Xylella cinque anni dopo. Cronaca di un disseccamento annunciato
Tre anni fa erano cronaca nazionale le proteste contro la rimozione degli olivi salentini affetti da Complesso del Disseccamento Rapido, causato della proliferazione nei loro vasi linfatici del batterio Xylella fastidiosa pauca diffuso da alcune sputacchine, principalmente Philaenus spumarius; l’epidemia martoriava gli oliveti salentini però già da almeno due anni.
Paesaggio o sviluppo?
Gli ultimi anni hanno visto, sempre più spesso, la predilezione per le grandi opere piuttosto che per una serie d’interventi mirati ma funzionali. Il nostro territorio ha subito trasformazioni consistenti e i paesaggi sono mutati repentinamente, seguendo l’azione antropica. Nulla di nuovo, dalle epoche più remote la mano dell’uomo ha modellato a suo piacimento il globo secondo scelte diverse: a volte sensate altre volte meno.
Faro di Patresi: un eco-mostro minaccia la Toscana
Nel mare sottostante, all’estremità nord-occidentale dell’Isola d’Elba, ci passano anche le balene. Siamo nel cuore del Santuario dei mammiferi marini Pelagos, area naturale protetta di interesse internazionale, e anche la terraferma che circonda Punta della Polveraia fa parte del Parco dell’Arcipelago toscano.
L’ultimo intervento della giornata dedicata ai paesaggi, in particolare nel Dittico dei Duchi di Pier della Francesca e nella Gioconda di Leonardo da Vinci, organizzata all’Istituto francese, è provenuto da due ricercatrici, Rosetta Borchia, artista e naturalista e Olivia Nesci, Professore di Geomorfologia, presso il Dipartimento di Scienze Pure e Applicate Sezione "Geobiologia, Patrimonio Culturale e Analisi del Paesaggio", dell'Università di Urbino. Costoro si autodefiniscono, al di là dei rispettivi titoli, “delle cacciatrici di paesaggi”. Il loro lavoro è durato dieci anni e l’intento di questo progetto era cercare prove materiali della realisticità, della topografia e della fisicità dei paesaggi che appunto adornano le suddette opere. Si tratta cioè di paesaggi fisici, reali, riconoscibili in un determinato territorio. Tale individuazione è iniziata, raccontano
Il semiologo Paolo Fabbri esordisce delucidando la possibile etimologia della parola francese paysage, da cui proviene il nostro italiano paesaggio. Il primo uso del termine paesaggio si ritrova in una lettera di Tiziano a Filippo II di Spagna, nel 1552.
Secondo un’ipotesi, paysage risulterebbe dalla coniugazione di pays e image. Indipendentemente dal fatto che questa ipotesi colga nel segno o meno, l’assemblaggio dei due termini sembrerebbe adeguato, dato che il paesaggio sarebbe l’unione di paese (da intendere probabilmente come spazio in senso lato) e di immagine. Se ciò fosse vero, dovremmo allora porci anche il problema della parola visage (viso), che a questo punto potrebbe essere l’“assemblaggio” di vis e image (immagine del viso), oppure anche di vis e paysage (paesaggio del viso), riscontrando così una stretta vicinanza tra visage e paysage, a differenza degli italiani viso e paesaggio, linguisticamente distanti.
L’Istituto francese di Firenze continua a stupirci con le sue molteplici, interessanti iniziative. Ieri, 11 aprile si è parlato di paesaggi, in particolare nel dittico di Urbino (1465-1472 circa) di Piero della Francesca, che ritrae il Duca Federico da Montefeltro e la consorte Battista Sforza e della memorabile Gioconda di Leonardo da Vinci. Il titolo della conferenza, curata da Isabelle Melliez, direttrice dell’Institut français di Firenze e da Maria Cristina Turchi, responsabile della promozione culturale all’estero della Regione Emilia Romagna, era infatti “Paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci. Alla ricerca dei paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci”. Il presupposto di partenza è il seguente: si tratta di paesaggi immaginari, non riconoscibili o sono paesaggi fisici, realmente esistenti o esisti? Possono cioè essere individuati topograficamente? Questo è stato l’esperimento di Rosetta Borchia e Olivia Nesci, la prima studiosa di arte e naturalista e la seconda professoressa di geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze pure e Applicate dell’Università degli Studi di Urbino, che dopo dieci anni di dettagliata e minuziosa ricerca sono riuscite a rintracciare i misteriosi paesaggi che svettano sullo sfondo delle figure ritratte dei due quadri succitati.
