Giovedì, 25 Gennaio 2018 07:45

La Norma al Carlo Felice di Genova

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Ritorno di un grande classico (non era rappresentata dal 2005) al Carlo Felice di Genova con la Norma (repliche fino al 31 gennaio). Frutto del grande genio di Vicenzo Bellini (libretto di Felice Romani), stroncata alla sua prima assoluta e poi, dopo quel primo inciampo (o complotto come suggerisce qualcuno), da allora ed ancora oggi una delle opere più amate e per questo forse più difficili da rappresentare.
Siamo nel 1831 ed un Bellini già affermato (qualche anno prima alla sua Zaira era stata affidata l'inaugurazione del Teatro Ducale, oggi Regio, di Parma) con coraggio mise insieme sggestioni già sperimentate da altri. Le sacerdotesse, il dramma del confronto tra culture, l'amore proibito erano tutti temi già sviluppati nei primi decenni dell'800 ed in fondo eterni. Il merito di Bellini (e di Romani) è stato quello di fonderli conferendo alla Norma una energia nuova che la rende diversa da ogni altra opera. Un'opera, la Norma, che non è soltanto belcanto: dentro c'è il mondo barbarico che tanto affascinò i romantici, c'è la luna, il bosco ed i culti misterici, c'è la sensualità e la gioventù sempre ricercate.

 

