Un Agamennone spettacolare quello che è stato portato in scena alla Pergola dal 26 al 31 gennaio, per la regia di Luca De Fusco e con le interpretazioni di Elisabetta Pozzi, Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Claudio di Palma e Paolo Serra.
L’Agamennone è la prima parte dell’Orestea, la trilogia eschilea composta, oltre che dal suddetto Agamennone, dalle Coefore e le Eumenidi. L’Orestea è per altro l’unica trilogia arrivata a noi per intero e la rappresentazione messa in atto da De Fusco ne ha mantenuto la potenza e l’intensità.
La trama è ben nota. Dopo i 10 anni di guerra tra achei al seguito di Agamennone e troiani che si conclude con la distruzione di Troia (grazie allo stratagemma del cavallo, di cui la sacerdotessa di Apollo Cassandra, figlia di Primo ed Ecuba, aveva previsto il nefasto tranello senza però venir creduta dai suoi concittadini), il re di Micene fa ritorno ad Argo, con Cassandra, caduta nelle sue mani come bottino di guerra, dove ad aspettarlo c’è la feroce moglie Clitennestra. È lei la vera protagonista della tragedia. Un personaggio sicuramente monolitico, spietato, spregiudicato, ma con una forza che poche altre figure femminili avevano ricevuto prima. Una forza e una schiettezza paragonabili a quelle di un uomo, come dicono più volte i cittadini di Argo: “questa donna parla come un uomo”. La regina, che, verso l’inizio della tragedia, nell’apprendere la notizia (tramite un messaggio di fuoco partito dal monte Ida) della presa di Troia e del ritorno del marito, si dice pronta ad accoglierlo con tutti gli onori e ad ammettere la sua completa fedeltà, sarà poi la stessa che verso il finale, non appena compiuta la carneficina, non smentirà del tutto le parole pronunciate all’inizio, ma dirà che quelle parole erano state espresse sul momento aggiungendo: “adesso non ho alcuno scrupolo ad affermare il contrario”. Agamennone dunque torna a casa con la schiava Cassandra di fronte a una moglie imponente che lo incita a camminare su un tessuto di porpora per entrare nel palazzo. Cassandra che rimane fuori, emettendo gemiti da rondine, diviene figura chiave, perché grazie al suo dono profetico concessole dal dio Apollo (lo stesso dio che poi la punirà facendo sì che le sue profezie non vengano più credute da nessuno) riesce a vedere i fatti di sangue che hanno macchiato nel passato la casa degli atridi. Un delitto mostruoso ha inaugurato quella stirpe maledetta: Atreo, padre di Agamennone e Tieste, padre di dieci figli, tra cui Egisto, si contendono il trono di Micene. Atreo la spunta e Tieste viene bandito. Quando Atreo viene a sapere dell’adulterio consumato prima dalla moglie Erope con Tieste di cui la donna era segretamente innamorata, fa richiamare il fratello fingendo una riconciliazione, ma gli preparerà un banchetto maledetto: cucinerà i tre figli che Tieste aveva avuto da una ninfa e costui, ignaro li mangerà boccone dopo boccone. Quando Tieste scoprirà di essersi cibato della carne dei propri figli maledirà tutta la stirpe degli atridi inaugurando una scia di delitti tra consanguinei. Cassandra vede anche un'altra morte colpevole, quella di Ifigenia la giovane figlia di Agamennone, sacrificata sull’altare come un agnello innocente proprio dal padre per ottenere la vittoria in guerra. È questo, in fondo, il fatto di sangue che Clitennestra non può perdonare al marito e che significherà la sua condanna a morte. Cassandra prevede così l’uccisione del re da parte della regina del palazzo; non solo del re: quella che vede durante gli spasmi e le convulsioni provocate dal “dono” profetico sarà anche la sua di morte, accanto a colui che l’ha resa schiava e che l’ha portata nella casa di Clitennestra che non le perdonerà il fatto di esser diventata la sua concubina e amante. Cassandra sa anche però che il sangue versato sul re Agamennone e su lei stessa non sarà lavato. Vendetta chiede vendetta e sarà Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, a vendicare il padre uccidendo a sua volta la madre.
