Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.
Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi
Un convegno emozionate e ricchissimo di riflessioni stimolanti e importanti, quello tenutosi il sei e sette novembre presso la Sala della Resistenza del Palazzo Ducale di Massa. Il ciclo di conferenze, dal titolo “Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi”, è stato organizzato dall’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” ed è nato da un’idea di Alessandra F. Cieli, una delle co-fondatrici e vice presidente dell’associazione stessa.
Dopo i saluti delle amministrazioni (il consigliere regionale Giacomo Bugliani e l’assessore Martina Nardi) e di Olga Raffo, co-fondatrce dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” si sono alternate moltissime relazioni. Non potendole affrontare tutte, ci soffermeremo su alcune della prima giornata di conferenze, moderate da Alessandra Pescarolo, dirigente dell’IRPET, esperta di sociologia e storia del lavoro e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche.
Daniela Lombardi, professoressa di Storia moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa e una delle massime esperte di storia del matrimonio e della famiglia col suo intervento ha sfatato una visione a volte forse mitologica e un po’superficiale che abbiamo della famiglia di oggi. Si parla infatti molto di crisi della famiglia, con toni molto accalorati e molto spesso si dimentica, quando si affrontano questi temi, di avvicinarsi ad essi con un approccio più storico che permetta di leggere anche la realtà attuale in maniera più lucida ed oggettiva. Se si guarda, ad esempio, ai dati ISTAT risalenti al 2012 sulla situazione delle famiglie italiane, ci si accorge che, nonostante appunto si tenda a denunciare in continuazione l’aumento di divorzi e separazioni, questi ultimi sono in leggera diminuzione. Certo occorrerebbe avere anche i dati degli ultimissimi anni per poter fare una stima completa. Quello che emerge in particolare è però soprattutto un calo dei matrimoni, sia religiosi che civili ma accompagnato da un aumento delle unioni di fatto, delle famiglie ricostituite e delle coppie omosessuali che chiedono con sempre maggior forza, giustamente, un riconoscimento giuridico della loro unione. Quest’ultimo fatto è un chiaro segnale che vi è ancora un urgente bisogno di esser riconosciuti come famiglie e che quindi il desiderio stesso della famiglia non sembra esser scomparso, anche se è quello che negli ultimi anni tendiamo a credere. Certo, che le famiglie o l’idea di famiglia siano cambiate non c’è dubbio, ma certe tendenze che noi consideriamo strettamente contemporanee in realtà non lo sono, per lo meno non tutte. siamo davanti, prosegue la Lombardi, a mutamenti epocali che non sono solamente di oggi, ma che hanno avuto inizio già a partire dagli anni ’70 del ‘900, non solo in Italia ma anche in molti paesi europei e negli Stati Uniti d’America. I cambiamenti più evidenti sono i seguenti: instabilità coniugale, separazioni e divorzi in crescita già dagli anni ‘70 e diffusione della contraccezione (fenomeno caratteristico degli anni ’70 che ha fatto sì che la procreazione non fosse più una fatalità ma una scelta).
Si fanno meno figli. In realtà si parla ancora troppo poco, soprattutto in Italia, di questo calo della natalità, presente anche nel sud e anche tra gli immigrati. Quest’ultimo aspetto significa che non esiste alcun collegamento con il lavoro femminile, tanto che se andiamo a guardare a un paese come la Svezia che detiene il più alto tasso di occupazione femminile, vediamo che lì il tasso di natalità è molto aumentato. Al contrario, sono proprio le difficoltà economiche che provocano un calo delle nascite e non tanto il fatto che ci siano più donne a lavorare.
Diritto di famiglia in Italia del 197 che ha portato ad alcune innovazioni importanti: la parità dei diritti dei coniugi; la stessa responsabilità, per entrambi i coniugi, nei confronti dei figli (la patria potestà, proveniente dal diritto romano, finalmente nel XX secolo, viene dunque abbattuta); parità dei diritti tra figli nati all’interno del matrimonio (i cosiddetti legittimi) e quelli nati fuori dal matrimonio (i cosiddetti illegittimi) e scomparsa dei termini stessi di legittimità/illegittimità nel riferirsi alla prole.
L’allungamento della vita e il calo delle nascite hanno inoltre portato a un cambiamento all’interno delle relazioni parentali: vi è una riduzione della parentela in senso orizzontale (cugini, fratelli, sorelle..) e un allargamento della parentela in senso verticale (bisnonni, nonni, nipoti..), tanto che alcuni sociologi hanno chiamato il XX secolo, “secolo dei nonni”.