L'opera inizia con il fremere dei Galli, capeggiati da Oroveso (Riccardo Fassi, Basso), che attendono al sorgere della luna il responso sacro: se attaccheranno i Romani il Dio Irminsul darà loro la vittoria?
Custode ed interprete della volontà del Dio è la figlia del capo gallico: la sacerdotessa Norma (“Luna, t'affretta sorgere! Norma all'altar verrà! O Luna, t'affretta!”). Ma nel bosco sacro, allontanatisi i Galli, guardinghi giungono due Romani: il Proconsole Pollione (Stefan Pop, Tenore) ed il commilitone Flavio (Manuel Pierattelli, Tenore).
Anche se “in quella selva è morte” il generale è spinto ad andarvi: ma non da Norma, “la madre de' tuoi figli”, con la quale aveva intrecciato una relazione contraria ad ogni regola, ma da una nuova fiamma. “Un'altra, sì... Adalgisa... Tu la vedrai... Fior d'innocenza e riso, di candore e d'amor. Ministra al tempio di questo Dio di sangue, Ella v'appare come raggio di stella in ciel turbato”.
Ma ecco che squilla il sacro bronzo, pronti sono i riti druidici, i due soldati si allontanano e nel bosco tornano i Galli. Norma (Mariella Devia, Soprano mentre Desirée Rancatore sarà protagonista nelle repliche), la vestale da cui tutte le labbra pendono, frena il popolo desideroso di guerra: “V'ha chi presume dettar responsi alla veggente Norma, e di Roma affrettar il fato arcano? Ei non dipende, no, non dipende da potere umano”.
Oroveso la incalza: “fino a quando oppressi ne vorrai tu? Contaminate assai non fur le patrie selve e i templi aviti dall'aquile latine? Omai di Brenno oziosa non può starsi la spada”. Ma la donna riesce ancora una volta a fermarli: “In pagine di morte della superba Roma è scritto il nome. Ella un giorno morrà, ma non per voi. Morrà pei vizi suoi, qual consunta morrà” e dunque “Pace v'intimo...”.
Il vischio sacro è mietuto, Norma prega la luna affinché in Gallia regni la pace:Casta Diva, che inargenti queste sacre antiche piante, al noi volgi il bel sembiante, senza nube e senza vel! Tempra, o Diva, tempra tu de' cori ardenti, tempra ancora lo zelo audace. Spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel”.
Sono i versi semplici e potenti che Norma rivolge alla luna: due quartine di ottonari tra le più note della lirica e certamente le più note di Bellini. Perfetta qui Mariella Devia nel rendere tenera eppur potente questa invocazione che per Norma non è soltanto un rito pubblico ma anche una struggente e segreta speranza di pietà. Una preghiera che grazie alla sua dolcezza permetta agli Dèi di perdonare alla vestale il mancato rispetto di tutto ciò che a lei era richiesto: la verginità e la fedeltà al suo popolo.
Norma, la donna potente, la regina dei misteri divini alla quale tutti i Galli si piegano, è in realtà fragile come fragili sono, e sempre saranno, gli innamorati. Musica, luci e voce gelano il teatro: dal coro alle maschere al pubblico siamo tutti immobili e pendiamo anche noi, come i Galli, dalle labbra di Norma. Non un colpo di tosse durante quelle due quartine ed al termine, quasi timoroso, quasi a non voler spezzare il rito che si compie nel sacro bosco, parte un lungo e meritato applauso.
Norma infine si volge e confessa a noi, al pubblico, ciò che il popolo alle sue spalle ancora non sa: sua patria e cielo è il capo dei nemici. I Galli non dubitano: sono tristi perchè il giorno della vendetta ancora non è giunto ma si piegano a quello che credono essere il volere degli Dèi.
“Sgombra è la sacra selva, compiuto il rito” ed ecco appare Adalgisa (Annalisa Stroppa, Soprano) traditrice anch'essa del suo voto e del suo popolo ed anch'essa per lo stesso “fatal Romano”. Chiede perdono, prostrata, ad Irminsul, ma ecco che di nuovo è presso lei Pollione. Il Proconsole la rimprovera: “Un Dio tu preghi atroce, crudele, avverso al tuo desire e al mio. O mia diletta! Il Dio che invocar devi è Amore”. Adalgisa respinge l'amato, lo prega di partire.
Tra i due è lungo duetto d'amore. La giovane vestale sente su di lei la colpa che ha steso un velo tra lei ed il suo Dio. Pollione la incalza: “Abbandonarmi così potresti! Abbandonarmi così! Adalgisa! Adalgisa! Vieni in Roma, ah, vieni, o cara, Dov'è amore e gioia e vita! Inebbriam nostr'alme a gara del contento a cui ne invita! Voce in cor parla non senti, che promette eterno ben? Ah! Dà fede a' dolci accenti, sposo tuo mi stringi al sen”.
Adalgisa è scossa, non può fare a meno dell'amato (“...Con quegli occhi, con quel volto, Fin sull'ara il veggo impresso”) ed infine cede e giura: partirà col Romano e chiede al cielo di perdonare il suo errore. L'amore terreno sembra aver vinto: “Al mio Dio sarò spergiura, ma fedel a te sarò”.
La scena cambia, Norma è nella sua casa, presso di lei, nascosti ed accuditi dalla fida Clotilde (Elena Traversi, Mezzosoprano) stanno i suoi figli: figli del doppio tradimento (al Dio ed al popolo) e per questo a tutti celati. La sacerdotessa confessa a Clotilde il suo timore: che Pollione parta abbandonando lei e loro.
Il dialogo è spezzato, i figli sottratti di nuovo alla vista di tutti perchè qualcuno s'avanza: è Adalgisa che colpevole e straziata dai dubbi vuol chiedere consiglio alla potente Norma. Dapprima è timorosa (“Ma, deh, ti spoglia della celeste austerità che splende negli occhi tuoi! Dammi coraggio, ond'io senza alcun velo ti palesi il core”) poi confessa: “Amore. Non t'irritar! Lunga stagion pugnai per soffocarlo. Ogni mia forza ei vinse, ogni rimorso. Ah! Tu non sai, pur dianzi qual giuramento io fea! Fuggir dal tempio, tradir l'altare a cui son io legata, abbandonar la patria”.
Un amore nato “da un solo sguardo, da un sol sospiro” presso l'ara del Dio che ricorda a Norma lo stesso amore che nello stesso modo in lei nacque: “io stessa arsì così” confessa tra sé la donna. Compenetrata Norma perdona Adalgisa (“Dai voti tuoi ti libero, i tuoi legami infrango...”) non sospettando che l'oggetto di quello d'amore è il suo Pollione.
Ma di lì a poco il mistero è svelato: anche Adalgisa ha tradito voto e popolo ma ciò che è più grave agli occhi di Norma è che Pollione abbia tradito lei. La vestale è furente e scuote Adalgisa (“Come il mio cor deluse, l'empio il tuo cor tradì”) mentre Pollione, sopraggiunto, incolpa il fato: “È mio destino amarti, destino costei lasciar”. Ma non il destino bensì un corpo più giovane e sensuale ha spinto Pollione al tradimento. Adalgisa se ne rendo conto ed allontana il Romano: “Sposo sei tu infedele”.
Il dialogo prosegue ed è un tormento per i tre: Pollione spera ancora di portar con sé la giovane; Adalgisa ferita ha cambiato partito (“Morirò perché ritorno faccia il crudo ai figli, a te!”); Norma è accecata dalla rabbia (“Maledetto dal mio sdegno non godrai d'un empio amore”). Ritornano i Galli, ignari di questo intreccio: Pollione fugge e Norma è di nuovo chiamata ai riti sacri.

