La seconda parte dell’Orestea messa in scena da Luca De Fusco e rappresentata al teatro della Pergola dal 2 al 7 febbraio, diviene un vero e proprio Kolossal. Se nell’ Agamennone l’atmosfera risultava di un’arcana freddezza, di gelido e composto mistero e piuttosto statica imperiosità (ad eccezione delle danze che inframmezzavano i dialoghi), questo secondo episodio che condensa la seconda e la terza parte della trilogia eschilea (rispettivamente Le coefore e le Eumenidi) diviene un tripudio di effetti speciali e musiche potenti, luci psichedeliche, colori che si alternano tra il bianco e l’azzurro spettrali e il rosso violento, quasi a riprodurre una sorta di inferno dantesco di ultima generazione; le danze orientaleggianti (realizzate dalla coreografa Noa Wertheim) e i movimenti delle bravissime ballerine e dei personaggi in scena, soprattutto quelli delle mostruose e stregonesche Erinni, sembrano danze macabre uscite da un film dell’orrore; a terra la tomba di Agamennone diviene una specie di specchio e sullo sfondo un pannello proietta occhi azzurri della Pizia, varchi da cui fugge Oreste che forse metaforicamente riproducono anche i labirinti della sua mente, statue, porte, e, durante il processo finale i personaggi stessi impegnati nell’accusa (le Erinni), nella difesa (Oreste e Apollo) e Atena, dea della giustizia. Quest’ultima, con un costume che sembra quasi robotico pare uscita da Metropolis di Fritz Lang o da Star Wars. Molte sono infatti le suggestioni cinematografiche che possono venire in mente: dalle inquietanti e oniriche atmosfere Linchiane – soprattutto, di nuovo, le danze demoniache delle nere erinni che ingabbiano o inseguono il povero Oresteo sconvolgendo la sua mente per cercare di farlo impazzire – al musical The Rocky Horror Picture show passando per qualche macabro film di Tim Burton.
L’adattamento scenografico, che porta la firma di Mario Balò, di forte impatto, risulta alle volte sensuale, sospeso in una dimensione magica, fuori dal tempo mortale, mentre altre volte, grazie alla musica e al movimento incalzanti e agli effetti speciali, diviene angosciante e misterioso, tanto che a tratti sembra trasportarci in una dimensione demoniaca e da incubo. La recitazione degli attori però, molto classica ed energica ridona alla vicenda il suo spirito tragico e la sua algida intensità. Gaia Aprea si conferma attrice a tutto tondo, transitando dalla magnifica Cassandra dell’Agamennone ad un’Atena imponente e ferrea, divinamente altera e impassibilmente giusta; Elisabetta Pozzi dona alla sua feroce Clitennestra la forza quasi arrogante di una donna che non ha alcuna vergogna di confessare i suoi delitti e i propri sentimenti di odio, ma capace di simulare un falso affetto nei confronti del figlio per persuaderlo a non ucciderla. Sorprendente poi il cambio del tono di voce dell’attrice nel momento in cui Clitennestra è un’ombra scivolata nel regno dei morti e invoca le Erinni, sue “cagne maledette”, spingendole a perseguitare il suo assassino con una voce cantilenante e acuta che sembra veramente provenire da un altro mondo; Giacinto Palmarini è un Oreste credibile, che sa passare dall’odio più violento nei confronti di chi gli ha ucciso l’amato padre (Egisto e la madre Clitennestra) e alla sete di vendetta, alle titubanze e ai sensi di colpa per il sangue della madre versato, fino all’angoscia e la fatica della fuga e la paura delle erinni persecutrici; Angela Pagano come capa di queste creature demoniache e animalesche assume le fattezze e la voce rauca propria delle streghe.
Certo, se nell’Agamennone l’intensità tragica era più raccolta, intima e quindi forse più “avvolgente”, qui l’impatto scenico risulta predominante rispetto al sentimento tragico e lo spettatore resta più rapito da musiche, danze, canti ed effetti hi-tech, sicuramente molto suggestivi, ma che rischiano di mettere in sordina la potenza della vicenda tragica e la riflessione che da essa – soprattutto dal suo esito – dovrebbe seguire.
