Martedì, 23 Aprile 2013 00:00

Knife: controversi e imprevedibili suoni underground

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Fra i gruppi di culto underground emersi negli anni zero, gli Knife rappresentano uno dei fenomeni musicali più controversi ed imprevedibili. Come tanti altri paladini contemporanei del suono alternativo (ma lontani da vuoti sperimentalismi), quali Interpol, The xx e Arcade Fire, gli svedesi Olof Dreijer e Karin Dreijer Andersson, attingono a piene mani dal calderone anni ottanta per poi reinterpretare certe sonorità tipicamente eighties in maniera originale e personale.

La proposta Knife può essere di fatto riassunta in un connubio riuscito del synth pop- electro pop anni ’80, in particolare quello di Gary Numan e Pet shop boys, con un gusto per il tagliente, il freddo, il decadente che li avvicina maggiormente e certi sperimentalismi in area trip-hop. Il cantato, del resto, non è troppo lontano da quello di Bjork, tuttavia, nonostante una comune predisposizione per un cantato reso da vocalizzi glaciali, gli Knife esasperano l’elemento epicheggiante, pacchiano e kitsch andando volutamente alla ricerca e spesso superando quel labile confine che separa l’avanguardistico dal tamarro, scherzando sull’ambiguità stessa del nostro modo di ordinare la realtà sensibile.

La musica degli Knife, insomma, richiama il nome stesso del gruppo: tagliente e spigolosa come un coltello, unisce il calore del sangue che sgorga con il freddo che si percepisce dopo una ferita arteriosa procurata da un arma contundente. Se a queste caratteristiche apparentemente inconciliabili aggiungiamo anche l’opposizione fra il materiale, il sensoriale dello stato corporeo che la loro musica ha sempre provato a restituire, tramite sonorità ballabili ma solo in maniera maniacale, esasperata, scomposta, con il culto estetizzante del sublime, del magico e dell’esoterico, che anch’essa anima il progetto Knife, sempre proiettato verso il diverso e il misterioso, abbiamo un immagine di massima dei primi tre album del duo svedese, quelli che fotografano la fase classica del gruppo: si tratta dell’omonimo the Knife (2001) e dei non meno ispirati ed espliciti, fin dal titolo, Deep cuts (2003) e Silent Shout (2006), memorabili per i vocalizzi infantili di Pass this on, We share our mother earth e Kino, quest’ultima filastrocca orientaleggiante che degenera in pomposi beat da festa erasmus da stereotipo del trash, per le spavalde cavalcate electro di Heartbeats, Girls’ night out e You take my breath away sorrette da fiumi strabordanti di battiti elettrici frenetici, per le ombrose e claustrofobiche composizioni sintetiche (su tutte: Silent Shout) ma anche per le malinconiche ballate elettriche di N.Y. Hotel e Marble House.

Il progetto Knife comincia a cambiare rotta a partire da Tomorrow, in a year (2010), di fatto la colonna sonora di un opera teatrale di balletto moderno, di difficile ascolto e comprensione senza il supporto visivo originale ma che già fa intravedere lo slittamento della band svedese verso composizioni lunghe ed elaborate. Così, il successivo e nuovo Shaking the habitual (2013), rinnova profondamente le ambizioni e le sonorità del duo, proponendo 13 brani per più di un’ora e mezzo di musica caratterizzata dalla quasi totale mancanza dei ritornelli diretti e ballabili presenti nei lavori precedenti. Nell’estetica Knife, il freddo pare avere avuto definitivamente la meglio sul caldo, l’elemento del mistero e dell’estraneità su quello della prossimità fisica.

Il culto del diverso subisce esso stesso comunque una traslazione geografica: dalla cultura dell’estremo oriente a quella tribale africana, restituita dai ritmi marziali e percussivi dei sintetizzatori e dalla voce di Karin che riduce al minimo i suoi celebri acuti infantili (con la dovuta eccezione di Without You My Life Would Be Boring, non a caso una delle canzoni più vicine ai “vecchi” Knife) per assumere cadenze ben più apocalittiche. Pieno di silenzi e vuoti rumoristici (i quasi 20 minuti - piuttosto inutili - di Old Dreams Waiting to be Realized e Raging Lung) e di brevi intermezzi altrettanto trascurabili (Crake, Oryx), l’album
acquista forma compiuta solo se si ha la pazienza di ascoltarlo dall’inizio alla fine, nonostante in fondo, siano composizioni quali Wrap Your Harms Around, gioiello para-sinfonico dall’oscura epicità o Networking, selvaggia, primitiva e frenetica danza di guerra, a conferire il giusto dinamismo al tutto. Esperimento parzialmente riuscito, piuttosto innovativo nel connettere world music, sperimentalismo ed elettronica europea, manca paradossalmente dell’elemento più caratteristico degli Knife, cioè la capacità di non prendersi mai troppo sul serio e di dare vita a composizioni sbilenche con frequenti cambi di ritmo e di umore.

Incredibilmente, o forse non troppo, l’aver delineato un progetto compiuto e compatto, rinunciando al loro tipico stile postmoderno frammentario e dispersivo, dove tutto diventa sempre il contrario di tutto, sembra rendere gli Knife più innovativi del punto di vista della capacità di esplorare nuovi generi e forme musicali ma anche più prevedibili dal punto di vista dello stile tramite il quale ogni canzone viene interpretata. Restano comunque fra i più grandi esponenti dell’elettronica europea.

Immagine tratta da www.nme.com

Ultima modifica il Martedì, 23 Aprile 2013 00:00
Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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