Prima di ascoltare la spiegazione del lungo progetto delle due ricercatrici, sono intervenuti Neville Rowley, esperto di Piero della Francesca, e il semiologo Paolo Fabbri. Il primo insegna al Louvre e presto sarà nominato Conservateur pour l’art italien des XIV e XV siècles al Gemäldegalerie e al Bode Museum di Berlino. Il secondo insegna Semiotica della Marca presso l’Istituto di Comunicazione dello IULM (Istituto Universitario di Lingue Moderne) a Milano e Semiotica presso la Facoltà di Scienze Politiche della LUISS di Roma.
Neville parte dalla radicale affermazione pronunciata (anche se ancora l’attribuzione non è certa) nel 1839 da Hyppolite Delaroche la prima volta che vide un dagherrotipo, intorno agli anni ’30 dell’’800: “aujourd’hui la peinture est morte”. Un’affermazione molto forte, drastica, che profetizza la morte dell’arte in quanto, secondo il pittore francese, di lì a breve essa avrebbe ceduto il posto alla fotografia che l’avrebbe completamente soppiantata. Infatti la fotografia è capace di una captazione esatta del reale che alla pittura, per quanto possa avvicinarsi alla realtà, mancherà sempre, non potendo rappresentare in maniera perfettamente fedele la realtà allo stesso modo della fotografia. Fortunatamente le cose sono andate diversamente rispetto alla previsione di Delaroche, che di fronte a quel primo dagherrotipo che rappresentava una città urbana, sosteneva che nessun pittore avrebbe potuto catturare quei dettagli, quel gran boulevard du Temple (prima dell’intervento urbano di Huysman che trasformò radicalmente la struttura cittadina di Parigi), quelle finestre delle case, quella strada, etc. Il dagherrotipo in questione porta la “firma” di uno degli inventori della fotografia, Louis Daguerre (da qui il nome dagherrotipo) ed è significativo anche per un’altra particolarità: per la prima volta nella storia della fotografia fa capolino una presenza umana. Si tratta della minuscola figura di un uomo intento a farsi lustrare le scarpe, del tutto inconsapevole di diventare la prima persona vivente ad essere immortalata in una fotografia. L’immagine fu scattata tenendo un tempo di circa sette minuti e fu quasi un piccolo miracolo che quell’uomo avesse tenuto la posa per un abbastanza ampio lasso di tempo, mentre intorno a lui tutto scorreva veloce. Da lì in poi diversi fotografi si lanciarono in ritratti e autoritratti, come Hyppolite Bayard, che si riteneva il vero inventore della fotografia, ma la cui fama fu oscurata dal più noto Daguerre.
Negli anni seguenti però i fotografi cominciano a interessarsi maggiormente ai paesaggi, benché ritenuti più difficili in quanto fluidi, dinamici, cromaticamente cangianti a causa della variazione della luce. Per quanto la fotografia abbia apportato un notevole cambiamento circa la visione e la presa del reale, la pittura non ha smesso di incantarci o di apparire altrettanto vera. Non è infatti raro che certi paesaggi dipinti possano esser considerati come dei veri e propri paesaggi topografici. L’ “Impression du soleil levant” di Claude Monet (dipinto che ha dato il nome al movimento di cui l’artista faceva parte, l’impressionismo) è stato ad esempio oggetto di un interessante studio degli ultimi anni. Nonostante l’impressionismo (e anche il quadro in questione) rappresentino il contrario rispetto alla pittura realista, essendo una rappresentazione più intima e soggettiva del reale, reso attraverso colori e pennellate che riflettono lo stato d’animo dell’artista, uno studioso americano, grazie a dei particolari studi (soprattutto della luce) è riuscito a trovare la data, la veduta e persino l’ora esatta in cui Monet avrebbe dipinto quel paesaggio nella città de “Le Havre”, in Normandia. Secondo lo studioso, Monet avrebbe dipinto il quadro il 13 novembre del 1872 e precisamente alle 7.22 del mattino. Questo simpatico esperimento, indipendentemente dal fatto se lo studioso ci abbia azzeccato o meno, ci insegna a comprendere come anche quei quadri considerati maggiormente “immaginari”, poco veristi, catturino comunque la realtà, immobilizzandola in un momento irripetibile, unico, quasi come una fotografia. Tra l’altro non è da dimenticare quanto Monet fosse minuziosamente attento a ogni infinitesimale cambio di luce, tanto da rappresentare spesso lo stesso soggetto ma in momenti diversi della giornata.
