Sabato, 17 Giugno 2017 07:00

Un'ottima Turandot illumina l'estate del Carlo Felice

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Puccini e Montaldo, chiude con questi due nomi, garanzia di qualità, la stagione lirica del Carlo Felice. La Turandot (in replica fino al 21) - già rappresentata numerose volte a Genova e numerose volte con la regia del maestro genovese - è un capolavoro completissimo a dispetto dei tanti sofismi su una sua incompiutezza che pur materialmente verificatasi (a causa del cancro alla gola che divorò Puccini prima della stesura definitiva realizzata dall'allievo Franco Alfano) non ha inciso in maniera tale da stravolgerne l'essenza della storia (discutere poi sulla qualità dello svolgimento del libretto è altro affare).
Traspare comunque tutto l'impegno di Puccini nella ricerca dell'oriente misterioso e violento e la sofferta sperimentazione di un suono che restituisca relamente un pezzo della Cina antica (persino un carillon fornì l'ispirazione al maestro toscano) rispolverata però con qualcosa che è già novecento: è già cinema, movimento, trionfo di fiati, potenti insiemi.


Complessa non fu soltanto la scrittura musicale (1920-1924 con il maestro già malato e che portò con sé gli appunti fin nella clinica belga nella quale pioneristicamente trattavano il suo male con il radio) ma anche l'ispirazione del libretto. Dalla fiaba settecentesca del veneziano Gozzi, nella rielaborazione di Schiller, Renato Simoni e Giuseppe Adami hanno costruito una fiaba sì: ma una fiaba che ha confinato il grottesco unicamente nei tre ministri dai buffi nomi e sposato la sognante atmosfera orientale con la crudeltà ed il macabro appartenenti a ben altri generi.

Nella Pekino “al tempo delle favole” un mandarino legge un tremendo editto: “Turandot la Pura sposa sarà di chi, di sangue regio, spieghi i tre enigmi ch'ella proporrà. Ma chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa!”.
Il principe di Persia è l'ultimo degli sconfitti di questo macabro gioco e la folla, eccitata, accorre per vederne l'esecuzione travolgendo Timur (Mihailo Šljivić, Basso). Il vecchio re dei tartari ha perso il trono, la vista ed ogni bene lottando contro i cinesi ed a sorreggerlo non le è rimasta che la fedele schiava Liù (Serena Gamberoni, Soprano) e il figlio Calaf (Rudy Park, Tenore), ritrovato fra la folla, che invita i due a non pronunciare il suo nome: “Chi usurpò la tua corona me cerca e te persegue. Non c'è asilo per noi, padre, nel mondo”.
La massa dei sudditi (ottimo qui ma come in tutta la rappresentazione il coro diretto da Franco Sebastiani) attende che sorga la luna (“Perché tarda la luna? Faccia pallida! Mostrati in cielo! Presto, vieni!”) così da poter finalmente godere lo spettacolo dell'ennesima esecuzione.
Alla vista del giovane principe tra la gente vi è un sussulto di umanità (“O giovinetto! Grazia, grazia! Com'è fermo il suo passo! Grazia! Com'è dolce, com'è dolce il suo volto! Ha negli occhi l'ebbrezza! Pietà!...”) ma la figlia del cielo, silente e magnifica, non ha ripensamenti. Alla sua vista il giovane Calaf è preso anch'egli da ebbrezza d'amore: vuole suonare il gong che lo condurrà a risolvere gli enigmi o alla morte e a nulla valgono le esortazioni del padre (“Ti perdi!”) e della bella Liù (“Signore! Andiam lontano”) che ha diviso con Timur gli stenti della povertà perché innamorata del giovane principe.
Tre ministri si frappongono fra lui e il gong: Ping (Vincenzo Taormina, Baritono), Pang (un ottimo Blagoj Nakoski, Tenore) e Pong (Marcello Nardis, Tenore).
I tre, stanchi di tanto sangue invitano il giovane a non rischiare la vita nel crudele gioco (“Fermo! Che fai? T'arresta! Chi sei, che fai, che vuoi? Va' via! Va', la porta è questa della gran beccheria!” [...] “Qui tutti i cimiteri sono occupati! - Qui bastano i pazzi indigeni”).
Turandot in fondo è una donna come le altre dice Ping: “Lascia le donne! O prendi cento spose, ché, in fondo, la più sublime Turandot del mondo ha una faccia, due braccia, e due gambe, sì, belle, imperiali, sì, belle, sì, ma sempre quelle! Con cento mogli, o sciocco, avrai gambe a ribocco! Duecento braccia, e cento dolci petti”. Nemmeno la vista della testa mozza del principe di Persia, nemmeno l'estrema preghiera di Timur (“vuoi dunque ch'io solo trascini pel mondo la mia torturata vecchiezza? Aiuto! Non c'è voce umana che muova il tuo cuore feroce?”) e della schiava Liù (“Liù non regge più!”) ferma Calaf dal suo intento.
Confortata la donna (“Non piangere Liù...”), scansati nuovamente i tre ministri, irrefrenabile il principe batte tre volte sul gong.

