Venerdì, 06 Dicembre 2013 00:00

Il distretto pratese funziona, per il mercato

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Il distretto pratese delle confezioni “funziona”. Si è strutturato nell'ultimo quarto di secolo, con i progressivi aggiustamenti chiesti da un mercato che si apriva all'intero continente, e produce grandi profitti. Lo sta facendo anche negli anni della crisi, con una dinamica che va oltre gli stessi confini dello stato nazionale. Ci guadagnano quasi tutti, in un modo o nell'altro, in maggiore o minore misura. Solo due le eccezioni, assai indicative. 

Per primi i lavoratori, i “senza nome”, arrivati più o meno clandestinamente dalla Cina per finire alla base della piramide economico-sociale, e pronti a vivere nelle condizioni che tutti conoscono pur di scalarne qualche gradino. A ruota c'è il pubblico: stime anche prudenziali calcolano una evasione fiscale di circa un miliardo di euro, con una percentuale di irregolarità riscontrate ben superiore alla media. A questo vanno aggiunti i mancati introiti per le casse degli enti locali, che forniscono beni e servizi senza ricevere in cambio una compartecipazione delle spese. Insomma a perderci sono gli operai e lo Stato, inteso come collettività. A ben guardare, non ci sono novità rispetto a una tendenza più che trentennale.

La pubblicistica sul “caso Prato” ormai può riempire una intera biblioteca. Per cercare di sintetizzare – evitando le ipocrisie - quanto è accaduto in quella che è diventata la seconda città della Toscana con i suoi 180mila abitanti ufficiali (200mila quelli complessivi) la prima domanda è: perché proprio qui si è formata la più numerosa comunità cinese dell'intera penisola, con 15 mila residenti ufficiali e circa il triplo di effettivi? Una risposta plausibile è che la caratteristica imprenditorialità diffusa, marchio di fabbrica della città, si sposava perfettamente con le esigenze degli immigrati asiatici. 

Il pratese Francesco Nuti, nel suo primo film “Madonna che silenzio c'è stasera” del 1980, ben raccontava la dimensione quotidiana di attaccamento quasi maniacale al lavoro dei suoi concittadini. Che sul tessile erano diventati ricchi. Tanto da dividersi con Brescia, solo per fare un esempio, la palma di maggior numero di Mercedes acquistate in rapporto ai residenti. Alla voglia di lavorare anche molto oltre gli orari consueti, e allo specifico comparto industrial-commerciale già conosciuto dai nuovi arrivati, si aggiungeva poi il terzo, decisivo fattore della capacità di fare affari anche chiudendo un occhio (e mezzo) sui possibili effetti collaterali. Se dal credito facile – poi sfociato nel crack – della locale Cassa di risparmio è nato un intero quartiere, facile capire come l'area pratese rappresentasse terreno fertile, almeno per chi arrivava con la stessa, feroce volontà di fare soldi dei padroni di casa.

A cavallo fra gli '80 e i '90, archivi di cronaca alla mano, la prima ondata migratoria cinese lavora di fatto nelle stesse condizioni di oggi. Attratti da nuove, più laute fonti di profitto – mattone e finanza – gli eredi della tradizione imprenditoriale cittadina finiscono per costruire una nuova area industriale, il Macrolotto dove è avvenuta la strage di domenica, e affittano a caro prezzo i capannoni ai nuovi arrivati. Mentre si dedicano al recupero residenziale delle vecchie aree industriali, lasciano che si affermi in città una economia parallela, che progressivamente cancella quasi ogni forma di resistenza da parte di chi si ostinava a mantenere  le tradizioni familiari. 

Se Prato resta tutto sommato aliena, nonostante la fortissima immigrazione, da episodi di conclamata intolleranza, è perché nel tempo si produce una integrazione economica, fra vecchi e nuovi cittadini. Ancorché semi-sommersa, la filiera del tessile e delle confezioni pronto moda dà vita a un sistema integrato che, oltre alle aziende terziste che commissionano parte delle lavorazioni, necessita di competenze che solo i vecchi residenti possono offrire. Una sorta di grande indotto che, nei fatti, permette alla città di restare a galla anche negli ultimi anni di crisi, nel reciproco interesse delle sue componenti.

Se anche, nella dimensione “sociale”, i muri dell'incomunicabilità faticano a essere superati, dati alla mano Prato rappresenta il più riuscito melting pot dell'intera Toscana. Dove in strada e nei mezzi pubblici è più facile trovare immigrati, anche africani e dell'est europeo, che residenti di vecchia generazione. Una città che accoglie. Al prezzo di perpetuare una sua peculiare forma mentis nelle forme inumane del presente. Dal telaio in casa, alla fabbrica-casa.

Immagine tratta da www.blitzquotidiano.it

Riccardo Chiari

Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista, purtroppo oggi chiusa. Direttore di numerosi progetti editoriali locali, fra cui Il Becco e La Prospettiva.

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