Facciamo qualche passo indietro nel tempo. Nella cappella degli Scrovegni (detta anche “dell’Arena” o “dell’Annunciata”) di Giotto, a Padova, vediamo due finte cappelle, a sinistra e a destra dell’altare, che sono due straordinari esempi di trompe l’oeil che spalancano lo spazio: è una pittura del vuoto, quasi esistenzialista o metafisica per un occhio moderno. In realtà Giotto non ha indagato molto il paesaggio topografico, sono stati più i suoi seguaci a interessarsi a quest’ultimo. Uno di questi è Ambrogio Lorenzetti, pittore trecentesco tra i maestri della scuola senese. I suoi colli senesi, che si affacciano nei dipinti della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena,, sono un esempio sorprendente di quasi paesaggio topografico. Si nota un ricercato e voluto effetto di corrispondenza tra il reale e il paesaggio dipinto, per quanto resti vero che i colli non siano ben riconoscibili, dato che il paesaggio è comunque molto idealizzato.
A dir la verità è molto difficile trovare il primo vero esempio di paesaggio topografico nella storia dell’arte.
Uno di questi lo si potrebbe riscontrare,cento anni dopo rispetto ai colli di Lorenzetti, in una pala del Beato Angelico, la famosa Annunciazione di Cortona, dipinta intorno al 1430 e che si trova nel Museo Diocesano dell’omonima città toscana, in provincia di Arezzo. Nella scena della visitazione (nella pala sotto l’Annunciazione) vi è un’ampia apertura di paesaggio, che a tutta prima appare sospesa in un’atmosfera sognante ma che è ben ravvicinabile alla reale veduta di Cortona che si può avere non appena usciti dal Museo Diocesano. Il paragone viene molto istintivo, anche se non si può parlare, per questo splendido dipinto, di una sorta di pre-fotografia. L’intento dell’Angelico era quello di rappresentare una storia santa introducendola in un paesaggio quotidiano, così che il fedele potesse riconoscere la terra santa in una terra di tutti i giorni.
Veniamo ai protagonisti della conferenza. Piero della Francesca e Leonardo Da Vinci. Il paesaggio che si staglia alle spalle delle due grandi figure di profilo (Montefeltro e consorte) è un paesaggio molto realistico, così come quello che campeggia alle spalle della Gioconda. Si tratta di due ritratti non due scene sacre e sicuramente vi è uno strettissimo legame, un parallelismo, tra le figure rappresentate e i paesaggi al loro sfondo.
Un altro esempio di paesaggio molto realistico lo si ritrova nel Tondo dell’Adorazione dei Magi di Domenico Veneziano, commissionato da Piero de’Medici nel 1438. Veneziano fu maestro di Piero della Francesca che lavorò con questi intorno al 1449. Secondo uno studioso dell’arte, Fiocco, nel quadro di Veneziano si intravederebbe il lago di Garda. Ciò per dire come molti paesaggi dipinti diano vita ad accurate indagini per trovare il corrispettivo reale di quegli stessi paesaggi.
Un altro quadro che Rowley prende in considerazione è una pala di Piero del Pollaiolo, fratello del più famoso Antonio. Si tratta di un’annunciazione, ubicata a Berlino dal 1800 e che presenta una fuga prospettica molto ampia. I dubbi su questa pala sono molti perché non se ne conoscono né le fonti né la committenza né l’originaria destinazione, ma il paesaggio che si vede è anch’esso molto realistico.
