Quello era il momento perfetto per lasciare. Il nome Blondie era già impresso nella storia del rock, erano già state scritte canzoni celeberrime quali “Maria”, “The Tide is High” o “Heart of Glass”, erano già stati fatti soldi a palate. Persino i detrattori ammettevano la loro grande influenza grazie alla loro innovativa commistione di rock e dance che ha fra l’altro aperto la strada a tutto il synth pop. Come molte altre band leggendarie, però, neppure i Blondie sono riusciti a resistere alla tentazione di un ritorno sulle scene musicali. Come molte altre band leggendarie, la loro reunion alla fine degli anni ‘90 si è portata dietro di sé ben poco se non un progetto musicale molto modesto e un certa dose di imbarazzo.
Da allora la band newyorkese non ha fatto altro che pubblicare materiale non del tutto deprecabile ma che sicuramente non aggiunge proprio niente a ciò che avevano precedentemente composto. Non fa eccezione l’ultima fatica del gruppo, il doppio auto celebrativo Blondie Forever (2014), un modo piuttosto sfarzoso per celebrare i 40 anni di attività. Nel primo disco è contenuto una versione Redux delux del loro Greatest Hits, si tratta di 11 dei loro pezzi più celebri su cui però pesa la mancanza di altri grandi classici e una ri-registrazione dei brani che tradisce molto lo spirito delle incisioni originarie. Meglio allora procurarsi la ben più fedele e comprensiva raccolta di singoli (Sigles collection) .
Ma veniamo a ciò che qua ci preme maggiormente: il secondo disco dove è contenuto Ghosts of download il loro decimo e ultimo album da studio con materiale totalmente inedito.
Occorre non farsi illusioni, anche in questo caso, il contenuto è poco più che mediocre. Il disco si apre subito alle più svariate ed eterogenee influenze mostrando una band indecisa sul da farsi: scappare da se stessa o continuare su una formula che ormai da molti anni non paga più? Incapaci di darsi un a risposta, l’album appare perdersi in direzioni disparate, senza alcuna idea collante che tenga unite le tracce sotto un comun denominatore. Risulta una serie di idee e frammenti senza capo né coda.
Sia chiaro, non tutto è da buttare. A fianco infatti di scialbe composizioni dance rock, come “Mile High” o la piaciona “Winter”, stanche imitazioni dei loro classici, senza mordente, con strutture sonore del tutto prevedibili ed irritanti, si ergono una serie di tracce frutto della collaborazione con altri artisti che sembrano almeno parzialmente rivitalizzare la formula Blondie e spingere il gruppo verso sonorità del tutto nuove. Così le influenze hip hop e r’n’b latino americane su “Sugar on the side” a “Screwed up”, impreziosiscono le doti vocali della Harry con eleganti battiti dub e calde atmosfere caraibiche spingendosi verso i terreni affini ai Poliça. Indubbiamente su tutto emerge un lato fin qui nascosto ed inedito della band: quello di un r’n’b dai tratti caldi ma oscuri ed elettrici che potrebbe rappresentare il loro prossimo futuro. Canzoni come “I Want to Drag you Around” e “Euphoria” sembrano quantomeno dare segnali di evoluzione rispetto a quel susseguirsi impacciato di banali tentativi (peraltro delusi) di hit radiofoniche (“Take me in the Night”, “Make a Way”, “Backroom”).
Resta un ambiguità di fondo che difficilmente è risolvibile dopo ben 40 anni di carriera. La sensazione è che sia rimasto poco da dire. Dovremmo abituarci ad ascoltare i loro nuovi dischi per il poco che hanno da offrire. Oppure recuperare i loro vecchi album, ricercare le radici del loro successo, riflettere sul loro ruolo nella nascente musica dance. Sembra proprio uno di quei casi in cui filologia e storia siano materie ben più pressanti ed interessanti rispetto al rimane fermi sulla mera attualità, la quale –nel caso dei Blondie – non ha poi molto da dire.