Tutti questi mutamenti, ad ogni modo, contrariamente a quel che si pensa, non hanno portato alla fine della famiglia, nonostante la proliferazione sempre più numerosa di saggi con titoli apocalittici come “la morte della famiglia”, “La fine del matrimonio” e simili. La crisi della famiglia può essere ridimensionata proprio se acquisiamo uno sguardo storico attraverso il quale renderci conto che più che scomparire, la famiglia si è adattata a questi cambiamenti, ed è sopravvissuta per quanto in forme diverse dai secoli precedenti.
Altro mito da sfatare: molti si attaccano tanto all’idea della “famiglia tradizionale”. Ma che cos’è la famiglia tradizionale. Certo, per la Chiesa e per alcune forze politiche, la famiglia tradizionale è quella composta da un uomo e una donna, ma in realtà nel passato non c’è mai stata una “famiglia tradizionale” o un’idea di famiglia tradizionale. Ad esempio, non tutti si sposavano: il fenomeno dei single non è un motivo solamente di oggi; esistevano già fenomeni di convivenza o di concubinati, per quanto non fossero accettati dalle autorità religiose e secolari. Molto spesso ci si univa per solidarietà, soprattutto tra partners provenienti da ceti sociali poveri che dovevano fronteggiare difficoltà economiche, più facili da combattere che stando soli; l’instabilità stessa non è un fenomeno contemporaneo. Piergiorgio Curti (Associazione Lacaniana italiana di psicoanalisi) parla proprio di “instabilità strutturale” (ci sono vari esempi di fughe dal matrimonio, già a fine ‘600, come quella di Nicoletta Grillo). Un altro dato che è rimasto piuttosto costante è che spesso le domande di separazione venivano soprattutto dalle donne, in particolare per violenza maritale. Anche in questo dunque vediamo un parallelismo tra ieri ed oggi e ci rendiamo conto che questo fenomeno non appartiene soltanto alla nostra contemporaneità; altro aspetto di comunanza era l’esistenza di famiglie nucleari, soprattutto tra ceti poveri e un numero contenuto di figli stesso, spiegabile sia per la tarda età del matrimonio (26-27 anni) che per l’esistenza di metodi contraccettivi “naturali” (l’interruzione del coito.)
L’età d’oro del matrimonio, secondo i sociologi, si è avuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900, quando dopo il secondo dopoguerra si assistette a una fase di ripresa economica accompagnata da una nuova speranza e una nuova euforia generale. Quindi non è facile, andando a ritroso nel tempo della storia, trovare una chiara idea di famiglia tradizionale. Ricordiamo poi che nel passato la reale funzione del matrimonio era quella di stabilire alleanze, politiche, nel caso delle famiglie nobili o regnanti o economiche nel caso di famiglie di ceto popolare (unire due forze lavoro). quindi una “famiglia tradizionale” fondata sul reciproco interesse! È questa la famiglia tradizionale a cui ci si appella?! Sarà nel ‘700 che Rousseau teorizzerà, stabilendo così la cifra della modernità, il matrimonio come sfera intima, privata, fuori dagli interessi o ruoli pubblici, fondato sulla libera scelta degli individui che si uniscono e mirante a realizzare la felicità di ognuno dei suoi membri. La sfera della felicità privata, individuale viene dunque prima di quella pubblica, condivisa, fatta di ruoli e relazioni sociali.
Oggi, conclude Lombardi, che la speranza di vita per le donne è arrivata a 84, 4 anni per le donne e 79,9 per gli uomini (dati risalenti al 2013), come possiamo stupirci che i matrimoni durino di meno? Non sarà che forse si adeguano anch’essi a un’età della vita diventata troppo lunga?
