Lunedì, 27 Novembre 2017 00:00

De-estinzione: miti e realtà della resurrezione di specie estinte

Scritto da
Vota questo articolo
(4 Voti)
De-estinzione: miti e realtà della resurrezione di specie estinte www.oscars.org

Il recente ritrovamento di un cucciolo di leone delle caverne perfettamente conservato nel permafrost per più di 20.000 anni ha riportato alla ribalta un tema controverso, ossia la possibilità di riportare in vita specie estinte attraverso la clonazione. Se fino a qualche anno fa questa possibilità era relegata all’ambito della letteratura fantascientifica, le tecniche molecolari sono giunte a dei livelli tali da renderla uno scenario plausibile. Tuttavia, prima di immaginare che Jurassic Park divenga realtà, è il caso di prendere in considerazione alcuni elementi cruciali.

Studi basati sul DNA antico sono ormai piuttosto comuni, e ci hanno permesso di ricostruire con maggiore precisione le relazioni evolutive non solo tra diversi ominidi, ma anche tra specie estinte di orso, tra le tigri dai denti a sciabola e i felini attualmente viventi; tuttavia il DNA antico è, con pochissime eccezioni, di pessima qualità, degradato e spezzettato. Mentre agli albori della tecnica ci siamo convinti di essere riusciti ad isolare sequenze leggibili di DNA di dinosauri o di batteri ancora più antichi, oggi sappiamo che si trattava di contaminazioni e che il DNA tende a degradarsi secondo un processo di decadimento esponenziale, che in pochi milioni di anni lo conduce normalmente ad essere completamente degradato. Ad oggi sappiamo che è estremamente implausibile ottenere sequenze leggibili da campioni più vecchi di poche centinaia di migliaia di anni – e anche entro questo intervallo temporale si tratta di un processo complicato e molto delicato. Se alla fine ci troviamo con una sequenza genica utilizzabile, si tratta di un segmento da poche centinaia di basi, che possiamo utilizzare per ricostruire le relazioni evolutive tra organismi vissuti in differenti periodi, ma sicuramente non per clonarli: la clonazione di un organismo necessita di avere un genoma completo, che nei mammiferi si aggira intorno all’ordine di grandezza dei miliardi di basi. L’idea alla base di Jurassic Park, di clonare organismi partendo da DNA antico, magari corretto con interpolazioni da organismi simili tuttora viventi, è in linea generale inapplicabile, anche per specie molto più recenti dei dinosauri. È qui che entrano in gioco gli animali congelati nel permafrost, che grazie alle temperature estremamente basse hanno un DNA conservato molto meglio di quel che farebbe pensare la loro età.

In effetti, alcuni esemplari di mammut contengono DNA di qualità tale da permettere un sequenziamento completo del genoma, che a sua volta fa pensare che la clonazione non sia, in fondo, tanto lontana. E con lei, il ritorno del mammut. La stessa cosa, suggeriscono gli entusiasti della de-estinzione, si potrebbe fare con altre specie conservate nel permafrost, come il leone delle caverne e il bisonte della steppa, ma anche con specie conservate meno bene, ma estinte più di recente, come il lupo marsupiale, il moa, il quagga, il cavallo selvatico europeo e l’uro.

E in effetti siamo già riusciti a far de-estinguere una specie, anche se in apparenza meno spettacolare degli enormi mammiferi dell’era glaciale, meno unica del lupo marsupiale e meno iconica dell’uro. La specie è in realtà una sottospecie, lo stambecco dei Pirenei, che nel corso del 1900 andò incontro ad una drastica rarefazione, con la morte accidentale dell’ultimo esemplare esistente, una femmina, nel 2000. A partire da tessuti dell’ultimo stambecco dei Pirenei si è tentata la clonazione, inserendo i nuclei di cellule somatiche in cellule uovo di capra, e innestando gli embrioni agli stadi iniziali nell’utero di capre e stambecchi europei; dei numerosi tentativi, solo uno è andato a buon fine, concludendosi nel 2003 con la nascita di un piccolo stambecco morto pochi minuti dopo a causa di un difetto congenito ai polmoni. Quindi sì, siamo riusciti a far tornare indietro una specie estinta. Per circa dieci minuti. Questo in presenza di tessuto che era stato conservato in maniera ottimale per questo tipo di esperimento, e a seguito di un gran numero di tentativi falliti. È abbastanza semplice immaginare quale possa essere il successo di questo tipo di esperimento utilizzando nuclei di cellule di mammut innestati in cellule di elefante indiano, come alcuni suggeriscono, ottenuti a partire da tessuto che è stato conservato per ventimila anni (non due o tre) in un ambiente molto più caldo e molto più variabile di un freezer a -80 °C. Infatti gli stessi fautori della resurrezione del mammut hanno intenzione di utilizzare il genoma sequenziato non per clonare un mammut, ma per inserire nel genoma di un elefante indiano, il più vicino parente attualmente esistente, le mutazioni che conferivano al mammut la sua resistenza alle basse temperature. L’idea più praticabile, quindi, non sarebbe tanto quella di risuscitare il mammut, ma di ricostruirlo.

