Giovedì, 18 Maggio 2017 07:00

Buona la prima (assoluta) di Maria Stuarda al Carlo Felice

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Amore, potere e un trascinante sentimento religioso: sono queste le chiavi della Maria Stuarda, andata in scena ieri sera (repliche fino al 24 maggio) per la prima assoluta a Genova.

Opera poco fortunata all'epoca della scrittura (prodotto, su soggetto di Schiller, del debuttante calabrese Giuseppe Bardari al suo primo ed unico libretto) esprime bene il complesso lavoro di tessitura che Donizetti ha costruito intorno alle figure regali: forti, spietate a volte, eppure fragili.

Lasciando di lato la realtà storica - del tutto diversa e che vagamente ognuno ricorda dalle scuole superiori - ed immergendoci nella finzione operistica siamo immediatamente catapultati in un complesso universo di sentimenti coesistenti.

Elisabetta (Silvia Tro Santafé, Mezzosoprano, mentre Elena Belfiore sarà nelle repliche) annuncia, dubbiosa, le proprie nozze col re di Francia ma un pensiero subito distoglie la regina: la sorte di Maria Stuarda.

Talbot (Andrea Concetti, Basso) vorrebbe da Elisabetta la libertà per la scozzese mentre il Gran Tesoriere Lord Cecil (Stefano Antonucci, Baritono) esorta la sovrana alla vendetta: “dona alla scure quel capo che desta fatali timori, discordia funesta, finanche fra ceppi, col foco d'amor”.

Maria ha però un altro alleato e tramite Talbot (“Questa imago, questo foglio or per me Maria t'invia”) scrive al fido conte di Leicester (Celso Albelo, Tenore) del quale è innamorata. Qui Leicester si perde nel ricordo: “Ah! Rimiro il bel sembiante, adorato, vagheggiato... ei mi appare sfavillante come il dì che mi piagò” (ottimo Albelo in quest'aria e ben coordinati scenicamente i due protagonisti).

Elisabetta, sospettosa, sa del colloquio tra i due nobili e Leicester, infine, confessa: Maria ha chiesto a lui di intercedere per un incontro con la sovrana. Elisabetta è furente (“Crede l'altera di sedurmi così: ma invan lo spera”) ma letto il biglietto sembra provare una compassione (“Ch'io discenda alla prigione!”) che è subito soffocata dalla gelosia: tutti sanno a corte che Maria è nel cuore di Roberto e ciò fa montare la rabbia della regina (“Egli l'ama... oh mio furore!”) anch'essa innamorata (o forse soltanto sopraffatta dall'invidia) del conte.

Leicester ottiene l'incontro tra la perfida Elisabetta e la “Bella ne' dì del giubilo, bella nel suo martir” ma la regina ha ora un motivo in più per compiere la sua vendetta. La scena si sposta quindi nel castello di Forteringa, qui sta l'infelice prigioniera (Elena Mosuc, Soprano mentre Desirée Rancatore, debuttante nel ruolo, sarà nelle repliche: a conferma di un cast di primo piano per tutte le rappresentazioni) che in compagnia della nutrice Anna (Alessandra Palomba, Mezzosoprano) ricorda il suol natio (bella e profonda anche la gestualità delle due attrici in questa scena, una delle poche che consentono un certo movimento in un'opera molto statica).

Irrompono lontani suoni di caccia: Roberto Leicester raggiunge l'amata e le comunica la visita di Elisabetta. L'incontro è teso, Maria deposta l'altezzosità (“Non io, non io son rea, regina io sono ancor”) invoca perdono (“Morta al mondo, morta al trono!”, grandi applausi qui per la Mosuc che calza perfettamente il fodero di note cucito da Donizetti) ma qui il compatimento di Leicester per la traditrice (“Chiama in sen la tua costanza: qualche speme ancor ti avanza. Non ti costi onore e vita una grazia a te impartita, un favor che al nostro affetto tante volte il ciel negò”) è controproducente. In Elisabetta la rabbia esplode: “sul capo di Stuarda onta eterna ripiombò”. Maria riacquista l'antico tono ed insulta la regina (“Di Bolena oscura figlia...”).