Un altro dei molti interventi proviene da Elena Pulcini, docente di filosofia sociale presso l’Università degli Studi di Firenze. Nella storia filosofica dei sentimenti, esordisce la professoressa, sicuramente Jean-Jacques Rousseau ha svolto un ruolo significativo, addirittura è stato colui che, come già aveva accennato Lombardi, si può dire abbia dato origine a un archetipo moderno: il matrimonio come una sfera intima, privata, che unisce due soggetti per loro libera scelta e per perseguire la propria felicità individuale. Come, quando e perché nasce la famiglia fondata sull’amore? Chiede Pulcini. Due aspetti fondamentali sono da considerare nell’ambito di un’epoca (il ‘700) come quella in cui scriveva Rousseau: la nascita di un nuovo codice affettivo accompagnata dall’intuizione dell’ambivalenza dell’amore e del soggetto amoroso e la riabilitazione della natura umana che configura un’antropologia positiva e introduce anche una riabilitazione delle passioni e della dimensione corporea. La sensibilità diventa infatti fonte di una nuova identità e fonte stessa della felicità. Il ‘700 è infatti proprio “il secolo della felicità” – tanto che vi è una proliferazione ingente di saggi, romanzi, libelli che hanno come tema proprio la bonheur. La felicità diviene quasi una massima kantiana, quasi un obbligo morale e giuridico, un imperativo antropologico: devi essere felice. È in questo secolo che viene infatti teorizzato e scoperto il diritto alla felicità posta sullo stesso piano degli altri diritti tradizionali quali la vita, l’eguaglianza e la libertà (addirittura nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America ratificata a Filadelfia nel 1776 essa compare come suo articolo iniziale: “Noi riteniamo che […]tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati […] di diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”). Idea inedita di felicità intesa come stato permanente, non come momento o stato d’animo provvisorio e fugace.
Tornando alle passioni, queste ultime sono riconosciute come fattore dinamico della vita psichica delle persone. Tuttavia non manca di notarne la potenziale pericolosità e ambivalenza. Esse devono essere “addomesticate”, ammansite, edulcorate e ridotte a sentimenti, per levigarne il carattere potenzialmente (auto)distruttivo. Da forze caotiche, disordinate, distruttive si trasformano (o devono trasformarsi) in sentimenti pacati, controllati, ordinati, domesticabili. Il sentimento diviene così quella giusta via di mezzo, quella mesotès di aristotelica memoria (In medio stat virtus sarà la traduzione scolastica del concetto greco citato) tra la fredda a calcolante razionalità (quella che caratterizzerà l’ homo oeconomicus), e la troppo calda e (s)travolgente passione. Tale è il nuovo codice degli affetti in cui è possibile rintracciare la cifra della modernità. Charles Taylor (filosofo e sociologo canadese) ha persino identificato il sentimento come “il perno della cultura della modernità” . è sul codice del sentimento che si fonda la visione della famiglia come sfera intima, affettiva, in contrapposizione a una sfera pubblica oggi sempre più dominata dalle leggi del mercato e del consumo, dalla competitività selvaggia e dalla ricerca del profitto a tutti i costi. Ad ogni modo è sul sentimento, nel 700, che viene a fondarsi l’amore e la sfera privata moderna, la famiglia moderna (sia coniugale che genitoriale/filiale). Non dunque la passione fonda la famiglia ma il sentimento, l’ amour-amitié, l’amore amicizia, o l’amore-stima, che risponde ad alcuni dei bisogni più urgenti e forti dell’essere umano: il bisogno di affettività e diritto dell’individuo di scegliere il partner che ritiene più adeguato; il bisogno della durata, della sensazione di avere qualcosa di duraturo e stabile nella propria esistenza; una coesione interiore e una condivisione forte con la dimensione collettiva. Il sentimento però non è qualcosa di innato, ma lo si conquista non senza un a volte dilaniante conflitto interiore che può portare persino alla scissione del sé. La passione infatti rimane comunque, una forza vitale, necessaria per la costituzione stessa dell’identità. Nel romanzo di Rousseau, “La nuova Eloisa” (titolo ispirato dall’amore tra Abelardo ed Eloisa appunto), la protagonista, Julie, si innamora appassionatamente del proprio precettore ma rinuncerà a questa passione, questo “amour fou” per sposare un uomo attempato che le consentirà però di tenere insieme la dimensione soggettiva e la dimensione pubblica. Preferisce una tranquilla serenità a una passione travolgente ma pericolosa e “condannabile”. Sicuramente l’amore-passione può avere delle conseguenze distruttive: isola gli amanti relegandoli in una dimensione un po’ovattata, fuori dal mondo, dalla società, dalla dimensione pubblica, amore focoso, senza misura che vive e si alimenta solo di sé stessa, passione che si riempie solo di sé stessa e si nutre solo di sé; non è duraturo né stabile, è una vertigine, un uragano, una tempesta, un vortice che trascina potentemente i due amanti con sé ma che una volta esaurito rischia di annullarsi del tutto, fuoco che una volta spento diventa solo fumo e cenere; può portare, anch’esso, alla scissione del sé.
