Gli attori sono tre e si può dire che tutta la tensione dello scritto proustiano è retta dalla loro eccelsa recitazione. A vestire le sembianze del compassato Swann è Sandro Lombardi, mentre la figura rozzamente ingenua e frivola di Odette è impersonata da Elena Ghiuarov, fino ad arrivare all’interpretazione frizzante di Iaia Forte capace di trasmettere tutta la potenza e la carica spregiudicata e quasi spudorata del personaggio di M.me Verdurin, ricchissima donna di mondo, animatrice di un salotto che racchiude la “crème de la crème” del suo tempo e quindi inserita perfettamente nell’ambiente dell’alta società di fine Ottocento parigina. Donna snob, tessitrice di trame amorose, che è pronta a disfare non appena il “suo favorito” perde interesse davanti ai suoi occhi.
Gli attori alternano recitazione “diretta”con narrazioni e resoconti che vanno a ritroso nei fatti, delucidando di volta in volta le vicende del rispettivo personaggio.
La storia è ben nota a tutti: si tratta della consumazione sempre più erotica e cocente di Swann che viene pian piano catturato dal fascino crudelmente libertino di Odette, fino a una lenta discesa negli inferi che lo porta, dopo la passione, a una gelosia sempre più sospettosa e maniacale. Si tratta di quell’altalena, in quel gioco delle parti costruito dall'eros, in cui vale il principio che “in amor vince chi fugge”, di quel sentimento dolcemente violento che attanaglia il cuore dello sventurato (o fortunato, a seconda dei punti di vista) che ne è preda e che nulla può contro la sua potenza incontrollabile e inevitabile.
Inizialmente gli occhi snobbanti di Swan non si abbassano a considerare quelli della semplice fanciulla Odette, bella (ma non troppo per l’alterigia del ricco Swann) cortigiana raffinata e opportunista, la quale, forse per motivi di arrampicamento sociale corteggia l’uomo con le tecniche di una seduzione arrendevole e lusingatrice. Pian piano Swann perde la testa per questa creatura così lontana dal suo mondo e probabilmente per questo così ammaliante, così calamitante. È proprio nel salotto di M.me Verdurin che i due si incontrano e l’incontro darà inizio ad una passione sempre più bruciante. Swann cede al fascino maliardo di questa donna spregiudicata, che cela un passato di ex-prostituta, e che nell’atteggiamento beffardo non nasconde la sua esperienza di femme fatale, di mangiatrice di uomini (e donne) a cui ripetutamente si è concessa.
L’uomo comincia a perdere la lucidità della ragione, divorata da questo vortice abissale di gelosia, solitudine, angoscia, ansia, timori e sensi di colpa, in balia di un travaglio sconosciuto che non riesce a domare né a fermare. E mentre sulla scena si consuma il dramma tragicomico di Swann, sullo schermo scorrono non più le immagini di rose che schiudono senza posa i loro petali delicati e rossi, ma si innalzano le fiamme di un amore che è anche un inferno, il fuoco della passione e il fuoco dell’inferno che insieme ribollono nel cuore tormentato, ormai quasi alieno dell’uomo. “C’è un altro aderente a me, amalgamato a me, come una malattia”, esclama Swann, riconoscendo che in quelle ore di attesa e logorio notturne un altro ha preso il posto del sui io presente e lucido, un altro di cui ormai non potrà più fare a meno, un altro che gli dorme dentro, come un cancro, come un’anomalia che non può recidere, né curare, se non con la presenza e l’amore dell’amata.
È questo “altro malato”che lo trascina nel bel mezzo della notte a suonare alla porta di Odette, scongiurandola di aprirlo e permettergli, ancora una volta di aggiustare le “cajenne” (una tipo di orchidea) che ella teneva al suo corpetto, e che una volta, già Swann aveva provveduto a ritoccare portando i due alla consumazione dell’amore. Adesso però quella che lo apre è un’altra Odette, che non lo vede più con gli occhi avidi della conquista, di chi è disposto a strisciare, ad abbassarsi pur di ottenere la propria preda, bensì è un’Odette infastidita dalla pressante insistenza e invadenza dell’innamorato, un Odette che si è stancata di giocare alla gatta innamorata, stancata di giocare al gioco dell’amore con un uomo che non riesce a inserirla in società, che non la porta alle feste “in”, che non le fa conoscere l’alta noblesse di Parigi; stanca dell’inerte mollezza di Swann. Così è una porta chiusa quella che Swann si trova davanti e ci saranno altre porte chiuse e altri tormenti, per lui che ormai ha sostituito “il sogno” con l’oggetto del desiderio.
Odette al suo sguardo annebbiato dai fumi di Eros diventa una creatura idealizzata, vagheggiata, soprattutto quando è sprofondata nel sonno e come trasportata in un’altra dimensione, trasposta fuori da sé stessa, dalla sua terrena e bassa umanità. Lì nell’innocenza del sogno assume tratti angelici e ideali, perde la sua materialità, la sua umilità, nel senso di humus, di ciò che è legato alla terra per diventare puro corpo sognante, puro corpo addormentato, che racchiude l’incoscienza serena e pura dei vegetali. Come se quasi essa divenisse albero, o tronco o foglia. Corpo sublimato nell’inconsapevolezza del sonno. Appartiene a un altro mondo che però Swann non può stringere, se non col desiderio, se non con lo struggimento dell’anima. D’altronde, citando lo stesso Proust “se sognare è pericoloso la sua cura non è sognare di meno, ma sognare di più, sognare tutto il tempo”. Ed è in questo sogno che Swann si smarrisce, in cui precipita e da cui non può risollevarsi. Mentre Odette, la maliarda, la libertina, l’arrampicatrice seducente lo fugge; parte per un viaggio con M.me Verdurin, paragonata ad un uccello, così rozza e fintamente raffinata. Sembianze di uccello gracchiante e sgraziato che emerge perfettamente nei suoni onomatopeici e nella voce squillante che l’attrice Iaia Forte con perizia riesce a mimare e ad evocare. Intanto anche le immagini sullo schermo sono mutate: al posto della danza rossa delle fiamme ora si sfila l’immagine bianca di un albero secco, invernale. Il gelo ha sostituito la passione, il freddo ha spento il fuoco, i ricami dei rami bianchi e spogli che oscillano al soffio di un vento invisibile (l’ultimo soffio di un amore sfinito, finito, inaridotisi lentamente, miseramente) è ciò che rimane di una passione raggelatasi (almeno per Odette, che forse, non ha mai veramente amato Swann), svanita come svanisce l’estate all’arrivo dell’inverno.
“Si ama solo ciò che non si possiede del tutto”, risuonano le parole di Proust, pronunciate, insieme ad altre dalle bocche degli attori sul palco. Alla fine non ci sarà l’esito catastrofico e tragico che ci si aspetta da un amore tanto sofferto. È la banalità, la routinaria scontatezza della vita ad avere la meglio, il suo adagiarsi su un binario retto e monotono e la scena si conclude con i due protagonisti che alla fine sembrano non aver altra scelta che quella di stare insieme, senza rinunciare alle gelosie (lui) e alle provocazioni di lei, che sembra ormai rassegnata all’amore folle di quest’uomo, e quando cala il buio sulla scena, sulle note di una musica intensamente struggente e malinconica rimane il dubbio se quello che continuerà a lampeggiare sullo schermo saranno le fiamme focose dell’amore o il gelido biancore di un inverno destinato a scorrere per sempre.
Immagine tratta da www.coupandia.com