Uno dei quadri più interessanti dal punto di vista del paesaggio è “la madonna del cancelliere Rolin” di Jan Van Eyck, databile intorno al 1435 e sito al Museo del Louvre di Parigi. Si tratta di uno straordinario quadro fiammingo: il ritratto dell’uomo (il cancelliere Rolin) è molto fedele e il paesaggio alle spalle dei due personaggi è ricco di minuziosi dettagli. A destra compare una città moderna, gotica, mentre a sinistra una città più medievale. La catena di montagne sul fondo sembra quella delle Alpi. Van Eyck probabilmente si recò in Italia diverse volte. Il pittore, dice Rowley era come un fotografo perché nessuno a quell’epoca sapeva dipingere in maniera così realistica e ricca di dettagli. Uno studioso olandese, Hugo Van Der Velden, ha riconosciuto un paesaggio topografico,fisicamente esistente, in una miniatura sempre di Van Eyck, non però nella scena principale, bensì in quella che compare al di sotto, dove sono presenti tre chiese. Secondo lo studioso esse rispecchierebbero perfettamente un insieme di chiese che si trova a Delft, nella provincia dell’Olanda meridionale. Tutto ciò fa comprendere come la frontiera tra pittura o miniatura o fotografia non sia così netta. Non si può confinare la pittura nel solo mondo dell’immaginario, considerandola come mero frutto della mente umana e del genio artistico (per quanto sia anche questo), ed elevare la fotografia a unica arte capace di captare perfettamente il reale. Sicuramente la differenza tra le due è forte, ma la dicotomia non deve essere così stringente, dato che, come abbiamo visto, si trova un’ampia fetta di realismo anche nella pittura, prima ancora della nascita della fotografia. Così come è vero che al contempo, molte fotografie che appaiono come perfette prese o captazioni della realtà, risultano poi essere dei fotomontaggi. Dunque il confine tra ciò che è realistico e ciò che è immaginario, tanto in pittura quanto in fotografia, si fa più labile e sfumato rispetto a quanto possiamo esser portati a ritenere.
La nominata città di Delft è protagonista anche di un altro bellissimo dipinto: “La veduta di Delft” di Jan Vermeer, che sembra davvero una fotografia, tanto appare reale e fitta di particolari, grazie alla sapiente maestria dell’uso del colore e dello studio della luce da parte dell’artista olandese. Questo quadro è famoso anche per il fatto che Proust lo ha pienamente esaltato in un volume della sua monumentale Recherche, “La prigioniera”. Si tratta di un episodio molto struggente, fortemente commovente, emozionante. Lo scrittore Bergotte si reca a una mostra di quadri che lo annoia profondamente fin quando non si imbatte nel dipinto di Vermeer, “il più bel quadro del mondo”. Di fronte a quel dipinto e in particolare “al piccolo lembo di muro giallo” tutto gli appare chiaro, trasparente, cristallino. Tutto torna ad avere un senso: “Passò davanti a parecchi quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e inutilità di una pittura così artificiosa, che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia o di una semplice casa in riva al mare. Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di muro giallo”. Più tardi Bergotte, uscito dalla msotra, si siederà su una panchina, e lì vi morirà.
Spesso, conclude Rowley, i pittori tendono a mettere nei propri quadri dei personaggi che sembrano quasi una transizione di noi stessi, e conferiscono una dimensione umana, o umanistica, ai paesaggi che dipingono.
Esempio emblematico è “il viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich, dipinto che esprime per eccellenza il sentimento del sublime di matrice kantiana. Anche qui si tratta di un paesaggio topografico: le montagne svettanti sono infatti individuabili. Il personaggio di spalle che si erge con i capelli mossi dal vento, maestoso e imponente dinnanzi all’occhio dello spettatore non funge da sola barriera tra noi e il paesaggio davanti a lui, ma diventa anche una finestra verso quel paesaggio, come fosse quasi uno specchio che ci riflette la potenza e il realismo sconvolgente di quello scenario impetuoso, di quello spazio glaciale e roccioso avvolto dai fumi di nebbia, che sembra davvero un mare pieno di scogli.
Valle dei Templi o valle degli scempi?
"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."
Un dogma, non solo per chi lavora nel settore dei beni culturali, ma anche e soprattutto per i cittadini e le cittadine dello stivale stabilito dall'articolo 9 della nostra Costituzione. Non è un caso che termini come tutela paesaggio e patrimonio siano interconnessi assieme all'interno di una legge fondamentale dello Stato, del resto tutelare il territorio significa difendere le collettività che per secoli hanno caratterizzato lo stesso.
Paesaggi diversi
Tra i meandri della nostra costituzione, tra i principi fondamentali che la compongono ve ne sono alcuni che, a causa del loro pregnante significato, costituiscono dei veri e propri cardini per la vita quotidiana del nostro Paese. L' articolo 9 ad esempio è uno di questi, “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Il focus è la tutela, un termine nobile e imprescindibile se ritiene opportuno salvaguardare la memoria storica collettiva. La tutela che oggi, a causa di una discutibile riforma, sembra completamente messa in secondo piano rispetto a delle mere esigenze di profitto. La riforma del codice degli appalti, il famigerato silenzio-assenso, la “supervisione” delle Prefetture: tutti dati inequivocabili dello smantellamento in atto di un altro pezzo della nostra legge fondamentale.
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