Sabato, 22 Aprile 2017 12:38

Torna (brillantemente) il Don Carlo al Carlo Felice di Genova

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“Ella giammai m'amo”, un verso semplice e potente, talmente potente che potrebbe essere recitato anche senza musica. E' nell'orrore di questa constatazione, nell'eternità di questa constatazione che ha accompagnato l'homo sapiens da quando intagliava cortecce e che sempre lo accompagnerà, che si esprime il Don Carlo. Poco importa ai fini del libretto che a pronunciarla sia un re. Egli in quel momento, nel fulmine di quella sentenza, è un uomo: solo e di fronte al proprio dramma.
Ma non c'è solo l'amore nel Don Carlo che dopo 16 anni torna ad essere rappresentato al Carlo Felice: c'è la ragion di Stato, c'è un intrigo di potere capace di colpire con furia la famiglia reale e su tutto c'è il genio di Verdi che ha reso musica i sentimenti.
La prima di ieri sera (repliche fino al 2 maggio) aperta con un ricordo del Sovrintendente Maurizio Roi della soprano Daniela Dessì, ha reso perfettamente la travagliata vicenda dell'erede al trono di Spagna che ispirò Friedrich Schiller (e da cui è preso il soggetto verdiano) per il suo “Don Karlos, Infant von Spanien”.
I fatti storici sono molto diversi dalla versione romanzata da Schiller (ma anche dell'Alfieri) - resa nella prima versione francese dai librettisti Mery e Du Locle (in cinque atti) e poi rimaneggiata in italiano da Achille de Lauzières e da Angelo Zanardini che la portarono a quattro atti nella versione del 1884 andata in scena ieri - ma poco importa ai fini del dramma umano dei protagonisti e del dramma politico vissuto dai fiamminghi in lotta per libertà.


Carlo (Aquiles Machado, Tenore), erede al trono è preso da nostalgia per i dolci momenti con l'amata Elisabetta di Valois (Svetla Vassileva, Soprano), sua ex promessa sposa (“quanto puro e bello fu il dì senza diman, in cui, ebbri di speme, c'era dato vagar, nell'ombra, soli insieme”) che stridono con la tenebrosa ambientazione: la tomba monumentale di Carlo V che ormai “non è che muta polve”.
Per sfuggire da tanta follia d'amore - un amore pieno di peccato per una donna destinata dalla ragion di Stato al padre - per fuggire da sé, non c'è che la guerra: “apprendi omai in mezzo a gente oppressa a divenir un re” gli suggerisce il fido Rodrigo (Franco Vassallo, Baritono). Per la libertà del popolo fiammingo Carlo chiede all'amata di intercedere presso il re ma la passione d'amore ancora lo divora.
Non trova però in Elisabetta “un solo accento per un meschino ch'esul se n'va!” ma è solo pudore, senso di Stato (“perché accusar il cor d'indifferenza? Capir dovreste il nobil mio silenzio. Il dover, come un raggio al guardo mio brillò. Guidata da quel raggio io moverò. La speme pongo in dio, nell'innocenza!” meravigliosa qui la Vassileva).
Intanto Filippo (Riccardo Zanellato, Basso), potente di re di Spagna, vive con il terrore del tradimento e sfoga la sua paura cacciando una povera dama che con la sua assenza ha permesso l'incontro tra Elisabetta e il figlio. Ma Filippo teme pure per i suoi domini nei Paesi Bassi di cui Rodrigo si fa paladino e portavoce: la pace che lì Filippo dice di portare è “la pace dei sepolcri”.
Il re perdona però l'ardire, confessa il suo timore (“la Regina... un sospetto mi tortura...mio figlio!”), ha bisogno di rassicurazione: “Scruta quei cor, che un folle amor trascina! Sempre lecito è a te di scontrar la regina! Tu, che sol sei un uom, in questo stuolo uman, ripongo il cor nella leal tua man”.
Un re che spera dunque la pace nel cuore come l'ultimo dei suoi sudditi, niente altro che come un uomo.
Il secondo atto si apre con l'equivoco: la Principessa Eboli (Giovanna Casolla, Mezzosoprano), velata, incontra l'Infante di Spagna il quale crede di trovarsi con la regina. Rifiutata la nobildonna innamorata anch'essa di Carlo, minaccia Rodrigo, intimo del re ma fraterno amico dell'erede al trono: “una nemica io son formidabil e possente: m'è noto il tuo poter. Il mio t'è ignoto ancor”.
Sullo sfondo di queste vicende c'è la Spagna assolutista, le torture e i condannati, che aprono la seconda parte del secondo atto (perfetto il coro, diretto da Franco Sebastiani, che nel Don Carlo ha dei momenti tutti per sé).
Carlo, sposato alla causa della libertà, conduce i deputati fiamminghi (protestanti e ribelli “a dio voi foste infidi, infidi al vostro re”) dal padre ma non c'è pietà per essi e folli appaiono al possente re le richieste del figlio (“il Brabante e la Fiandra a me tu dona”).
In un crescendo di tensione Carlo giura fedeltà al popolo oppresso e minaccia il padre con la spada senza che nessuna delle guardie osi disarmarlo (coordinati con perfezione in questa scena tutti i protagonisti): solo Rodrigo evita l'empio delitto.
Filippo è salvo e saldo ma, solo alla sua scrivania, è niente altro che un uomo triste. Alle sue spalle la mappa di un Impero su cui mai tramonta il sole ma dentro ha l'angoscia: “Ella giammai m'amò!... Quel core chiuso è a me, amor per me non ha!... Io la rivedo ancor contemplar trista in volto il mio crin bianco il dì che qui di Francia venne. No, amor non ha per me” (profondo e preciso qui Zanellato in una scena che ferma per un instante il cuore di ogni spettatore).
Al re non resta che pensare di uccidere il figlio, condannarlo a morte e sbarazzarsi così, con un solo gesto, del ribelle che insidia il regno e dell'uomo che insidia la moglie. Filippo ha dalla sua il Grande Inquisitore (Marco Spotti, Basso) che accorda l'assoluzione ed è anzi fermo come quasi ogni uomo della chiesa fanatica di quel tempo: “la pace dell'impero i dì val d'un ribelle”.
Ma il potente cardinale chiede di più al re, chiede di sbarazzarsi anche di Rodrigo, l'uomo a cui Filippo ha confidato le sue pene, che crede amico ma che è agente dell'eresia in terra di Spagna. Filippo esita, ha quasi più dispiacere nel condannare l'amico che il figlio, ma “il trono piegar dovrà sempre all'altar”.
Il re da sommesso e amareggiato si volge quindi in furente. Il ritratto del figlio è tra i gioielli della regina (lo scrigno segreto è stato portato al re da Eboli che così credere di compiere la sua vendetta). La storia si ingarbuglia ancora di più con Elisabetta che giura di non essere un'adultera mentre Eboli è in preda al rimorso per il suo gesto. Rodrigo, invece, che a Carlo ha giurato eterna amicizia sceglie di immolarsi (“Che per la Spagna un uomo mora...lieto avvenir le lascerò”) costruendo e attribuendosi le prove della ribellione.
Carlo in prigione è raggiunto da Rodrigo che gli comunica la sua prossima fine a causa del suo nobile gesto: “ascolta, il tempo stringe. Rivolta ho già su me la folgore tremenda! Più tu non sei oggi il rival del re. Il fiero agitator delle Fiandre... son io”. Per Rodrigo non c'è più scampo e lì, tra le braccia dell'amico, viene raggiunto da un colpo d'archibugio schioccato da un sicario.
Carlo è libero (ma il popolo fanatico irrompe contro di lui ed è frenato solo dall'intervento del Grande Inquisitore) e può incontrarsi con Elisabetta per dirle addio. La regina attende Carlo presso la tomba di Carlo V, protagonista anch'essa, immobile e bianca, dell'opera: “tu che le vanità conoscesti del mondo e godi nell'avel il riposo profondo, se ancor si piange in cielo, piangi sul mio dolor, e porta il pianto mio al trono del signor” (applausi meritatissimi qui per la Vassileva).
L'addio tra l'infelice regina e il salvatore dei fiamminghi è interrotto da Filippo e dal Grande Inquisitore. Spada e croce uniti nel condannare la libertà e l'amore. Ma qui il colpo di scena, la tomba si apre, Carlo V, creduto morto ma in realtà ritiratosi alla vita monacale per sfuggire al così arduo compito di dominare un Impero stravolto dai conflitti, conduce con sé il nipote: “il duolo della terra nel chiostro ancor c'insegue, solo del cor la guerra in ciel si calmerà!”.

