Giovedì, 16 Ottobre 2014 00:00

I Lakota, i cavalli e le aquile

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Guardate, fratelli miei, la primavera è arrivata;
la terra ha ricevuto l'abbraccio del sole
e noi vedremo presto i risultati di questo amore!
Ogni seme si è svegliato.
E così anche tutta la vita animale.
E grazie a questo potere che noi esistiamo.
Noi perciò dobbiamo concedere ai nostri vicini,
anche ai nostri vicini animali,
il nostro stesso diritto di abitare questa terra.

(Tatanka Iyothanka, Toro Sefuto, popolo Sioux)

Tra le iniziative della mostra Wo Lakota, organizzata dall’Associazione culturale Wambly-Gleska (Aquila Chiazzata) e presentata da Sergio Susani e Alessandro Martire Pelnty, direttore dell’Associazione, e  inaugurata il 6 ottobre a Palazzo Medici Riccardi, mercoledì 8 ve ne è stata una molto particolare e suggestiva, innanzitutto per il contesto e l’ambientazione. 

Anziché svolgersi in una delle bellissime sale del palazzo, o in un altro posto al chiuso, si è tenuta all’aria aperta e fresca della campagna malmantilese (frazione di Lastra a Signa), presso il CTE Malmantile e Falconieri Fiorentini, dal titolo “Il rapporto con il cavallo e gli esseri alati nella cultura Lakota Sioux”. Lo scenario era dunque quello di un maneggio; sopra anziché un soffitto mirabilmente affrescato, la bellezza pura e trasparente di un cielo limpido e azzurro, e compagni di questa immersione nella natura oltre agli ospiti e al resto del pubblico tanti musetti di cavalli che sbucavano dalle loro “celle”, con l’accompagnamento musicale dei falchi, ahimé, devo dirlo, chiusi nelle loro altrettante celle.

Terminata la presentazione di Alessandro, ha preso la parola Ferdinando Ferrini, direttore del centro, il quale ne ha illustrato le attività e la finalità. Oltre a essere istruttore di equitazione, e a organizzare, a ogni cavaliere o amazzone interessati, escursioni da un’ora a più giorni, vere e proprie vacanze a cavallo,  Ferrini ha creato anche una sorta di cavallo-terapia per aiutare persone – soprattutto bambini – con disagi fisici, psicologici, comportamentali.. perché, attraverso il rapporto con i cavalli (tre ogni tre bambini) o lunghe passeggiate addirittura di 120 km, esse possano trovare un’evasione, un sorriso, la forza, l’energia e la positività avvertendo di fare qualcosa di bello ed emozionante. Inoltre, Ferrini è anche addestratore di falchi, con cui si esibisce in spettacoli che probabilmente faranno venire i brividi – ometto qui il mio giudizio sulla falconeria e l’addomesticamento di creature che a mio avviso dovrebbero volare sempre liberi in altri e più infiniti cieli, anche se non metto in dubbio l’amore e l’attenzione che sicuramente Ferdinando e i suoi collaboratori dedicheranno a questi magnifici ed eleganti volatili. Il direttore dichiara che la passione per i falchi l’ha avuta fin da bambino e in seguito, grazie soprattutto alla conoscenza di un maestro di falconeria, da semplice passione è diventata una vera e propria abilità e attività. Anzi, si corregge, più che attività tecnica, a suo avviso la falconeria è una vera e propria arte, che richiede un’enorme pazienza, una grande fermezza e anche un bel po’ di coraggio (qualche graffio direi che è inevitabile!), ma che alla fine dà una gratificazione e soddisfazione immense, date dalla gioia commossa di veder spalancarsi in volo la tua creatura al “comando” delle tue esortazioni vocali o dei tuoi gesti. Ciò che fa con questi uccelli, Ferrini non lo considera dunque, uno spettacolo circense, ma un’arte che gli riempie il cuore ogni giorno di più: “lavorare con i miei rapaci”, dice quasi commosso, “lo ritengo il lavoro più bello del mondo, proprio perché per me non è un lavoro”. Dopo l’esordio così appassionato e sentito da essere quasi struggente, di Ferdinando, che attraverso il suo discorso e il tono di voce, trasmette davvero il senso profondo e la dedizione assoluta con cui si abdica alla propria arte, oltre al proprio amore per i suoi animali, hanno preso parola, uno alla volta, gli ospiti Lakota, tra cui il famoso attore Moses – Mo – Brings Plenty e la moglie Sarah Ann