Il Secondo atto si apre con il trio di dignitari che affranti per le continue esecuzioni (“Tutto andava secondo l'antichissima regola del mondo. Poi nacque... Turandot”) sono oramai diventati “Ministri del boia”. Stanchi della corte i tre vorrebbero tornare nelle case di campagna che hanno fatto costruire nell'Honan, nello Tsiang e nel Kiù (“E potrei tornar laggiù...”) e ricordano i tanti pretendenti mandati sotto la scure. Il secondo quadro vede finalmente il principe ignoto ai piedi dell'Imperatore (Max René Cosotti, Tenore) che invita il pretendente a desistere (“Un giuramento atroce mi costringe a tener fede al fosco patto. E il santo scettro ch'io stringo, gronda di sangue! Basta sangue! Giovine, va'!”) ma Calaf è irremovibile e per tre volte implora con fermezza l'Imperatore: “Figlio del cielo! Io chiedo di affrontar la prova!”.
Tutto è pronto per il gioco estremo e la crudele Turandot (Norma Fantini, Soprano) spiega dunque il perché di tanto orrore: “In questa Reggia, or son mill'anni e mille, un grido disperato risonò. E quel grido, traverso stirpe e stirpe, qui nell'anima mia si rifugiò! Principessa Lo-u-Ling, ava dolce e serena che regnavi nel tuo cupo silenzio in gioia pura, e sfidasti inflessibile e sicura l'aspro dominio, oggi rivivi in me!” […] Pure nel tempo che ciascun ricorda, fu sgomento e terrore e rombo d'armi. Il regno vinto! E Lo-u-Ling, la mia ava, trascinata da un uomo come te, straniero, là nella notte atroce, dove si spense la sua fresca voce!”.
E' dunque questa antica storia che ha impresso nella principessa il terrore per gli uomini costringendola a tanta crudeltà pur di conservare la propria purezza. Calaf risolve i tre enigmi (“La speranza” - “Il sangue” - “Turandot”) e a nulla vale la preghiera della giovane al padre affinché non sia data in sposa (“è sacro il giuramento”).
Turandot potrà essere sua però soltanto “a forza, riluttante, fremente”. Qui Calaf inverte il gioco: la principessa sarà libera dal patto se entro l'alba scoprirà il suo nome (“Dimmi il mio nome, prima dell'alba! E all'alba morirò!”).

Il Terzo atto inizia con gli araldi che ammoniscono: “questa notte nessun dorma a Pekino”. Il mistero va risolto e Turandot dispiega tutti i mezzi per conservare l'illibatezza e far saltare l'ennesima testa.
Il principe è sicuro di sé (“Il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà!”) e fremente attende l'alba: “Dilegua o notte! Tramontate stelle! All'alba vincerò!” (poco convincente qui Park in una delle romanze più note di tutta la lirica).
Invano i tre ministri tentano di corrompere lo straniero offrendogli donne, ori e la possibilità di fuga: “Inutili preghiere! Inutili minacce! Crollasse il mondo, voglio Turandot!”.
I crudeli sgherri di corte hanno in serbo un'ultima arma: il vecchio Timur e la schiava Liù catturati presso le mura sanno il suo nome. Turandot appare e Ping invita alla tortura che schiuda le bocche ai silenti e salvi così la gelida dalle nozze.
Torturata, la splendida Liù, coleì che mendicò per un sorriso del suo principe, temendo di non poter più resistere si libera dagli sgherri e decisa si pugnala serbando quel nome tanto cercato. A darle tanta forza è l'amore ma prima di compiere il gesto fatale ammonisce la principessa: “Sì, principessa, ascoltami! Tu che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta, l'amerai anche tu!... Prima di questa aurora io chiudo stanchi gli occhi, perché Egli vinca ancora... Per non vederlo più!”.
Tutta la corte, persino gli avvezzi al sangue Ping, Pong e Pang sono colpiti da tanto dolore e da tanta devozione. Calaf sembra finalmente comprendere chi è in realtà questa figlia del cielo che sopra ognuno è disposta a passare perché sia fatta la sua volontà (“Principessa di morte! Principessa di gelo!”) ma la vicinanza del suo corpo lo rende dimentico persino dell'ultimo orrendo crimine verso la fedele e pura Liù.
Il principe ha vinto: arriva l'alba, arriva il sospirato bacio, arrivano i sogni di notti d'amore. Turandot confessa il tremore che il tartaro le suscitò sin dal primo momento ma lo invita un'ultima volta a partire: tenga con sé il suo mistero ma parta e non la insidi più.
Calaf oramai certo di aver sciolto la gelida le confessa il suo nome: “Il mio nome e la mia vita, insiem ti dono. Io son Calaf, figlio di Timur!”. La principessa trascina il giovane davanti al popolo ma è ormai un'altra: l'amore l'ha cambiata.
Turandot conosce il nome dell'ignoto, potrebbe consegnarlo al boia ma non vuole più perchè “Il suo nome è... Amor!”.