Veniamo alla trama. L’Agamennone si concludeva con la morte del re acheo per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto. Qui troviamo Elettra (figlia di Agamennone e Clitennestra) che piange sulla tomba del padre. Con lei, le Coefore, rendono onori funebri intorno alla tomba del re ucciso. Allo scorgere di una ciocca di riccioli (che Oreste aveva posto poco prima sulla tomba del apdre) Elettra spera che il fratello, lontano da anni, sia finalmente tornato. E infatti costui arriva e promette di vendicare la violenta uccisione del padre, come l’oracolo di Apollo, suo “protettore” gli aveva fatto vedere. “Da sangue e sangue sorbiti dalla terra madre assassina cruenta, indurita, che urla vendetta. Lancinante Perdizione condanna chi ha colpa a un eterno gemmare di pene: risarcimento totale […]Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpì!” questo e altri simili, sono i moniti con cui Elettra e le Coefore incitano l’uomo a compiere giustizia. Il destino, ancora una volta voluto da una divinità, si compierà e Oreste si reca al palazzo dove ora regnano Egisto e Clitennestra e, fingendosi uno straniero che porta notizia della morte di Oreste riesce a farsi ospitare nella reggia, dove, di lì a poco compirà la sua sanguinosa vendetta. Il suo gesto non rimane però impunito e le “cagne” della madre che perseguitano coloro che si macchiano di delitti di sangue cominciano a perseguitare l’uomo, in preda a visioni demoniache ispiratigli da queste nere creature della notte che accerchiano la sua mente e lo inseguono forsennatamente, senza tregua né riposo. Alla fine il fuggitivo, sotto consiglio di Apollo troverà riparo presso la statua della Dea Atena. Sarà lei a dare una svolta a una vicenda in cui il sangue che chiama altro sangue non fa che dar vita a un circolo infinito di altre morti e altre vendette. Atena fonda allora il Tribunale della Giustizia, l’Areopago che da quel momento in poi si occuperà di tutti i delitti più terribili, impedendo una scia di sangue e cieca vendetta ma giudicando, grazie a una commissione composta dai cittadini migliori la colpa o l’assoluzione dell’imputato. E solennemente dichiara, che, in caso il verdetto risulti alla pari, lei darà il suo voto per la non colpevolezza di Oreste. Il processo appare sorprendentemente moderno (si pensi che la tragedia risale al 458 a.C.). Accusa e difesa si incalzano in un diverbio portando ognuno le proprie valide ragioni, così da rendere labile il discrimine tra colpevolezza e innocenza. Le erinni accusano Oreste del delitto più terribile, in quanto ha ucciso sua madre, colei che ha il suo stesso sangue, il sangue più suo scorre nelle vene del figlio. Apollo ribatte con un argomento piuttosto misogino, sostenendo che l’uccisione del padre è molto più grave di quella della madre, perché, mentre l’uomo è sempre necessario per la nascita di un figlio, molti esempi mostrano come invece non sia necessario essere partoriti dal ventre materno, primo fra tutti la nascita della stessa Atena, venuta fuori dalla mente di Zeus, senza bisogno della gestazione nel ventre di una donna. Apollo e Atena rappresentano una società profondamente patriarcale, ma ciò non toglie l’acutezza di Eschilo nel tratteggiare con attenzione le sfumature dell’universo femminile, dando spessore e sentimento alle sue eroine (sia nel bene che nel male) e rendendole personaggi a tutti gli effetti, e non semplici spalle degli uomini senza personalità né emozioni. Clitennestra spicca in tutta la sua spavalda crudeltà e spregiudicatezza e Cassandra, nell’episodio precedente, emerge per dignità, orgogliosa forza e fiera seppur dolorosa consapevolezza del proprio destino di morte. Il processo, guidato dalla rettitudine di Atena si conclude con la parità, ma il voto determinante della dea regala l’assoluzione al matricida. Ma il vero colpo di scena finale è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi da parte di Atena che con un seducente discorso (aiutata, dichiara, indirettamente da Peiso, dea della persuasione), convince le Erinni a restare nel suo tempio come dee benevole (Eumenidi per l’appunto) ed eternamente venerabili dai cittadini ateniesi.
Con il capitolo conclusivo Eschilo ha voluto dare solennità e spirito immemore e immortale (è la dea della Giustizia a fondarlo) all’istituzione giuridica della propria città e a sancire finalmente il passaggio da un’età arcaica dominata da Ate, che ottenebra la mene degli uomini spingendoli alla vendetta, alla società democratica delle Poleis, in cui non vige più la legge dell’occhio per occhio-dente per dente, del sangue che chiama incessantemente altro sangue, ma quella sancita dai tribunali e da processi equi, dalla partecipazione politica dei cittadini chiamati ad esprimersi col proprio voto (segreto o per alzata di mano). Una società più matura in cui è la giustizia e non la sete di vendetta a stabilire chi è colpevole e chi è innocente. Un’Atene democratica in cui ciascun individuo non è più mera marionetta spinta dalle saette della volontà divina, ma diviene vero e proprio cittadino, chiamato a rispondere, a decidere, ad essere responsabile, per sé e per gli altri, frenando i propri odi e le proprie rivalse, i propri impeti violenti, sotto lo sguardo sempre vigile dell’Areopago, il tribunale dei delitti di sangue. Anche gli dei, pur mantenendo il loro ruolo di tessitori di destini, si fanno da parte e lasciano che la giustizia mortale divenga esclusiva prerogativa degli uomini e delle loro istituzioni cittadine; Atena, col suo gesto fondativo (e simbolico, per dare maggior importanza e solennità all’istituto di un’Atene ormai democratica) sancisce la fine di un’ età della colpa e dà inizio a un’età in cui ogni uomo diviene responsabile delle proprie azioni e il cui operato verrà giudicato attraverso la legalità degli assetti giuridici e la partecipazione democratica, per quanto ancora molto elitaria.