Il fatto poi che la popolazione desse come propria lingua d'uso l'italiano non significa affatto che essa anelasse all'unione con l'Italia. Innanzitutto il dialetto venetomorfo di Trieste è sempre stato una sorta di lingua franca della città, utilizzato per i rapporti ufficiali anche tra non italiani e dunque non significativo per definire nazionalmente chi lo usa; in secondo luogo buona parte degli italiani di Trieste non era necessariamente irredentista, anzi: gli irredentisti rappresentavano una minoranza irrisoria se comparati alla totalità della popolazione. La descrizione di Trieste come città italianissima ed irredentista fu decisamente una costruzione della propaganda italiana, utilizzata prima per giustificare l'entrata in guerra e poi per costruire l'immagine della città redenta. Nei rapporti prebellici delle autorità austriache gli irredentisti venivano generalmente considerati una fastidiosa minoranza, numericamente trascurabile, sebbene molto rumorosa ed altolocata (i liberalnazionali, il braccio politico-istituzionale della borghesia irredentista, detenevano il controllo del Comune semplicemente perché le elezioni amministrative non erano a suffragio universale ma si svolgevano con il sistema censitario).
Il fatto che nella popolazione di Trieste l'annessione all'Italia non godesse di grandi favori è dimostrato dalle manifestazioni antiitaliane che esplosero in città al momento della dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria: una folla di manifestanti distrusse le sedi di diverse istituzioni irredentiste. Dopo la guerra le nuove autorità italiane cercarono di far ricadere la responsabilità su sloveni e polizia asburgica per di dare un'immagine di una città compattamente filoitaliana, ma recenti ritrovamenti negli archivi di Vienna hanno dimostrato che la manifestazione fu spontanea, che i dimostranti si esprimevano in dialetto e che le autorità asburgiche furono estremamente irritate per quelle devastazioni.
Credo si possa dire che la maggior parte dei triestini italiani avessero una percezione di sé non dissimile da quella dei ticinesi odierni: italiani per lingua e cultura, ma certamente non desiderosi di staccarsi dalla Svizzera.
La Prima Guerra Mondiale viene spesso raccontata, tanto nella narrazione nazionale di “strada”, quanto in quella ufficiale, come la “quarta guerra d'indipendenza”.
Almeno per quanto concerne Trieste, per tutelare gli interessi degli italofoni era inevitabile l'ingresso in conflitto? Quali altre strade furono tentate? Gli italofoni triestini, ed in particolare i lavoratori, come si schierarono?
Farei un distinguo: interessi dell'Italia, interessi della grande borghesia italofona, interessi del resto della popolazione italofona.
Gli interessi della popolazione italofona risultavano già ampiamente tutelati dalla legislazione austriaca. I tempi dell'Austria “prigione dei popoli” erano stati decisamente superati (almeno nella metà austriaca dell'Impero) con la costituzione del 1867, che garantiva rappresentanze elettive e scuole ai vari popoli della monarchia. L'unico problema aperto con gli italiani era la creazione di un'università di Trieste, che si temeva potesse venire monopolizzata dai liberalnazionali e dunque diventare un ricettacolo di irredentismo. Mi sembra però di poter dire che la popolazione italofona aveva più da perdere che da guadagnare con lo scoppio del conflitto.
L'alta borghesia italofona, che aveva detenuto il potere politico ed economico per quasi tutto l'800 grazie alle misure di franchigia di cui Trieste godeva, all'inizio del '900 – con la fine del porto franco - cominciò a declinare, a causa della sempre maggior influenza e forza economica di altre borghesie emergenti che stavano iniziando ad erodere il suo monopolio, in particolare quella ebraica viennese, quella ceca e quella slovena. Arroccata su posizioni di privilegio acquisito ed ormai incapace di contrapporsi a queste nuove forze, l'alta borghesia triestina iniziò a valutare l'opzione di uscire dall'Austria come possibilità di mantenere il controllo sulla città. In questo modo si spiega il passaggio del partito liberal-nazionale di Trieste verso posizioni sempre più intransigenti e sempre più vicine all'irredentismo. Non va inoltre dimenticato che il predominio dei liberalnazionali su Trieste era agli sgoccioli: nelle ultime elezioni del 1913 si erano accaparrati il Comune per l'ennesima volta, ma solo perché il voto era ancora su base censitaria; le elezioni successive erano previste con il suffragio universale, per cui si sarebbero trovati sicuramente a dover confrontarsi ad armi pari con i socialisti e forse anche con liste slovene.