Dopo il rituale di purificazione dello smanging – foglie bruciate da cui esala un odore che sembra quasi quello della cannabis – tutti ringraziano Ferdinando e lo elogiano per il suo lavoro a contatto con natura, animali ed esseri umani e tutti si dicono felici di passare dall’ambiente cittadino degli ultimi giorni all’immersione nella campagna, circondati da polvere, erba, fiati dei cavalli, suoni di uccelli e via vai di cagnolini, sotto quel cielo che pian piano comincia a diventare color del fuoco, avvicinandosi all’ora del tramonto. Le parole calde di questi ospiti dalle lunghe trecce sembrano provenire da un mondo mille miglia lontano, non solo nello spazio ma anche nel tempo, come un'eco sepolta forse dentro lo spirito di ciascuno di noi, ma che fatica ad affiorare, così soffocata dalla frenesia quotidiana, dagli stress della routine, dalla perdita di contatto col mondo e con le sue creature, dalla fretta e l’urgenza logorante che ci aliena sempre di più dalla bellezza delle piccole cose, che ci fa dimenticare quanto a volte sia bello fermarsi, ascoltare il proprio respiro e sentire, lasciando smarrire lo sguardo nel rosso del tramonto, di essere grati, almeno ogni tanto, di esser parte di questa cosa immensa e misteriosa, chiamata universo.

Dette da me o da qualsiasi altra persona, parole del genere suonerebbero sdolcinate o irritantemente buoniste e retoriche, sentimentali e ridondanti, ma quando le dice Moses o un altro degli ospiti, la percezione è opposta, forse perché si avverte immediatamente che chi le pronuncia le sente e vive veramente, le mette in atto ogni giorno, ogni mattina salutano il compagno sole, o la compagna aquila, o la danza dell’acqua, o il canto delle stelle, o il galoppo di un cavallo sulla terra bruciata dal sole, come se tutto fosse parte di noi e come se noi fossimo parte di tutto, come se il mondo, la natura, ogni essere vivente si armonizzante in un’unica eterna e ancestrale sinfonia, suonata dall’inizio della creazione da quell’unico Grande Spirito che ci abbraccia tutti nell’unisono di un unico grande cuore. “Noi simo in ogni cosa, l’uno è tutto e tutto è uno” dice Mo. E quando lo dice sembra vero. Forse lo è, in ogni caso, in quel momento, almeno per quell’istante sai, o comunque hai la sensazione, che sia davvero così. Che non è la terra ad appartenere a te, ma sei tu che appartieni a lei, tu insieme a tutto il resto del creato. Che siamo tutti fratelli, indipendentemente dal colore della pelle, dalla diversità delle culture, dai credi, dal sesso, dalle tradizioni, dalle culture, dalle differenze economiche, dai gusti sessuali. Tutti siamo in tutto e tutto è in noi e dovremmo essere grati e provare incanto e meraviglia, stupore quasi paralizzante ogni volta che apriamo gli occhi e ci rendiamo conto di tutto quello che ci circonda, dal mistero del sole che nasce e che muore alla geometrica corsa di un cavallo, dal vagare lento delle nuvole e il vorticoso gioco dei venti al mutarsi delle stagioni, dalla poesia della pioggia che cade a quella di un seme che germoglia e diviene albero, dal vermicello che si muta in crisalide e poi in variopinta farfalla alle onde placide o violente del mare, dalla danza erotica dei calabroni nei nidi di petali dei fiori al meraviglioso, perfetto e impenetrabile meccanismo che fa nascere ogni cosa e che anche la fa morire;  prima che muoia c’è, esiste e questo a volte dovrebbe bastare a farci sentire grati e in pace, per essere qui, accolti tutti e tutto quanto insieme, dentro questa bellezza quasi insostenibile, immersi dentro questo enorme mistero che tutti ci comprende e avvolge, mistero di cui noi stessi siamo parte e che, piuttosto che da decifrare è da vivere e ammirare, amando ogni sua piccola cosa, anche la più minuscola e apparentemente insignificante, che sboccia e appassisce su questa terra. 