Addentrandoci meglio sulla rappresentazione di ieri sera non si può non dare un giudizio positivo alla regia di Cesare Lievi, mai prepotente sull'aspetto musicale. Meno positiva è parsa la direzione d'orchestra (Valerio Galli) tracimante nelle scene a più voci. Storicamente appropriati i costumi (Maurizio Balò) fatta eccezione per alcuni ombrelli nel primo atto (ma è l'unica stonatura) mentre stupende sono state le luci (Andrea Borelli) che hanno creato in maniera caravaggesca quasi un quadro calato con garbo nella cornice di un allestimento (realizzato insieme dal Carlo Felice, dal Regio di Parma e dall'Auditorium Adán Martín di Tenerife), di grande impatto nella sua bianchezza. Esuberante ed insieme astraente la parete di marmo lascia lo spettatore solo, senza possibilità di distrazione, col dramma che va in scena davanti i suoi occhi. Marmo è la tomba, marmo è il giardino della regina, marmo lo studio del re e dal marmo esce per rientrarne subito l''infelice Carlo V.
Per quanto concerne i protagonisti nella media la prova di Machado mentre ottimi sono stati Franco Vassallo e Riccardo Zanellato, re anche della scena: sicuro, maestoso e possente vocalmente. Buona la prestazione anche di Marco Spotti e delle due protagoniste femminili: Svelta Vassileva e Giovanna Casolla (applauditissima dal pubblico e semplicemente perfetta nella sesta scena del terzo atto, il momento individuale più importante per Eboli). In conclusione un gradito ritorno, quello del Don Carlo, che speriamo presto di rivedere.

Nella foto Riccardo Zanellato (Filippo II). Fotografo Marcello Orselli - Teatro Carlo Felice

Ultima modifica il Sabato, 22 Aprile 2017 16:11
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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