Quanto agli interessi dell'Italia, va ricordato che Trieste era uno dei maggiori porti del Mediterraneo e risultava estremamente concorrenziale con i traffici marittimi italiani, a causa della sua maggior agilità amministrativa e del fatto che serviva un retroterra molto più vasto di quello della penisola italiana. Le linee navali triestine, merci e passeggeri, servivano Nord e Sud America, facevano spola con l'Egitto, fino ad arrivare all'India ed all'Estremo Oriente. Tutto ciò andava a scapito della portualità e delle linee italiane. Trieste andava dunque neutralizzata, e in che modo se non annettendola? La liberazione degli italiani era il pretesto da presentare all'opinione pubblica per reclamare un obiettivo che invece era prettamente economico.
Vienna cercò di evitare l'entrata in guerra dell'Italia, proponendo la cessione immediata del Trentino e dei territori ad ovest dell'Isonzo, ma prevedendo al massimo per Trieste – polmone fondamentale per l'economia austriaca - uno status di città autonoma nell'ambito della duplice monarchia, mentre l'Italia ne rivendicava la piena indipendenza, preludio ad una sua annessione. Chiaramente le posizioni dei due paesi erano inconciliabili e l'Italia dichiarò guerra all'Austria.
La popolazione di Trieste, come si è visto, reagì alla dichiarazione di guerra con scontri e manifestazioni antiirredentiste. Gli esponenti più in vista del partito filoitaliano furono arrestati o internati. I coscritti triestini, nonostante la successiva campagna che puntò a dipingerli tutti come irredentisti ed a rimarcare la loro scarsa bellicosità, combatterono in maniera non dissimile ai sudditi dell'Austria-Ungheria di altre nazionalità.
Più interessante fu la presa di posizione dei socialisti triestini che, anziché accodarsi alla montante esaltazione nazionalista di quei giorni come fecero molti socialisti in tutta Europa, restarono coerenti all'internazionalismo, esprimendosi contro la guerra: per questo motivo i socialisti triestini furono isolati dai circoli socialisti austriaci per buona parte del conflitto.
Quali furono per Trieste le conseguenze etniche della Prima Guerra Mondiale? Quali, di riflesso, quelle economiche e culturali?
Il conflitto portò ad una metamorfosi radicale della popolazione: dei 240.000 abitanti del 1914, quasi 90.000 abbandonarono la città durante il conflitto perché arruolati, per paura che l'esercito italiano sfondasse il fronte dell'Isonzo e Trieste divenisse essa stessa una zona di guerra (come successe a Gorizia) o per la carenza alimentare che colpì la città nei due ultimi anni di guerra. Quando la guerra finì, uno dei primi atti del governatore militare italiano Petitti di Roreto fu vietare il rientro nel territorio conquistato dall'Italia a reduci e sfollati che non fossero di nazionalità italiana. Dunque molti di quei 90.000 non poterono ritornare alle loro case e furono sostituiti da neoimmigrati provenienti dall'Italia. Oltre a questo mancato ritorno si verificò la partenza dei funzionari asburgici e anche di coloro che non vedevano di buon occhio l'arrivo dell'Italia., in particolare triestini di lingua slovena e tedesca. Nei confronti di questi ultimi ci fu una vera e propria epurazione: le scuole e i circoli culturali tedeschi vennero chiusi e trasformati in caserme, il quotidiano tedesco di Trieste cessò le pubblicazioni e si verificarono delazioni nei confronti di chi continuava parlava in tedesco. Nel giro di poco più di un decennio la comunità tedesca passò da 12.000 unità a 1.200. Anche nelle ferrovie si verificò una partenza di massa: con il pretesto di uno sciopero non autorizzato, le autorità militari italiane licenziarono in un solo giorno più di mille ferrovieri, in stragrande maggioranza sloveni e tedeschi, per sostituirli con personale proveniente dall'Italia.