Molte storie si tramanda da varie generazioni, il popolo dei Lakota, e ancora oggi molti di loro ne sentono profondamente il messaggio e il significato. Una di queste, è quella della ri-creazione, inteso in termini di rinascita, ri-generazione: un giorno, moltissimo tempo fa, ci fu una grande alluvione sulla terra. Fortunatamente una donna Lakota riuscì a sopravvivere grazia all’aiuto di un’Aquila, la quale procurò cibo e acqua, protezione, riparo sotto le enormi ali e compagnia alla superstite. Le divenne amica, ma non potendo vivere questo rapporto del tutto alla pari, volò in alto in alto fino al creatore dell’universo supplicandolo di trasformarla in un essere umano, in un uomo. Ed è in questo modo che siamo stati rigenerati, attraverso la ri-creazione, la rinascita dell’Aquila in uomo e il suo amore per la donna Lakota. Per questo l’aquila è diventata, nella cultura di questo popolo, simbolo e messaggero del Grande Spirito, tanto che questo nostro grande parente è anche veicolo di preghiera, tramite il contatto con esso e il richiamo ad esso, tutto trova la sua giusta direzione perché è sotto la sua guida protettiva e saggia. “Ancora durante le nostre cerimonie”, continua uno degli ospiti Lakota, “chiamiamo in aiuto gli spiriti e uno di questi è proprio l’Aquila chiazzata, che porta il nostro messaggio al Grande Spirito e da questo lo riporta a noi. Abbiamo ricevuto istruzioni su come usare le penne di questo nobile uccello, le quali fungono da antenne. Ogni uccello ha la propria storia, la propria sacralità contenuta, quasi come un codice genetico, nelle proprie piume e anche quando indossiamo le penne dell’aquila, non ci dimentichiamo mai dei suoi e dei nostri fratelli alati, perché nessun uccello è più importante degli altri: non c’è gerarchia nella natura né tra gli esseri umani. Neanche noi ci sentiamo superiori agli uccelli, anzi, sono loro ad esserci superiori, perché possono volare verso l’alto, mentre noi abbiamo i piedi radicati e piantati per terra e non possiamo elevarci a quelle alture che solo le loro ali possono sfiorare.”

Prende poi la parola una delle donne Lakota presenti, il cui nome significa “donna la cui eco va oltre”, che dice di avere un nipote disabile e si augura che prima o poi verrà in questo poso, dopo aver ribadito che alle aquile sacre il suo popolo affida le proprie preghiere affinché esse le portino alte nel cielo e per loro questo è sacro.

Anche Sara Ann, moglie di Moses si dice emozionata di essere nel bel mezzo della natura, in un posto affollato da tanti animali, soprattutto cavalli, che lei da “ragazza di campagna” quale si definisce adora fin da piccola. Si emoziona della sua e dell’emozione che traspare nei nostri occhi, dell’emozione che coinvolge tutti noi e allo stesso modo, che tutti ci unisce e accomuna e sorride del nostro stupore di fronte al legame profondo, genuino, naturale che il popolo dei nativi ha stabilito e continua a stabilire con gli animali. “Noi”, afferma, “impariamo dagli animali a vivere, a comportarci gli uni con gli altri. Abbiamo molto da imparare qui e molto da imparare là fuori”.

A parlare poi è Moses, bello e senza età, con lunghe trecce  nere che dichiara non tagliarsi da circa 14 anni  e tra l’altro per un piccolo divertente incidente col tagliaerba (i capelli lunghi permettono di entrare in connessione col divino): “il mio nome Lakota”, esordisce, “è colui che acchiappa i cavalli” e prosegue: “Abbiamo parlato di giovani con difficoltà fisiche, alcuni hanno delle sfide a livello mentale, ma si rendono conto più di noi qual è la realtà vera. Il cavallo è una medicina, il cavallo è uno degli ultimi dottori che oggi abbiamo nel mondo. Noi siamo qui, ci spostiamo, camminiamo, ma per la mia guarigione devo ricevere un cavallo. Il cavallo è presente al mondo degli spiriti, ecco perché in tempi passati i nostri uomini avevano sempre un cavallo. Salire sopra un cavallo significa salire sulla schiena degli spiriti e se si rimane sulla groppa non si potrà mai cadere perché è con lo spirito che si resta collegati, è sopra e con lo spirito che si galoppa. Stando sul cavallo so che porto il mondo degli spiriti sulla mia schiena.”

