La storia nelle sue grandi linee è a tutti nota grazie soprattutto al film di Mattioli del 1954 che è diventato parte essenziale del nostro patrimonio cinematografico entrando a far parte, quasi fosse la versione su pellicola del Ventre di Napoli di Matilde Serao, dell’immaginario tradizionale che gli stranieri hanno su Napoli nell'ottocento. Come detto la scelta di Tutino è stata quella di collocare gli eventi in un’epoca a noi più prossima ma ugualmente contrassegnata dalla fame: i giorni del referendum Repubblica/Monarchia. Sfoltita nei personaggi l’opera non lo è nella partecipazione del popolo: una folla affamata e sempre presente in una città nella quale le case, quelle poche case rimaste in piedi dopo le bombe degli anni precedenti, sono più buchi che cemento (suggestivo in tal senso l’allestimento, realizzato dal Carlo Felice e dal Verdi di Salerno, nel quale spiccano i tubi Innocenti segno delle ferite della guerra ma anche della voglia di ricostruire).
“Finita la guerra, continua la fame” si lagna il popolo del basso intorno alla fontana dalla quale si attinge l’acqua per bere o si lavano i bambini. Proprio la fame è una costante dell’opera ed i cibi vengono evocati ed elencati (ottimo come sempre il coro diretto da Franco Sebastiani) quasi fossero divinità irraggiungibili.
È in mezzo a tanta miseria che, sulla pubblica via, l’ex maestro Felice Sciosciammocca (Alessandro Luongo, Baritono) ha allestito il proprio banco da scrivano. Affamato come tutti spera anch’egli di poter scrivere qualche lettera a qualche popolano e di poter così mettere qualcosa in tavola per il figlio Peppiniello (Francesca Sartorato, Mezzosoprano).
Tra la folla che dibatte e si divide tra monarchici e repubblicani si affaccia un cafone (Nicola Pamio, Tenore) e qui si sviluppa la nota scena comica del cliente che scrive la lettera (nel film ad un parente in questo caso direttamente al Re) chiedendo il denaro necessario anche per pagare lo scrivano (perfetto qui lo scambio tra i due protagonisti nella scena). Liquidato il cliente senza denari la scena si sposta nella casa dell’ex maestro. Qui padre e figlio fanno i conti dei soldi che non hanno (“È finita la legna. Perfetto! Niente da cucinare… ancora meglio!”) e nel tentativo di racimolare qualcosa Felice manda Peppiniello ad impegnare il cappotto dal quale spera di ottenere denaro a sufficienza da sfamare un esercito ed è per questo preso in giro dal figlio: “Ma cos’è, il paltò del Re?”.
Rimasto solo Felice scrive, come oramai fa tempo, una falsa lettera della madre di Peppiniello che lo scrivano dice al figlio si trovi in America (“Un viaggio premio. Obbligatorio”).
Fuori dalla casa di Felice - ancora intento a scrivere qualcosa di credibile che spieghi a Peppino perché la madre non è con loro - il popolo è tutto intorno ad una delle nuove stelle del palcoscenico: la bellissima Gemma (Martina Belli, Mezzosoprano) corteggiata maldestramente dal Principe Ottavio di Casador (Andrea Concetti, Basso) che però fa ben capire alla giovane che non intende certo sposarla: “Gemma, non vi domando che una notte di luna, sopra una barca, una barca bruna...”.
Rifiutato il Principe riesce soltanto ad ottenere un gioiello di modesto valore quale, così sostiene, pegno d’amore cui “chiedere un aiuto” fin quando il sentimento non si sarà spento. Egli in realtà, ben informato e contrario alla relazione che Gemma ha con il figlio Eugenio (Fabrizio Paesano, Tenore), voleva ottenere quella rosa di corallo per poter poi convincere il giovane che la ballerina non sia una donna onesta.
I due però hanno intenzioni serie ed in un lungo duetto d’amore si lagnano del padre di lui che per “la nobiltà, lo stemma, il sangue, il nome, il titolo” e cioè per “le regole di un mondo che non esiste più” non consentirà le nozze. Il padre di Gemma, però, ancora all’oscuro di questa barriera cetuale, vuol conoscere la famiglia del futuro genero prima di dare il proprio assenso.