Si apre il Secondo Atto, Norma è sola con i figli addormentati. Sconvolta, “contraffatta” come indicano le indicazioni di regia di Bellini, medita di ucciderli. Meglio morti, pensa, piuttosto che “schiavi d'una matrigna”. Ma in fondo “Di che son rei?” si chiede: ebbene “Di Pollione sono i figli ecco il delitto”.
L'amore rischia di diventare orrore e quasi vince quel sentimento di natura che impedisce di uccidere i propri figli (qui fonte esplicita di Romani è la Medea di Euripide) ma Norma non riesce a compiere l'abominio: “Ah! No! Son miei figli” esclama la sacerdotessa rinsavendo dopo tanta rabbia e ridestando col suo abbraccio le bambine.
Norma fa chiamare Adalgisa: darà i figli a lei (“Si emendi il mio fallo, e poi si mora”) e chiede alla donna di condurli dal padre e di accudirli come sposa di Pollione. Ma al cor non si comanda: Adalgisa è anch'essa una donna tradita e non vuole più Pollione nemmeno se può averlo senza le maledizioni - ed è anzi adesso spinta verso di lui - di Norma. Parlerà però all'ingrato affinché torni dalla prima fiamma. Norma è orgogliosa (“Ch'io lo preghi? Ah, no! Giammai!”) ma infine cede alla ex rivale la cui anima adesso per il Proconsole sente “solo amistade” (perfettamente servito dalla buca il lungo duetto tra le due protagoniste).
Adalgisa rinuncia per sempre agli uomini, parlerà con Pollione “nel suo cor son io secura, Norma ancor vi regnerà”.
Ma non è solo l'intreccio d'amore che scuote la Gallia: i guerrieri vogliono combattere e scacciare i Romani. Oroveso riesce a calmare le truppe (“Divoriamo in cor lo sdegno, tal che Roma estinto il creda”) credendo che questa sia la volontà degli Dèi e non il freno che Norma ha imposto per risolvere il suo dramma privato.
Ma il tentativo di Adalgisa di spingere nuovamente il Proconsole verso l'antico amore non ha successo. In Norma il furore chiama questa volta la guerra e conducendo il suo popolo come le brigle conducono il cavallo suona per tre volte lo scudo di Irminsul.
“Guerra, strage sterminio”
è adesso questa la nuova volontà del Dio. “Guerra, guerra!” è l'urlo dei soldati Galli (applauso dal pubblico in questa sesta scena del II° Atto per il coro diretto da Sebastiani).
Pollione è catturato: perso per la sua Adalgisa si era introdotto “nella sacra chiostra delle vergini alunne” (invero una cattura ingloriosa per un Proconsole romano quella scritta dal Romani).
Stretto tra le corde Norma è pronta a sacrificarlo agli Dèi ma non ne ha il coraggio (“tu tremi?”) e chiede di essere lasciata sola con lui (ufficialmente per interrogarlo).
Norma promette a Pollione salva la vita se giura di fuggire da Adalgisa. Il Romano non cede (“No. Si vil non sono”) e Norma tenta un'ultima carta: se non rinuncia ad Adalgisa ucciderà i figli. Ecco l'amore che di nuovo diventa follia. Ed anche Adalgisa morrà: “Già mi pasco ne' tuoi sguardi, del tuo duol, del suo morire, posso alfine, io posso farti infelice al par di me”.
Norma convoca i druidi ed il popolo in armi, è decisa: farà il nome della giovane che mancò al suo voto affinché anche lei sia uccisa. Si prepara il rogo ma un ultimo rimorso fa tornare in sé la donna (“Io rea l'innocente accusar del fallo mio?”) e confessa al suo popolo che colpevole di tradimento è lei.
“Un nume, un fato di te più forte ci vuole uniti in vita e in morte. Sul rogo stesso che mi divora. Sotterra ancora sarò con te” dice Norma al “crudel Romano”. Quest'ultima folle, devastante, dichiarazione d'amore, di questo amore esclusivo che è meglio che divenga morte piuttosto che si perda, ridesta l'antico sentimento in Pollione: “col mio rimorso è amor rinato”.
Oroveso prega Norma di scolparsi ma lei nemmeno lo ascolta più ed un'ultima preghiera rivolge al padre: “Clotilde hai i figli miei. Tu li raccogli, e ai barbari gl'invola insiem con lei”. Norma lo prega ancora “deh! Non volerli vittime del mio fatale errore!” ed infine il vecchio, commosso, acconsente che almeno essi siano salvati.
Quasi felici, uniti dal rogo, Norma e Pollione mano nella mano vanno alla morte.