A monte della fattibilità pratica della de-estinzione, la domanda più importante è però se ne valga la pena. Possiamo tranquillamente affermare che difficilmente faremmo un favore alle grandi specie dell’era glaciale riportandole in vita in un periodo di riscaldamento globale, in cui anche il loro habitat è scomparso ormai da millenni; e che questo tipo di proposte è tanto efficace a livello sensazionalistico quanto privo di qualsiasi significato dal punto di vista conservazionistico. Sembrerebbe, invece, più utile cercare di riportare in vita specie estinte da relativamente poco tempo, la cui scomparsa dipende principalmente da attività umane, come il lupo marsupiale o per l’appunto lo stambecco dei Pirenei, anche considerando le difficoltà intrinseche in questo tipo di progetto.

Eppure la clonazione non sembra essere una proposta particolarmente sostenibile: difficilmente sono disponibili molti esemplari conservati con tessuto in condizioni sufficientemente buone da permettere questo tipo di processo, e se pure riuscissimo ad ottenere numerosi esemplari a partire da uno stesso campione, la popolazione sarebbe completamente uniforme dal punto di vista genetico. È ben noto che una popolazione naturale ha bisogno di una certa diversità genetica per autosostenersi, e che popolazioni la cui diversità è stata ridotta la pagano con una drastica diminuzione di fertilità e vitalità della prole. È stato suggerito che in alcuni casi si può ovviare a questa uniformità attraverso incroci programmati con animali simili – e in qualche modo è già stato fatto, anche senza clonazione; ma tecnicamente, anche in questo caso, più che risuscitare la specie estinta, staremmo cercando di ricostruirla.

A monte dei problemi tecnici, comunque, rimane un ostacolo ancora maggiore: non ha senso risuscitare – o reintrodurre – una specie se non sono venute meno le cause per cui si è estinta. Alcune specie esistono ormai soltanto negli zoo, a causa della completa distruzione del loro habitat naturale: è il caso del cervo di Padre David, che al momento della sua scoperta, nel 1866, era già confinato ad una riserva di caccia dell’imperatore della Cina, o dell’ara di Spix, di cui esistono ad oggi solo ottantacinque esemplari, tutti in cattività. Per molte di queste specie non è stata tanto la caccia, quanto la distruzione dell’habitat a determinare la scomparsa: i bisonti, gli uri e i cavalli selvatici sono stati fatti scomparire in Europa dalla progressiva riduzione di aree di foresta non sfruttate dall’uomo, l’ara di Spix è stata portata all’estinzione non solo dalle catture sfrenate, ma anche dalla deforestazione e dall’introduzione accidentale di api che sottraggono agli uccelli i cavi degli alberi in cui nidificano. Reintrodurre, o risuscitare, queste specie in un ambiente che non ne permette la sopravvivenza sarebbe miope e assolutamente non risolutivo.

Cosa vale la pena di fare, dunque? In maniera un po’ cinica, verrebbe da dire che in primo luogo è meglio concentrare sforzi e fondi sulle specie che ancora non si sono estinte, piuttosto che tentare con dubbio successo e ancor più dubbio significato la clonazione di specie estinte. In secondo luogo, e la cosa è ancora più importante, è fondamentale puntare sulla conservazione degli ambienti naturali in cui queste specie vivono.

Tutti gli organismi sono collegati da complesse relazioni, cambiano l’ambiente a loro circostante mentre l’ambiente influisce su di loro; cercare di far sopravvivere gli animali mentre si continua a danneggiare il loro ambiente significherebbe eliminare la possibilità di future reintroduzioni, e in definitiva trasformare gli zoo in musei di morti viventi. La conservazione ex situ degli organismi in cattività ha senso soltanto se coordinata con azioni di conservazione e di riqualificazione in situ dei loro ambienti naturali. Quando avremo di nuovo un ambiente in grado di garantire la sopravvivenza e la riproduzione allo stambecco dei Pirenei o al lupo marsupiale, allora, ammesso che sia possibile, avrà un senso cercare di riportarli indietro.

 

Immagine tratta da www.oscars.org

Ultima modifica il Sabato, 27 Gennaio 2018 23:56
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.