Per ovviare a quello che sembra un ostacolo insormontabile Eugenio progetta una recita: sarà il suo ex maestro, licenziato durante il fascismo e per questo oggi poverissimo, ad interpretare il ruolo del Principe di Casador nell’incontro che il padre di Gemma ritiene essenziale per il proprio assenso alle nozze. I due giovani provano a convincere Felice ma l’uomo è irremovibile: “Sì, ho fame, lo ammetto, ho fame come un lupo, e l’idea di una cena non mi spiace, fosse anche solo per un po’ di pane. Ma più di questa fame, più forte del bisogno c’è il rispetto: Chi rispetta sé stesso, chi crede in un’idea non è un lupo...” (ottimo qui vocalmente Luongo).
Sconfortati i due amanti escono e si separano ed ecco rispunta Ottavio che cerca di convincere il figlio a non sposare la donna ma Eugenio è fermo nel suo proposito e dunque: “Meglio un impostore che un padre come voi”,
La storia dei due giovani si incrocia però con quella di Peppiniello e della madre, Bettina (Valentina Mastrangelo, Soprano) a lui sconosciuta e della quale ha soltanto quelle lettere in realtà scritte dal padre. Il giovanotto la incrocia, ignorando che sia proprio lei, piena della spesa fatta per la casa di Don Gaetano, il padre di Gemma. Sarà proprio quel pane cafone tanto sognato dall’affamato Peppino che lì terrà vicini per un po’. Qui Bettina, interrogando Peppino circa la madre, legge una delle “sue” lettere dall’America mentre in un attimo di distrazione un ladro ruba il cappotto che doveva essere dato in pegno venendo inseguito dallo sfortunato Peppino.
La lettera, un capolavoro dei librettisti, è cantata perfettamente dalla Mastrangelo ed il termine di quest’aria diventerà certamente, nelle rappresentazioni dei decenni futuri, un momento nel quale la buca prenderà riposo per lasciare spazio agli applausi.
Rimasto senza il cappotto ma ancora con la fame Felice non può che cedere al nuovo invito di Gemma la quale questa volta, facendo imbandire una tavola colma di ogni bendidio, ha il quartiere a spalleggiarla. Felice cede e quel popolo che a passetti (geniale e divertentissima questa scelta di regia) si era avvicinato agli spaghetti, finalmente, con le mani, se ne può riempir la bocca perché: “la vendetta va consumata fredda: Ma lo spaghetto caldo”.
Con questo popolo immobile, fisso, e con questa immagine oggi lontana ma non così rara agli tempi del racconto si chiude il Primo Atto.
Ad aprire il secondo è Peppiniello che rimproverato da padre per essersi fatto rubare il cappotto va in casa di Don Gaetano sperando che Bettina lo faccia prendere a servizio. La donna titubante accetta ma il “guaglioncello” dovrà dire a tutti che è suo figlio: “Bettina m’è madre a me” (la scena e la frase, continuamente ripetuta, diverte di gusto tutta la platea).
Nel frattempo tutto è pronto per la recita. Don Gaetano (Alfonso Antoniozzi, Basso) ossequioso fa entrare il finto Principe. Felice, fingendo sia usanza dei nobili controllare le pietanze prima della cena, va a riempirsi la pancia nella cucina di Don Gaetano. Qui incontra Bettina e tra i due è subito scontro: “Schifoso!” - “Infame!” - “Macaco!” - “Capra!”...
Anche il pubblico finalmente sa perché Felice ha allontanato Peppiniello dalla donna: “Io prima, e dopo il Principe… il passo è sempre aperto”. Sconvolto l’uomo vuol mandare a monte l’inganno (“Il fegato mi duole. E’ come piombo”), ma Gemma ed Eugenio lo convincono a rimanere (splendido qui lo scambio a tre voci da opera ottocentesca).
