampio. La totalità deriva dal vivere in un determinato territorio che è la base principale dell’identità, della lingua, dal modo di vita di una determinata società, tenuta a fornire delle risposte a ogni individuo che vive al suo interno. Si può dire quindi che nella Diaspora l’ebreo è vissuto in modo parziale e si è identificato parzialmente anche dal punto di vista religioso.

Lo stretto rapporto con la terra è dovuto quindi al fatto che abbandonarla o perderla significherebbe il crollo dell’identità. Un principio pericoloso sul quale si è fondato lo stato d’Israele e per il cui cambiamento non ha saputo dare una risposta il Partito laburista, ancora traumatizzato dall’assassinio di Rabin e più moderato nella politica sui territori e favorevole a una pacificazione con il popolo palestinese. Senza un decisivo cambiamento del modo di vivere la relazione tra stato, terra e identità nazionale Israele non potrà mai pacificarsi con i vicini stati arabi e soprattutto cedere al principio dei due stati. Contrario anche a quella bandiera che simboleggia lo stato, una terra d’Israele che si espande tra il Nilo e l’Eufrate. 

 

Immagine ripresa liberamente da maxpixel.net

Ultima modifica il Domenica, 15 Aprile 2018 19:29
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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