Partirono anche molti dei commercianti di quelle piccole ma vivaci comunità che avevano reso Trieste un emporio cosmopolita, già consapevoli che con la caduta dell'Austria le fortune economiche di Trieste erano finite. Gli armeni, gli svizzeri, i turchi e i cechi quasi si estinsero, mentre altre piccole minoranze vennero fortemente ridimensionate.
I funzionari asburgici e la popolazione non italiana furono sostituiti da neoimmigrati del Regno che riempirono i vuoti. L'Italia insediò nelle "terre redente" una forza militare assimilabile nei numeri e nei comportamenti verso la popolazione ad un'occupazione coloniale. Il confronto con l'epoca austriaca dà l'idea di quale fu la militarizzazione del territorio: furono inviati nella Venezia Giulia 47.000 tra militari, poliziotti, carabinieri e polizia penitenziaria, mentre nello stesso territorio nel periodo asburgico erano presenti non più di 25.000 soldati, dei quali 17.000 stanziati a Pola, sede della flotta militare austriaca.
Da un punto di vista economico Trieste subì un colpo dal quale non si risollevò più: separata dal proprio retroterra naturale, senza più i legami commerciali con il bacino danubiano, abbandonata già durante la guerra dalle maggiori iniziative economiche, ridimensionata nei traffici marittimi, con le proprie compagnie armatoriali praticamente in disarmo e senza il sostegno di Vienna, la città perse praticamente tutti i commerci che l'avevano resa il maggior porto dell'Impero. La propaganda italiana, che ne aveva fatto l'obiettivo primario della guerra, l'aveva dipinta durante il conflitto come un Eldorado: decine di migliaia di italiani, illusi da questa propaganda, si trasferirono in città pensando di migliorare la propria condizione lavorativa e sociale, ma si trovarono in una città in piena crisi, andando ad alimentare le schiere degli indigenti cittadini, tanto che il governo dovette impedire l'emigrazione libera verso Trieste. Anche molti dei “regnicoli” tornarono in città, ma non trovarono nulla di ciò che avevano lasciato: negli ultimi due anni di guerra i triestini ridotti alla fame avevano saccheggiato le case abbandonate vendendo qualsiasi suppellettile per procurarsi cibo al mercato nero.
La delusione e la rabbia dei neoimmigrati, traditi nelle loro aspettative, e dei regnicoli sfociò in un malessere sociale che portò molti di essi a diventare facile preda della demagogia dei movimenti nazional-patriottici e del reducismo dannunziano. Gran parte della manovalanza dello squadrismo nazionalista che poi confluì nel nascente movimento fascista fu reclutata proprio tra di loro.