Racconta poi una storia sul rapporto tra il popolo Lakota e i cavalli, che risale a molto tempo fa: “Quando vennero i soldati americani, dopo essersi impadroniti delle nostre terre e di tutte le loro ricchezze,ci presero e cominciarono a raggruppare la nostra gente da una parte e dall’altra tutti i nostri cavalli, con l’intenzione di massacrare gli uni e macellare gli altri. I cavalli capirono subito la terribile volontà dei soldati e alcuni di loro, mentre già gli altri stavano cominciando a esser uccisi, scapparono via e cominciano a correre all’impazzata. A un certo punto però si accorsero che anche alcuni dei nostri giovani erano riusciti a fuggire e tornarono indietro verso di loro, a prenderli. Così insieme cavalcarono sempre più forte, tanto forte che molti dei nostri uomini caddero ma prima di morire dissero che davano la loro vita affinché noi possiamo vivere in eterno”. Insomma il rapporto con gli equini è quasi atavico ed è un legame di assoluto rispetto, e non di subalternità, tanto che è il cavallo che sceglie il cavaliere. Non si tratta di una vera e propria scelta, ma il cavallo si presenta all’uomo e se questi si dimostra degno della sua fiducia, allora l’anima gli permette di salire in groppa e di diventargli amico. “Noi ci connettiamo col cuore ai nostri fratelli cavalli, un po’come avviene nel film Avatar!” E continua, “Non ci sono più scuse da addurre a comportamenti sbagliati, quando imparerete a credere, solo allora la vostra vita troverà pace, certezza, sicurezza.” Moses ha poi rivolto parole bellissime a Ferdinando e alle altre collaboratrici che si occupano di bambini con problemi fisici o mentali: “toccherò il tuo cuore, ogni volta che danzerò, mio giovane fratello. Non essere triste per le cose che non sei stato tu a fare. Quello che la vostra gente, l’uomo bianco ha fatto al nostro popolo non è una colpa tua, perché tu non c’eri e neanche noi c’eravamo. Ma ora siamo qui, tu e noi, noi insieme e insieme iniziamo la nostra guarigione. L’amore è ciò di cui il mondo e le persone hanno bisogno; l’amore è ciò che questi bambini hanno bisogno di vedere e ricevere, è una buona medicina che ci porterà sopra le stelle, farà sì che i propri sogni si realizzino, farà sì che la nostra vita divenga di nuovo una realtà. Nessuno è più grande dell’altro. Siamo tutti esseri umani in uno stesso cammino spirituale. Siamo tutti fratelli.” Di nuovo, queste parole potrebbero traboccare di sentimentalismo o buonismo spicciolo, ma dette da Moses, proveniente da una cultura che ama ogni creatura dell’universo, perché in ognuna di esse sa che vi palpita una goccia, una traccia del Grande Spirito, perché crede che gli spiriti siano ovunque, in ogni cosa e che basta invocarli, ascoltarli, riuscire a captare i loro messaggi di pace, amore fraterno, rispetto, lealtà, allora quelle parole diventano le più sagge, profonde e vere di qualsiasi discorso sui massimi sistemi o retoricamente ridondante ma troppo spesso vuoto di contenuto che spesso esce dalle bocche dei nostri rappresentanti al governo. Nessuno oggi osa parlare più di pace, di fratellanza, di rispetto reciproco o se ne parla è solo per fare propaganda spicciola. E non parlandone si dimentica l’importanza e la necessità di queste parole che in ogni momento e in ogni luogo dovrebbero diventare realtà concrete. Per Moses e per gli altri lo sono. E questo lo si avverte. Un ringraziamento particolare va anche, da parte dell’attore, alle donne della sua vita, la madre, la sorella, la cognata e la moglie, che lui chiama “la donna che cammina al mio fianco”, perché, dice, “io non possiedo una moglie, lei è la donna che cammina accanto a me e quando la guardo, vedo che è la figlia della creazione e di tutte le creazioni e sono onorato di aver avuto la benedizione di averla qui a camminare a fianco a me. lei cammina accanto a me, come tutti coloro che mi sono vicini camminano, non dietro di me, ma al mio fianco, perché dietro di me cammineranno solo le generazioni future.” E, citando una frase di Toro seduto aggiunge: “Io non sono nulla. Io non sono grande. Sono le donne della mia vita che sono grandi. Queste donne sono tutto” 