A rovinare tutto è però l’arrivo del vero Principe di Casador. Felice, Eugenio e Gemma provano ad ingannare Don Gaetano, a far credere vero il falso e falso il vero ma l’annuncio per radio dei risultati referendari smaschera l’ex maestro: “Goal!” esclama Felice uscendo dalla parte del nobile - monarchico per definizione - quasi senza accorgersene. A questo punto lo scontro è tra i due “Principi” ed Eugenio scopre, sconvolto, che la sua Bettina si concesse a Casador non per lussuria ma affinché il nobile intercedesse per far riottenere il posto di maestro al marito (un po’ come nel Cosi-Sancta di Voltaire da un piccolo male doveva derivare un gran bene).
Credendosi vincitore l’arrogante Ottavio passa ad insultare Gemma e tira fuori, in casa del padre e bevendo il suo vino, la rosa di corallo che dovrebbe testimoniare i facili costumi della ballerina. La risposta di Don Gaetano è però fiera ed energica: “Questo sarebbe un Principe? Seducete la moglie a un disperato, insultate mia figlia, torturate due amanti, e senza batter ciglio rovinate la vitta a vostro figlio… E poi, sì, quelle rose… Gemma, sapete, è spesso circondata da ammiratori anziani e vecchi osceni, di rose come quella ne abbiam cassetti pieni”. Infischiandosene quindi dell’assenso del consuocero acconsente alle nozze dei due giovani.
Anche per Felice e Bettina c’è spazio per la gioia. Scoperto che quello della donna non fu un tradimento ma un grande sacrificio a beneficio della famiglia i due si abbracciano (anche qui merita di essere sottolineato il duetto). In ultimo il povero Peppiniello, svelato l’ultimo equivoco, scopre che la finta madre è la vera madre.
In un trionfo di evviva per il sorgere della Repubblica si preparano però a rimanere in sella i vecchi protagonisti: “cambiamo ogni cosa per non cambiar nulla. E sia benvenuta sull’arca nostrana la democrazia… purché sia cristiana!”.
La morale è affidata allo scrivano: “Nel fondo ciascuno qualcosa nasconde, chi tanto, chi poco, sia povero o ricco. Nessuno si salva, nessuno è senz’ombre: è falso… è sincero… o entrambe, chissà? In questo Paese, nel cuore di ognuno, c’è un po’ di Miseria e di Nobiltà”.
Detto della storia che ha il merito di non creare un Felice imitazione di Totò (od un Gaetano specchio di Gianni Cavalieri) ma un personaggio nuovo, senza possibilità di paragoni per il pubblico, anche la musica ci regala un qualcosa di mai sentito e di difficilmente definibile: più cinema che da opera classica nello svolgimento delle scene ma con dei cammei di classicità che non stonano per nulla.
Impresa ardua, in assenza di paragoni, dare un giudizio alla regia (Rosetta Cucchi): quello che possiamo dire è che tutto fila per come deve filare assicurando che i movimenti dei cantanti (e del coro che nell’opera è parecchio presente) non risultino mai sgraditi o forzati. Appropriati storicamente i costumi (Gianluca Falaschi) e particolarmente bello quello di Gemma anche se avrei voluto essere nei panni dei coristi in canottiera.
Non brillante mi è parsa la direzione d’orchestra (Francesco Cilluffo) che nel primo atto tendeva a far tracimare la buca sul palcoscenico (decisamente meglio però è stata nel secondo). Senza sbavature la prova degli attori: sicuri di sé e bravi nella recitazione Luongo ed Antoniozzi e, come si è detto, veramente belle le scene a più voci. Splendida nella voce Valentina Mastrangelo, non è la popolana di Scarpetta ma, per l'appunto, il pubblico non le avrebbe chiesto un'imitazione in salsa lirica ma la capacità - che c'è stata - pure nel contesto di un’opera comica, di portare il pubblico a momenti di commozione.
In ultimo un plauso va al Peppiniello di Francesca Sartorato: se il pubblico ieri sera si è divertito e se la rappresentazione è andata bene gran parte del merito è sicuramente suo.
Non sappiamo se nei decenni, o persino nei secoli, che verranno quest’opera sarà ancora gradita dal pubblico. Ciò che è certo è che è una bella sensazione poter dire: “io l’ho vista!”.
Nella foto Bettina (Valentina Mastrangelo) e Peppiniello (Francesca Sartorato). Foto Bepi Caroli - Teatro Carlo Felice