Nella scena di maggior tensione di tutta l'opera si compie il destino della cattolica: per lei è pronta la scure. Maria appare serena e non si cura del dolore che ha dato al conte (“Ti ho perduta, o sconsigliata...”) né della delusione dei propri partigiani Anna e Talbot (“Ti ha perduta un sol momento che di sdegno il cor tentò”) perché: “Di trionfo un sol momento ogni affanno compensò”.

Il Secondo Atto si apre col guardiano della vendetta Cecil che invita ad eseguire presto la condanna (“Segna il foglio, che i regnanti tel sapranno perdonar”. Sicuro qui Antonucci nei versi non accompagnati dalla musica in un'opera che rispetto a molte altre è estremamente più recitata).

A nulla vale la preghiera del conte: per la rea “È morta ogni pietà”. Per Maria nella sua prigione è più lo sdegno per il trattamento (“E non son io la figlia di Tudorri?”) che la paura per la morte che Cecil le annuncia portandole la sentenza.

È la visita di Talbot che tramuta l'altera regina e sofferente innnamorata (“Quando di luce rosea il giorno a me splendea, quando fra liete immagini quest'anima godea, amor mi fe' colpevole, mi aprì l'abisso amor”) in una martire della fede, serena nell'affrontare l'estrema separazione dalla vita e da Leicester (“il Cielo sol può render la pace al mesto cor”).

La storia è giunta al termine. I parenti della misera formano quasi un lugubre muro, sembrano essi stessi dei morti (applausi quanto mai meritati qui per il coro diretto da Sebastiani).

Maria è ormai trasfigurata in santa (“Vita miglior, sì, godrò. Contenta io volo all'amplesso di Dio...”) chiede soltanto che Anna l'accompagni al patibolo ed ormai distante dalle passioni terrene, superiore ed ultramondana, si avvia alla morte “innocente, infamata”.

Passando dal libretto alla rappresentazione certamente non si può dire che la regia firmata da Alfonso Antoniozzi sia passata inosservata. Il finto trucco, con tanto di specchio, a sipario aperto ed un sipario trasparente che lascia vedere gli attrezzisti nei cambi di scena lasciano un po' dubbiosi. Una sottolineatura della finzione che toglie magia e spezza l'immersione nella musica (ma fermo rimane il diritto alla sperimentazione e dunque coraggiosa è la scelta della produzione a concederlo).

Quasi perfetta invece la direzione dell'ucraino Andriy Yurkevych, sempre in grado di valorizzare le voci lasciando ad esse il centro della scena. Buona la prova per Talbot e Cecil, in particolare per il primo, e ben gestita nel corso di tutta la rappresentazione è apparsa la voce di Albelo.

Ottime, come si è detto, le protagoniste femminili. La Mosuc in particolare ci ha regalato, con generosità, una voce fresca e chiara rendendo bene anche nel movimento scenico: tutti meritati gli applusi che il pubblico le ha riservato.

Un po' più di sfarzo, trattandosi della corte inglese, si poteva osare nelle scene (firmate da Monica Manganelli) mentre splendidamente opulenti (e risaltanti, per l'appunto, nel confronto con le scene) i costumi curati da Gianluca Falaschi (tre cambi d'abito per la sola Elisabetta).

Nel complesso dunque una gran bella prima per un'opera certamente non tra le più note ma, forse proprio per questo, da vedere assolutamente.

Nella foto Elisabetta (Silvia Tro Santafé) e Maria (Elena Moscu) - Foto Marcello Orselli, Teatro Carlo Felice

Ultima modifica il Giovedì, 18 Maggio 2017 22:37
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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