Intervengono anche Sergio Susari e il professor Mario Pianesi fondatore dell’Associazione UPM – Un Punto Macrobiotico – il quale parla del grave problema di diabete che dilaga tra i popoli dei nativi, e che grazie alla sua associazione si occupa di favorire un’educazione sui rischi di un’alimentazione sbagliata, grassa e nociva e invece i vantaggi di una sana, cercando anche di rimettere questi popoli in contatto con quelli che erano i prodotti genuini della loro terra, per cercare di farli tornare alle loro abitudini alimentari originarie. Infine riprende la parola Moses, e stavolta le sue parole sono più dure e anziché trasmettere un quieto senso di pace e amore, riflettono il dolore, la tragedia, la rabbia, la perdita, l’ingiustizia, la disumanità dei colonizzatori, di cui è gravida la memoria storica del suo popolo. Parla infatti di quel tremendo programma statunitense chiamato di rilocazione o di terminazione per il quale prima la sua gente venne strappata dalla propria terra e imprigionata in quei campi di concentramento chiamati riserve e poi, con la fasulla promessa di una casa venne sbattuta nei ghetti periferici e squallidi di grandi metropoli, dove molti dei nativi, perduto il contatto con quello che era il loro mondo, le loro abitudini, i loro ritmi, i loro rituali, le loro tradizioni, la loro cultura e la loro terra, si sono dati all’alcool o sono finiti in carcere, trattati come relitti, come esseri invisibili da emarginare.  

La bella e intensa giornata si è infine conclusa con due eventi altrettanto suggestivi. Il primo è stato lo scambio di doni tra i nativi e Ferdinando e collaboratori, per la maggior parte penne d’aquila (“una penna sola non può far volare un uccello, molte penne insieme sì”). Molto significativo, tra questi, un guscio di tartaruga, dove i nativi usavano inserire il cordone ombelicale del bambino appena nato, affinché il suo cuore possa diventare forte come quello della tartaruga, che è il più potente tra tutti, tanto che anche dopo la sua morte, esso continua a battere per almeno due giorni. L’altro momento di estremo impatto visivo ed emotivo è stato lo spettacolo di Ferdinando con uno de suoi falchi, che al ritmo di una musica potente e trionfale, e ai suoni delle parole dell’uomo munito di un filo con attaccato una foglia e un pezzo di cibo (forse) si è alzato in volo spalancando le sue ali grandissimi, e piroettando sopra i nostri sguardi ammirati fino a confondere le sue piume nell’aria rosata si lanciava da un punto all’altro del cielo per poi tornare in picchiata, con elegante e nobile aviazione verso la mano di Ferdinando, quasi riuscendo ad andare al ritmo della musica che accompagnava il suo ampio volo. Sono momenti che spaccano il cuore e lo riempiono di lancinante emozione, come se anche noi potessimo elevarci e volare nel suo volo, toccare altezze irraggiungibili, vibrare dentro quel senso infinito di libertà che appartiene agli uccelli, o ai cavalli quando corrono. E  che probabilmente appartiene anche al popolo dei Lakota che ancora vive e ama quella stessa libertà, libertà che gli è stata negata, che hanno provato a vituperare, a uccidere, ma che mai, forse, sono riusciti a strappargli del tutto. 

Oh Grande Spirito, la cui voce ascolto nel vento,
il cui respiro dà vita a tutte le cose.
Ascoltami; io ho bisogno della tua forza e della tua saggezza,
lasciami camminare nella bellezza,
e fa che i miei occhi sempre guardino il rosso e purpureo tramonto.
Fa' che le mie mani rispettino la natura in ogni sua forma

e che le mie orecchie rapidamente ascoltino la tua voce.
Fa' che sia saggio e che possa capire le cose che hai pensato per il mio popolo.
Aiutami a rimanere calmo e forte di fronte a tutti quelli che verranno contro di me.
Lasciami imparare le lezioni che hai nascosto in ogni foglia ed in ogni roccia.
Aiutami a trovare azioni e pensieri puri per poter aiutare gli altri.
Aiutami a trovare la compassione senza la opprimente contemplazione di me stesso.
Io cerco la forza, non per essere più grande del mio fratello,
ma per combattere il mio più grande nemico: Me stesso.

Fammi sempre essere pronto a venire da te con mani pulite e sguardo alto.
Così quando la vita appassisce, come appassisce il tramonto,
il mio spirito possa venire a te senza vergogna.

(Tatanga Mani – Bisonte che cammina – “Preghiera per il Grande Spirito”)

Immagine tratta liberamente da www.beartoothgalleryfineart.com

Ultima modifica il Martedì, 14 Ottobre 2014 23:49
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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