Clitennestra, con la complicità del suo amante Egisto – desideroso di potersi finalmente vendicare del padre Tieste e punire il figlio di Atreo – uccide a colpi di spada Agamennone e Cassandra e rivendicherà senza rimpianto il suo delitto. In questo emerge l’immensità di questa figura femminile che con un orgoglio quasi arrogante si staglia davanti alle sue vittime sfoderando la spada portatrice di morte, e circondata da una luce fredda e crudele che la esalta in tutta la sua algida imponenza, la sua sconcertante lucida freddezza si arrogherà piena responsabilità del proprio gesto e rimarrà imperturbabile di fronte alle maledizioni degli argivi. Donna anticonformista in qualche modo, spietata, sì, ma in qualche modo non del tutto ingiustificabile se si riflette sulla perdita dolorosa di una figlia innocente inflittale dal marito. E soprattutto non del tutto colpevole perché ancora in Eschilo i personaggi non hanno la psicologia e il carattere più complesso dei futuri personaggi tragici di Sofocle e soprattutto di Euripide. Qui ancora sembrano pedine nelle mani di un disegno divino che li trascende del tutto, sono vittime di un destino contro cui non possono lottare né di cui possono cambiare le regole. “L’artiglio di un demone mi ha toccato il cuore” dice più o meno Clitennestra dopo la strage compiuta. La forza di queste figure però, della sua così come di quella di Cassandra che pur conoscendo ciò che le accadrà va incontro alla propria morte, consapevole che il destino previsto dagli dei non può essere cambiato e che inutile sarebbe fuggire tentando invano di evitarlo, sta proprio nel mantenere, pur in un disegno che sembra prestabilito, una sorta di libero arbitrio che li rende padroni di quel destino cui comunque in ogni caso, non possono sottrarsi. È un disegno sì costruito dagli dei ma sono gli uomini a realizzarlo, loro malgrado, e a rendersi protagonisti di quel che è stato previsto per loro e a rivendicare le proprie azioni. Non risultano così solo mere pedine in mano a qualcosa più grande di loro, ma giocatori di un gioco le cui regole comunque sono state già predisposte e i mortali non possono che seguire, più o meno inconsapevolmente, queste regole, ma sono anche essi stessi a deciderle. È una sorta di libera predeterminazione. La libertà consiste nel scegliere quello che sarà il proprio destino, già comunque stabilito dagli dei. Clitennestra sceglie di uccidere Agamennone, anche se la sua è una scelta voluta dagli dei, ma questo non toglie la responsabilità umana del suo gesto. E in questo caso la colpa della regina è colpa a tutti gli effetti, è aitia e non amartia che letteralmente significa mancare il bersaglio e che è la colpa di chi non ha colpe, la colpa dell’ignoranza, come quella di Edipo che inconsapevolmente ucciderà il proprio padre (perché non sa che si tratta del padre) e si macchierà di incesto, perché non sa che colei con cui dividerà il letto è la propria madre, Giocasta. La colpa di Clitennestra è invece una colpa di cui lei decide di macchiarsi, lei compie consapevolmente il suo gesto di sangue e lo rivendica quasi vantandosene. Lei sceglie il suo destino, Edipo invece vi si imbatte incoscientemente, come un cieco che cammina a tentoni nel buio e che come per un contrappasso dantesco, proprio per non aver saputo vedere i delitti di cui inconsapevolmente si macchiava, si auto provocherà la cecità.
L’Agamennone si conclude con l’uccisione del re e di Cassandra e la rivendicazione del gesto da parte dei due assassini e amanti, Clitennestra ed Egisto, mentre la vendetta di Oreste, il suo inseguimento da parte delle Erinni e infine la loro trasformazione in Eumenidi – dee della giustizia – durante il processo finale che vedrà Oreste giudicato nell’Areopago si consumeranno nelle altre parti della trilogia. Proprio le Eumenidi, fase conclusiva dell’Orestea segnano simbolicamente il passaggio da una sorta di legge del taglione, fondata sulla vendetta (occhio per occhio dente per dente) alla giustizia democratica del nuovo assetto delle polis e l’esaltazione dell’Atene democratica, in cui il colpevole non deve più essere vendicato ma sottoposto a giusto processo nella sede del tribunale dei delitti di sangue (l’Areopago appunto) e giudicato attraverso una votazione democratica, sotto l’egida della dea della giustizia Atena, che poi sancirà anche il verdetto finale.
La messa in scena de L’Agamennone di De Fusco è carica di atmosfera suggestiva e inquietante. Effetti speciali e intermezzi con danze di sinuose ballerine e musica potente, rendono pienamente la tensione e l’intensità tragica della storia e dei personaggi, creando un sentimento di angoscia e turbamento nell’animo degli spettatori, e riuscendo a rendere piuttosto labile il confine tra vittime e carnefici così come a prendere atto che tutti o nessuno siano in fondo dei colpevoli. Certo, la figura indomita e feroce di Clitennestra lascia poco spazio a un’immedesimazione empatica, ma in fondo perfino per lei si può provare pietà e ammirazione, per la sua forza di donna che vuole essere considerata pari ad un uomo, per il suo non nascondersi dietro quel gesto sanguinoso che decreterà la sua condanna a morte; per il non piegarsi di fronte a niente e nessuno, risultando figura di spessore e protagonista di una tragedia che pur non porta il suo nome. L’interpretazione di Elisabetta Pozzi è intensa ma rischia di essere scavalcata da un’altra figura femminile che dal momento in cui apre bocca ruba la scena a tutti: La Cassandra di Gaia Aprea è sublime, nel senso filosofico del termine. Passa dalla purezza e innocenza di giovane fanciulla sventurata, vittima di “dono”più grande di lei, alla versione quasi stregonesca e macabra di una Cassandra che con voce gracchiante, rauca e cavernosa (totalmente contrapposta alla voce limpida e cristallina nei momenti di lucidità) viene posseduta dalla profezia che le procura spasimi e convulsioni; per poi tornare invece infine a cantare con voce di usignolo mentre si incammina incontro al suo destino di morte. La sacerdotessa di Apollo è l’unica figura che esce completamente immacolata, è la vera vittima di una storia di cui sa non essere i mortali a tesserne i fili e con fierezza e orgoglioso coraggio non si piega ma si erge a testa alta di fronte alla sorte che le hanno decretato gli dei.
La scenografia abbastanza sobria, ma in qualche modo magica, grazie ad alcuni colpi di scena, e le luci cupe, a parte quelle che circondano, come un’aureola di luce nefasta anziché angelica, la figura di Clitennestra, diventano lo spazio perfetto per un crescendo di tensione drammatica e lo sfondo tetro che fin dai primi dialoghi presagisce il determinarsi di lugubri eventi, di cui i primi personaggi in scena si faranno testimoni impotenti.