Mercoledì, 20 Aprile 2016 00:00

Visi e paesaggi

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Il semiologo Paolo Fabbri esordisce delucidando la possibile etimologia della parola francese paysage, da cui proviene il nostro italiano paesaggio. Il primo uso del termine paesaggio si ritrova in una lettera di Tiziano a Filippo II di Spagna, nel 1552.
Secondo un’ipotesi, paysage risulterebbe dalla coniugazione di pays e image. Indipendentemente dal fatto che questa ipotesi colga nel segno o meno, l’assemblaggio dei due termini sembrerebbe adeguato, dato che il paesaggio sarebbe l’unione di paese (da intendere probabilmente come spazio in senso lato) e di immagine. Se ciò fosse vero, dovremmo allora porci anche il problema della parola visage (viso), che a questo punto potrebbe essere l’“assemblaggio” di vis e image (immagine del viso), oppure anche di vis e paysage (paesaggio del viso), riscontrando così una stretta vicinanza tra visage e paysage, a differenza degli italiani viso e paesaggio, linguisticamente distanti.

Per un lunghissimo periodo, continua Fabbri, nella tradizione della storia dell’arte, è rimasta l’idea che il paesaggio sia un parergon, concetto greco che deriva da Plinio, il quale a sua volta l’aveva ripreso da Aristotele. Il Parergon indica qualcosa che è in più, un ornamento, o un accessorio, diremo noi. Nella prospettiva classica vi è una netta separazione tra il soggetto e l’ornamento, ma anche tra questo e l’oggetto, perché ritenuto appunto come un accessorio ulteriore, un in più, qualcosa che sta fuori. A questa accezione forse un po’negativa, si accompagna però un’altra interpretazione, ben più positiva. In quanto è qualcosa in più, l’ornamento può svilupparsi in maniera autonoma, non essendo strettamente vincolato né al soggetto né all’oggetto. Può svilupparsi in direzioni libere. Se il termine parergon viene letto in questo modo e si considera il paesaggio come un parergon, potremmo dire che anche l’evoluzione formale del paesaggio ha preso delle vie più libere e autonome, stimolando un interesse slegato dalla contingenza o dalla mera rappresentazione dell’oggetto in sé, concentrandosi su altri aspetti “ornamentali” (sempre nell’accezione del termine greco), quali il cromatismo, le dimensioni, la luce, la prospettiva etc.

I pittori acquisiscono infatti espressioni di sempre maggior libertà e autonomia rispetto alla stringente rappresentazione dell’oggetto (si pensi al paesaggio dell’arte astratta), oppure, invece, anche espressioni di più sofisticata fedeltà, resa appunto dalla sensibilità e dall’attenzione per certi dettagli che possono stare fuori rispetto all’oggetto in sé (come ad esempio la luce). Insomma, assistiamo a uno sviluppo autonomo anche nell’evoluzione del paesaggio.
Ma come porsi, chiede Fabbri, dinnanzi al paesaggio? Va preso come qualcosa di autonomo, o bisogna al contrario, cercare di tipizzarlo?
Esistono ad esempio delle tipologie che distinguono i vari generi di paesaggio, basandosi sul contenuto di questi ultimi. Intorno agli anni ’50 lo storico dell’arte Kenneth Clark ne individuò almeno quattro: paesaggio simbolico, paesaggio realistico, paesaggio reale e paesaggio fantastico. A queste sono state aggiunte altre tipologie: paesaggio cosmico, naturalistico ed eroico (qui il paesaggio è un paesaggio teatrale, i cui elementi naturalistici riprendono o esaltano una postura eroica).
A questi generi di paesaggio potremmo adesso aggiungere anche quello del viso-paesaggio. Il viso come un paesaggio, e il paesaggio come un volto. Spesso, quando guardiamo un paesaggio diciamo che assomiglia a un referente reale, secondo un principio di mimesis, di stretta somiglianza. C’è un racconto di Marguerite Yourcenar, “Come si salvò Wang Fo”, in cui il protagonista, un pittore cinese, si innamora del proprio quadro, tanto da entrarvi dentro e perdervisi. Questo per dire quanto possa esser forte la portata realistica e mimetica di un quadro, quasi da annullare la frontiera che separa ciò che è finzione, o comunque pittura, e ciò che è realtà e creare un effetto di simbiosi tra colui che guarda e ciò che è dipinto. Sia esso un volto umano o un paesaggio.