Primi obiettivi di questi squadristi furono la popolazione slovena e le istituzioni della sinistra: fin dai primi giorni dopo l'arrivo dell'Italia iniziarono aggressioni e violenze contro sloveni e socialisti, con l'assenso delle autorità che garantivano la quasi totale immunità agli squadristi e spesso addirittura con la partecipazione attiva delle forze dell'ordine alle azioni. Le violenze toccarono il proprio apice il 13 luglio del 1920 quando a Trieste si verificò un vero e proprio pogrom antislavo che culminò nell'incendio del Narodni dom (Casa del Popolo), un palazzo multifunzionale per l'epoca modernissimo, che ospitava buona parte delle istituzioni culturali, economiche e politiche degli sloveni, dei croati e dei cechi di Trieste e che era percepito come il cuore pulsante della comunità slovena. Nei mesi e negli anni seguenti le autorità adottarono misure atte a distruggere l'identità linguistica e nazionale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia: vennero internati intellettuali e sacerdoti, gli insegnanti furono trasferiti altrove in Italia, venne proibito l'uso pubblico delle due lingue, vennero sciolte le associazioni culturali, sportive, economiche e ricreative delle due minoranze, i cognomi furono forzatamente italianizzati, le terre slovene e croate vennero espropriate a favore di contadini italiani, vennero chiuse le scuole, i giornali e le case editrici. Tutti questi provvedimenti e le violenze squadriste mostrarono agli sloveni e ai croati residenti in Italia quanto precaria fosse la loro posizione: l'unica possibilità per restare era abbandonare la propria lingua e la propria cultura; l'alternativa era l'emigrazione. Si calcola che gli sloveni e i croati che abbandonarono la Venezia Giulia tra le due guerre per rifugiarsi in Jugoslavia (ma anche in Argentina dove fiorì una consistente comunità slovena) furono circa 100.000.
Su Trieste sono passati sopra due conflitti, la guerra fredda, la nuova Jugoslavia, le migrazioni extra-UE e l'integrazione europea. Qual'è oggi l'identità e quale prevede sarà il futuro identitario di Trieste?
Trieste subì una notevole metamorfosi dopo la prima guerra mondiale, quando da centro cosmopolita e multietnico divenne la “città italianissima” di epoca fascista. Dopo il breve periodo del Territorio Libero di Trieste seguito alla seconda guerra mondiale, in cui parve potersi realizzare l'idea di uno stato triestino indipendente, la normalizzazione di Trieste e la sua trasformazione in una città italiana si accentuò ulteriormente dopo il '54, con l'insediamento in città di circa 70.000 profughi istriani. La saturazione del mercato del lavoro, nel quale i profughi godevano di ampi privilegi, spinse all'emigrazione decine di migliaia di “autoctoni”, che partirono per l'Australia. Anche gli sloveni che erano riusciti a resistere alla snazionalizzazione fascista vennero ulteriormente ridimensionati dall'emigrazione, mentre nei decenni successivi si verificò l'arrivo in città di molti immigrati provenienti dall'Italia, assunti prevalentemente nel pubblico impiego.
Trieste tuttavia ha continuato – se non altro per la propria posizione geografica – ad essere un melting pot di popolazioni e lingue diverse, seppur in maniera non così evidente come in epoca asburgica: la lingua italiana, sospinta dai media, è diventata il mezzo linguistico privilegiato, soppiantando gradualmente il dialetto, che pur continua ad essere parlato da una larga fetta della popolazione. Sotto questa superficie formalmente italiana si muovono lingue e comunità in crescita, l'unica linfa nuova per una città che ha la popolazione più anziana d'Italia. Tuttora continua ad esistere una comunità slovena con istituzioni proprie; la comunità serba ha avuto un nuovo impulso dopo la fine della Jugoslavia, fino a rappresentare il gruppo immigrato più numeroso in città, preponderante in alcuni settori lavorativi, come l'edilizia. Negli ultimi decenni sono cresciuti esponenzialmente altri gruppi, quali quello cinese, rumeno, albanese.
La caratteristica di Trieste come città in cui si fondono popolazioni di origine differente ha ripreso, grazie alla sua posizione marginale in Italia, ma centrale in Europa; l'identità triestina resta forte, se non altro per l'uso del dialetto, con sfumature diverse: triestini che si sentono italiani, triestini che riconoscono una propria identità locale preponderante (sfociata recentemente in un revival dell'indipendentismo), sloveni triestini. Il futuro identitario, come quello economico, tuttavia mi pare destinato a diluirsi come altrove in un'italianità diffusa, favorita soprattutto dalla televisione e da un'omologazione linguistica delle generazioni più giovani.