È una sensazione strana descrivere la prima assoluta di un’opera moderna, scritta e musicata da persone che sono ancora tra noi e non da autori lontani nel tempo. Il Carlo Felice di Genova ha deciso di regalarci questa sensazione (un investimento intellettuale ed economico che andrebbe premiato di per sé) con l’opera “Miseria e nobiltà” (repliche fino al primo marzo), ispirata alla commedia di Scarpetta, ma collocata nel giugno del 1946, è frutto del lavoro compositivo di Marco Tutino mentre libretto e sceneggiatura sono di Luca Rossi e Fabio Ceresa (un trio che ha già lavorato con successo nella trasposizione operistica de "La ciociara").
Dopo l'apertura della stagione con il musical “West Side Story” sono tornati mercoledì al Carlo Felice di Genova (con un'ottima presenza di pubblico) la grande lirica e l'immenso genio di Verdi con Il Rigoletto, opera non rappresentata nel capoluogo ligure dal 2013 (repliche fino al 29 dicembre) e forse uno dei più noti lavori della coppia Verdi-Piave.
Il soggetto è tratto da una sfortunata tragedia di Victor Hugo, Le roi s'amuse, storia di un re libertino (Francesco I) e colpita per questo dalla censura di una Francia tornata monarchica. Analogo destino stava per cogliere anche l'opera verdiana se non fosse intervenuto un provvidenziale, e tutto sommato marginale, cambio di tiro: il re diventa un duca, la Francia diventa la Mantova dei Gonzaga ed i severi censori austriaci concedono il via libera al libretto di Piave (la prima assoluta si terrà proprio, nel 1851, nella Venezia asburgica).
Puccini e Montaldo, chiude con questi due nomi, garanzia di qualità, la stagione lirica del Carlo Felice. La Turandot (in replica fino al 21) - già rappresentata numerose volte a Genova e numerose volte con la regia del maestro genovese - è un capolavoro completissimo a dispetto dei tanti sofismi su una sua incompiutezza che pur materialmente verificatasi (a causa del cancro alla gola che divorò Puccini prima della stesura definitiva realizzata dall'allievo Franco Alfano) non ha inciso in maniera tale da stravolgerne l'essenza della storia (discutere poi sulla qualità dello svolgimento del libretto è altro affare).
Traspare comunque tutto l'impegno di Puccini nella ricerca dell'oriente misterioso e violento e la sofferta sperimentazione di un suono che restituisca relamente un pezzo della Cina antica (persino un carillon fornì l'ispirazione al maestro toscano) rispolverata però con qualcosa che è già novecento: è già cinema, movimento, trionfo di fiati, potenti insiemi.
“Ella giammai m'amo”, un verso semplice e potente, talmente potente che potrebbe essere recitato anche senza musica. E' nell'orrore di questa constatazione, nell'eternità di questa constatazione che ha accompagnato l'homo sapiens da quando intagliava cortecce e che sempre lo accompagnerà, che si esprime il Don Carlo. Poco importa ai fini del libretto che a pronunciarla sia un re. Egli in quel momento, nel fulmine di quella sentenza, è un uomo: solo e di fronte al proprio dramma.
Ma non c'è solo l'amore nel Don Carlo che dopo 16 anni torna ad essere rappresentato al Carlo Felice: c'è la ragion di Stato, c'è un intrigo di potere capace di colpire con furia la famiglia reale e su tutto c'è il genio di Verdi che ha reso musica i sentimenti.
La prima di ieri sera (repliche fino al 2 maggio) aperta con un ricordo del Sovrintendente Maurizio Roi della soprano Daniela Dessì, ha reso perfettamente la travagliata vicenda dell'erede al trono di Spagna che ispirò Friedrich Schiller (e da cui è preso il soggetto verdiano) per il suo “Don Karlos, Infant von Spanien”.
I fatti storici sono molto diversi dalla versione romanzata da Schiller (ma anche dell'Alfieri) - resa nella prima versione francese dai librettisti Mery e Du Locle (in cinque atti) e poi rimaneggiata in italiano da Achille de Lauzières e da Angelo Zanardini che la portarono a quattro atti nella versione del 1884 andata in scena ieri - ma poco importa ai fini del dramma umano dei protagonisti e del dramma politico vissuto dai fiamminghi in lotta per libertà.
Un elisir per vincere lo sdegno e condurre il cuore dell'amata verso un amore sincero. Un sogno che hanno avuto tutti almeno una volta nella vita: almeno tutti coloro che hanno sentimenti. È l'idea resa opera dal librettista Felice Romani (derivandolo dal lavoro di Eugene Scribe “Le philtre”) a da Gaetano Donizzetti andata in scena al Carlo Felice (repliche fino al 28 marzo e pienone al botteghino) a tre anni dalla sua ultima rappresentazione a Genova e a dieci dalla morte del mai troppo celebrato Lele Luzzati, padre delle magnifiche scene, con la regia di Filippo Crivelli e la direzione dell'australiano Daniel Smith.
Adina (Serena Gamberoni, Soprano), ricca e bella, rifiuta con sdegno e fastidio, nascondendolo con filosofia di vita (“Per guarir da tal pazzia, ché è pazzia l'amor costante, dêi seguir l'usanza mia, ogni dì cambiar d'amante. Come chiodo scaccia chiodo, così amor discaccia amor. In tal guisa io rido e godo, in tal guisa ho sciolto il cor”), l'amore di Nemorino (Francesco Meli, Tenore), troppo semplice per i suoi gusti: troppo poco.