Detto dell'opera e tornando alla rappresentazione andata in scena ieri sera buona è parsa (in particolare nel Secondo Atto) la direzione di Andrea Battistoni, mani e bacchette note al pubblico genovese. Belli i costumi (Daniela Cernigliaro) anche se quello di Pollione è parso poco romano.
Ruolo da protagonista assoluto per le luci (Luigi Biondi) che hanno accompagnato tutta l'opera fondendosi con la musica e le scelte registiche sottolinenando ora il dramma, ora il mistero ed alla fine tingendo di rosso fuoco e sangue la foresta dei druidi.
Tra le voci splendide le due protagoniste Norma e Adalgisa: così andava “fatta” la Norma e così è stata fatta. Meno brillante la voce (ed un po' rigido nel movimento scenico) Pollione. Preciso nella sua austerità Oroveso e buona anche la prova di Clotilde. Come da tradizione ha fatto il suo il coro diretto da Franco Sebastiani in un'opera nella quale il popolo, tradito e fremente, è coprotagonista.
Ottima la regia (sicuramente non facile per “l'affolamento” costante voluto da Bellini) firmata da Luigi Di Gangi ed Ugo Giacomazzi. In ultimo giudizio ampiamente positivo sull'allestimento (del Massimo di Palermo ed Arena Sferisterio di Macerata) caratterizzato in buona sostanza da una foresta brulla ed intrecciata che, mediante le luci e poco altro, consente di cambiare scena... senza cambiare la scena.
Rappresentazione ampiamente gradita dal pubblico (che espresso il proprio gradimento con lunghissimi applausi). Due isolati “buuh” all'ingresso sul palco per il saluto finale a regia e staff tecnico che qualcuno vicino a me ha commentato con un “perchè? Che str... che sono. Son stati bravissimi” ed anche chi scrive si sente di condividere questo giudizio.


Nella foto Adalgisa (Annalisa Stroppa) e Norma (Mariella Devia) - Foto Marcello Orselli - Teatro Carlo Felice

Ultima modifica il Giovedì, 25 Gennaio 2018 21:44
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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