Ciò che però è più difficile fare quando ci troviamo davanti a un quadro è ritrovare l’esatto punto di vista di chi ha costruito quell’immagine. Bisogna collocarci quasi fisicamente nel punto esatto in cui il pittore guardava. Metterci al posto del suo occhio e vedere con i suoi occhi. Quindi non vi è solo una problematica di referenziazione, bensì anche di ricostruzione del punto di vista, di ricreazione dell’occhio che ha creato quella “realtà”.
I paesaggi ci invitano a collocarci in un certo punto di vista, a posizionarci in un certo punto, ci rimettono nel luogo, quasi finendo per imitare il piccolo pittore cinese che entrò nel quadro. Bisogna imparare a “scarpinare” dentro quei paesaggi dipinti, a camminare nei quadri per trovare il posto giusto. Ed è quel quadro che ci fa smuovere, che ci invita a percorrerlo, ad attraversarlo per trovare la giusta posizione. Ci chiama e ci interpella. Ci ospita. Ci fa muovere attraverso il suo spazio per trovare il punto esatto da cui guardare.

Il paesaggio, prosegue Fabbri, non rappresenta solo la natura, per quanto essa, da Lorenzetti in poi, appaia sempre più sofisticata, ma rappresentano anche il modo con cui noi abbiamo accesso a quella natura. E di accessi ce ne sono molteplici. Nel dittico dei duchi di Urbino di Piero della Francesca, da una parte abbiamo due figure speculari (Federico da Montefeltro e la moglie), dall’altra un paesaggio, sullo sfondo, visto in maniera radente. È quasi come se lo si potesse guardare a volo d’uccello (prospettiva utilizzata in cartografia fino all’ottocento), da una prospettiva aerea – i cui studi tra l’altro, iniziarono con Leonardo da Vinci.
I volti dei due duchi del dittico di Piero della Francesca possono esser guardati davvero come dei paesaggi: anche il volto è una maniera di accesso al quadro e non è raro che certe caratteristiche delle figure ritratte corrispondono perfettamente ad alcuni elementi paesaggistici all’interno dello stesso dipinto. Ad esempio, il naso grande e ruvido di Federico da Montefeltro è imponente come le montagne sullo sfondo. Nella ritrattistica rinascimentale infatti il fondale (lo sfondo paesaggistico) si identifica sempre con il personaggio ritratto, per appartenenza a quel luogo o per motivi simbolici, allegorici, analogici. Dunque, da una parte, abbiamo una soggettivazione del paesaggio, che potremmo interpretare come un viso, con caratteristiche quasi umane, e dall’altra un’oggettivazione del volto, o una sua “paesaggizzazione”. Soggettivare il paesaggio e oggettivare il viso, conclude Fabbri, è stata una delle attività più importanti e rivoluzionarie della pittura. Se guardiamo attentamente lo sfondo del succitato dittico, troviamo una piccola vela gonfia dal vento, mentre le figure che campeggiano in primo piano sono fisse, immobili, così come lo sono i loro volti. Si tratta quasi di una topografia di volti, che appaiono come luoghi fissati su una carta; mentre, ad essere più umano, sembra proprio il paesaggio sullo sfondo, che esprime tutta la sua dinamicità, la sua motilità, in quella minuscola barca a vela mossa dal vento. La pittura ha così, in un certo senso, territorializzato il viso e “viseagizzato” il paesaggio.

Ultima modifica il Lunedì, 18 Aprile 2016 16:15
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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