Venendo alla rappresentazione andata in scena ieri sera protagonista assoluta è stata sicuramente Serena Gamberoni (già un'ottima Adina ne L'elisir d'amore proprio qui a Genova) al debutto nel ruolo: una voce fresca e sicura ha conquistato il pubblico del Carlo Felice (eccezionalmente coinvolgente nella supplica a Calaf del Primo atto).
Certamente meno brillante Park. Deludente nei momenti clou mentre forzata è parsa l'enunciazione di molte parti: c'è mestiere ma è mancato il cuore.
Riuscita nel suo intento Norma Fantini che ci ha reso una Turandot sentita e umana, restituendo fragilità all'algida principessa cinese che commossa sente su di sé il torto di cui fui vittima l'ava Lo-u-Ling.
Coordinati e capaci di rendere il comico con eleganza e senza scadimenti il trio di ministri. Agile ed insieme imponente il coro diretto da Sebastiani (Gino Tanasini ha diretto invece le voci bianche): protagonista impeccabile in quel processo di immersione interiore nell'opera. Nel complesso è parsa un di più la danza del Primo atto. Come si è detto garanzia di qualità la regia, complessa in un'opera “affollata”, del maestro Montaldo. Applausi dal pubblico anche per la direzione di Giuseppe Acquaviva.
Sontuoso e ricco l'allestimento (made in Genoa e dominato da una maestosa scala che dà veramente l'idea che il sovrano cinese sia il figlio del cielo) e le scene di Luciano Ricceri ben valorizzate dalle luci di Luciano Novelli.
Curati anche i custumi (frutto del lavoro di Elisabetta Montaldo), in particolare quelli dei soldati, storicamente coerenti e nell'insieme aggraziati.
In chiusura una menzione di lode meritano le maschere, una in particolare che ha avuto il suo bel daffare nel contenere una comitiva orientale restia a spegnere i telefoni. Ancora non individuato invece il solitario cretino, sempre lo stesso son sicuro, del “bravi!” che ne ha profferto uno in una scena non ancora chiusa.

Con questa Turandot si chiudono, per questa stagione, le recensioni dal Carlo Felice. Abbiamo cercato di raccontarvi queste rappresentazioni con il rispetto dovuto a chi vi ha lavorato. Lo abbiamo fatto senza la spocchia di quei soloni che pretendono di avere il monopolio della critica e senza la pretesa di eguagliare l'eccellente lavoro di testate ben più grandi di noi che hanno potuto dedicare all'attività del teatro nel suo complesso mezzi e professionalità più elevate delle nostre.
Abbiamo seguito il calendario operistico di uno dei più importanti teatri italiani con la convinzione che l'Opera non sia soltanto una delle possibili forme d'arte ospitate dai palcoscenisci su e giù per lo stivale ma che essa sia una delle più potenti immagini dell'Italia nel mondo: un'ambasciatrisce decisamente migliore delle nostre bombe che cadono sullo Yemen.
Ogni teatro che contribuisce a mantenerla viva merita il nostro affetto più sincero per essere riuscito a portare in scena, anche quest'anno, quel miracolo di sentimenti chiamato Opera lirica.
Proprio ieri, 16 giugno, i lavoratori delle Fondazioni Liriche di tutta Italia hanno manifestato, anche a Genova, per chiedere di mettere mano alla legge 160 (un comunicato sindacale è stato letto prima della rappresentazione).
La magia del teatro è anche pane in tavola per migliaia di lavoratori del nostro Paese. Saremo dei vecchi marxisti (sul Becco lo siamo sicuramente) ma pensiamo che la strada capace di assicurare futuro e dignità alla cultura italiana si chiama reinternalizzazione, stabilità lavorativa, enti di diritto pubblico e finanziamenti (stabili, certi ed abbondanti) provenienti dalla fiscalità generale.

Nella foto Liù (Serena Gamberoni). Foto Marcello Orselli - Teatro Carlo Felice

Ultima modifica il Martedì, 20 Giugno 2017 16:07
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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