“Un voto sul merito e non contro il sindaco” per Rete a Sinistra (l'aggregazione ligure presentatasi alle regionali che sostanzialmente esprime rappresentanti solamente o quasi di Sinistra Italiana) dopo il voto che 19 a 14 (6 gli astenuti, ai voti del centrodestra contro la delibera si sono aggiunti per l'appunto quelli di Rete a Sinistra e del rappresentante eletto con l'allora Federazione della Sinistra) ha affossato la proposta della giunta e consegnato, anche se era nell'aria da tempo, al passato di questa città la sindacatura del professore.
Una scelta, quella della fusione, che per il sindaco era dettata da stringenti motivi economici. Amiu ha infatti un'esposizione debitoria superiore ai 35 milioni di euro e non ha le risorse necessarie ad intervenire, per obblighi di legge per altro, sugli impianti (rimane aperta tutta la vicenda legata alla discarica di Scarpino). Se approvata la delibera, che in forma modificata potrebbe essere ripresentata, avrebbe salvaguardato i livelli occupazionali e contenuto la crescita di una tariffa sui rifiuti particolarmente pesante in una città che porta gran parte della propria spazzatura fuori regione e nella quale la raccolta risulta particolarmente costosa per l'estensione e lo sviluppo collinare della stessa (il rischio è, secondo il sindaco, un aumento del 20% contro il 6).
Ovviamente non è tutto così roseo come lo ha presentato la giunta: Iren è, giuridicamente, una società per azioni, Amiu una municipalizzata totalmente pubblica. La vicenda non è però nemmeno così semplice come la si è presentata a sinistra. La mancata aggregazione Amiu-Iren ci indica l'esistenza un problema nazionale di prima grandezza.
Da un lato vi è un attacco forsennato alle gestioni comunali (l'ultimo in ordine di tempo operato dalla ministra Madia per la liquidazione delle municipalizzate sotto il milione di euro di fatturato) in un classico tentativo delle classi dominanti di espandere il proprio dominio ad ogni ambito della vita umana (è proprio da manuale di economia politica). Dall'altro lato, e legato a quanto si è detto prima, vi è l'impoverimento dei comuni scientificamente operato per costringerli a mettere su mercato tutto (più in grande questa cosa è stata fatta con la Grecia). Al netto di tutto ciò vi è però una difficoltà oggettiva di piccole municipalizzate a realizzare e gestire impianti o a fare economia di scala negli acquisti. Il nodo di tutto, a costo di apparire noioso, risiede nel potere (premesso che le norme giuridiche sono espressione di quest'ultimo).
Esistono oggi strumenti giuridici al di fuori della società per azioni che consentano ai comuni di realizzare economie di scala per i servizi da loro offerti? C'è la possibilità giuridica di avere aziende grandi, enti pubblici economici (e queste tre parole messe in fila, non so a voi, ma a me suonano potentemente erotiche, musicalmente primorepubblicane) capaci di abbattere i costi senza cedere ai pescecani la proprietà di quanto messo in piedi dalle generazioni che ci hanno preceduto? È lì che risiede il nocciolo della vicenda.
Appare troppo semplice, e dunque troppo stupido, gettare la croce su di un sindaco che prova a salvare il salvabile. Sarebbe invece necessario un tavolo, che esca fuori con proposte di legge ed iniziative pubbliche (compresi gli scioperi) e che metta insieme CGIL, sindacati di base, sindaci (persino molti della Lega credo non rifiuterebbero queste suggestioni) proponendosi di bestemmiare: di dire che le gare europee per i servizi pubblici sono una cazzata sesquipedale volta solo a far arricchire un capitalismo parassitario, che si può avere un pubblico monopolista e non per questo inefficiente.
Tutto ciò è però, per l'appunto, una questione grande, molto più grande di Genova, di Marco Doria e del nostro guardare troppo in basso.