Nemorino, non demorde (perchè “te sola io vedo, io sento, giorno e notte, e in ogni oggetto: d'obliarti invano io tento, il tuo viso ho sculto in petto... Col cambiarsi qual tu fai, può cambiarsi ogn'altro amor. Ma non può, non può giammai il primiero uscir dal cor”) e scemo come scemo può essere soltanto un innamorato si lascia convincere dal ciarlatano Dulcamara (Roberto De Candia, Basso) che, dicendo ciò che il rapito d'amore vuol sentirsi dire, propina allo sventurato, per uno zecchino (“è la somma che ci va”), un intruglio che farà sua Adina.
Il “gonzo” Nemorino, ubriacato dall'elisir (che altro non è se non Bordeaux) finge così indifferenza sperando nel rapido effetto (soltanto un giorno) del portentoso rimedio. A rovinare tutto interviene però l'annuncio inaspettato delle nozze di Adina con l'altro suo spasimante, il sergente Belcore (Federico Longhi, Baritono) richiamato ad altro servizio e ansioso di concludere lo sposalizio.
Quando tutto è pronto per le nozze Adina accoglie la triste preghiera dell'ingenuo contadino (“aspetta ancora... un giorno aspetta...”) ed ammette a sé stessa, in principio per la rabbia che tanta indifferenza suscita in lei (“Vo' vendicarmi, vo' tormentarlo, vo' che pentito mi cada al piè”) che di quel sentimento d'amore non può fare a meno.
Nemorino smanioso che l'elisir faccia subito effetto ne acquista un'altra bottiglia pagandola con la propria libertà: i venti scudi che consegna a Dulcamara sono l'anticipo percepito da Belcore che, per ottenere un doppio smacco, arruola il giovane. Ciò che egli non sa ancora, ma che già è noto alla pettegola Giannetta (Marta Calcaterra, Soprano), è che una fortuna improvvisa lo ha baciato: lo zio morendo lo ha reso “l'Epulone del circondario... un uom di vaglia, un buon partito”. Circondato dunque da tante donne Nemorino crede che l'elisir funzioni per davvero e cade nuovamente nell'arroganza suscitando la delusione di Adina (“O amor, ti vendichi di mia freddezza”) la quale apprende da Dulcamara che lo spasimante ha accettato i pericoli della vita militare pur di ottenere dell'altro elisir e dunque il suo amore. Adina, che non ha bisogno di nessun unguento (“in quest'occhi è l'elisir”), è così decisa a sottrarre Nemorino da tanta concorrenza.
Nemorino ha compreso che “una furtiva lagrima negli occhi suoi spuntò” (splendida romanza resa perfettamente da Meli anche in un bis, anch'esso perfetto ma un filo eccessivo, reclamato dal pubblico) ma sembra voler proseguire in questo gioco quantomai ridicolo nel quale nessuno è disposto a cedere ammettendo che sì: la propria vita si completa nell'altro.
Adina infine lo prega “il mio rigor dimentica, ti giuro eterno amor” ed i due interrompono le schermaglie dettate da amor proprio per concedersi la felicità. Al rassegnato Belcore restano gli onori militari e nuovi, numerosissimi amori che l'elisir di Dulcamara sembra promettere anche a lui mentre al ciarlatano il futuro apre le porte per nuove truffe che una così poderosa propaganda del proprio intruglio non può non assicurare.
Focalizzandosi sulla rappresentazione merita un plauso tanto la regia di Crivelli (limpida e senza inciampi anche nelle tante scene “affollate” nelle quali perfetto è stato il coro) quanto la sicura direzione di Smith (cui va il merito di aver fatto salire sul palco l'intera orchestra per ricevere il calorosissimo e meritato applauso del pubblico). Sicura e scenicamente a suo agio Serena Gamberoni mentre semplicemente perfetto è stato Meli, che a Genova gioca sicuramente in casa.
La simpatia di tutti (resa anche dal contributo dato da Santuzza Calì ai costumi) va però all'esperto De Candia del quale va sottolineata anche la presenza attoriale ed il coordinamento con gli altri protagonisti (pregevole in tal senso lo scambio con Adina nella settima scena del secondo atto). Si può dire, in conclusione, che questo Elisir d'amore ha avuto la giusta caratura in ogni suo aspetto facendo trascorrere un'ottima serata ad un pubblico uscito visibilmente contento.
Nella foto Roberto De Candia (Dulcamara) - fotografo Marcello Orselli, Teatro Carlo Felice.
“Tutto nel mondo è burla”. E' in questa considerazione apparentemente leggera, ma nel suo fondo amara, che è racchiuso il Falstaff: sapiente lavoro librettistico di Arrigo Boito ispirato a due opere di Shakespeare ed ultima fatica operistica di un Verdi che, seppure ottantenne, ebbe il coraggio di rimettersi in gioco ad un'età nella quale adagiarsi sarebbe stato consentito a tutti.
A 123 anni dalla prima rappresentazione il Falstaff non perde la propria carica comica e, se vogliamo, didascalica. Prima di quel “tutto nel mondo è burla” è dal “tutti gabbati” che ci giunge infatti un insegnamento utile anche per l'oggi: anche per noi.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).