Tutto questo, accade comunque soltanto all’interno del soggetto, si tratta di un conflitto tutto interiore, tra l’io e l’io e non in nome di norme imposte o sancite dalla comunità, dalla collettività. È una lotta lacerante tra esigenze e bisogni diversi di uno stesso io, che se da una parte si sente animato da una passione che lo scuote, che lo riempie, lo colma, una passione che innalza la vita ai suoi massimi livelli, dall’altra sente l’esigenza di una pace interiore ed esteriore, di un equilibrio tra la sua dimensione individuale e quella collettiva, che se da una parte sente la vita in maniera più forte del normale quando avverte dentro di sé un desiderio desiderante, il desiderio stesso che si alimenta di se stesso, dall’altra anela una stabilità affettiva ed esistenziale durevole e sicura, una comodità su cui adagiarsi tranquillamente e quietamente. Se da una parte è la passione a tenerlo vivo e ad accendere la miccia del suo sentire, del suo provare sensazione, dall’altra teme la propria distruzione, la propria rovina come soggetto e come persona inserita in un contesto sociale e aspira a una coesione interiore ed esteriore. Altra novità riscontrabile nel testo del filosofo francese è la dignità conferita alla donna, che acquista valore di soggetto. Attenzione però, per quanto apprezzabili potessero essere le intenzioni dell’autore nel delineare questa nuova dignità, suo malgrado essa ha contribuito a far introiettare la figura femminile come quella dedita all’altro e alla cura degli affetti, fuori dalla dimensione pubblica. Per Rousseau infatti la donna è soggetto, sì, ma è soggetto destinato ad essere per l’altro: un soggetto altruistico, dedito appunto alla cura dell’altro, un soggetto oblativo, che annulla la dimensione del sé più proprio e individuale.
La donna è moglie e madre, è colei che gestisce la sfera degli affetti e delle relazioni familiari, dunque colei che deve occuparsi della sfera privata. Tale visione ha lasciato le sue tracce anche nella modernità: la donna ha il potere di unire, di tenere insieme, di gestire i sentimenti e le relazioni, ma finisce così di esser relegata nel chiostro della dimensione privata e l’esclusione dalla sfera pubblica, concessa soltanto all’uomo. Questa costruzione dell’immagine della donna si traduce anche in un’evitabile perdita del diritto al pathos e all’eros: per gli uomini le passioni sono rivendicate come un diritto, una forza, una connotazione positiva, eroica, mentre nella donna tendono spesso a generare sensi di colpa, e ciò si traspone anche nella sfera pubblica e collettiva, in quanto la società borghese condannerà sempre e solo l’adulterio femminile e mai, o di rado quello maschile – basti leggere romanzi come “La lettera scarlatta”, “Madame Bovary” o “La nuova Eloisa” stesso. In quest’ultimo vi è senz’altro una critica, da parte dell’autore all’amore fatale, a favore di un amore amicizia ma in realtà nello stesso tempo Rousseau sembra abbattere il mito della passione distruttiva, che porta alla morte del sé. Infatti il romanzo si conclude con un’emblematica frase pronunciata dalla protagonista, che lascia intendere che forse la scelta di sacrificare questa passione intensa per un quieto sentimento, per una quieta felicità, uno stabile e duraturo affetto non è del tutto fioriera di appagamento profondo. “La felicità mi annoia” dice Julie. Una frase che esprime una sorta di stasi inorganica, un’anestesia dell’io più vero e intimo, un’anestesia di ogni slancio vitale, una condanna a morte, muta e silenziosa della potenza della vita, un’apatia annichilente. Da questa felicità noiosa emerge un incolmabile vuoto dell’essere, che ha abortito una parte profonda di sé, che ha soppresso e ammutolito il desiderio irrequieto ma vitale e con esso ha perso la forza e lo slancio che se gettano l’io oltre o fuori di sé nello stesso tempo lo vivificano e lo fanno essere. L’io è desiderio o non è. È mero involucro di niente. La vita del soggetto desidera e desidera desiderare o muore di una morte lenta. L’io muore dentro perché uccide una parte di sé, la più viva, la più forte, la più vera, la più potente. L’io si adagia sul vuoto svuotandosi di passione e desiderio. La scelta di Julie ha dunque richiesto la rinuncia a una parte autentica del proprio sé e questo tradimento che l’io fa a sé stesso in qualche modo lo annienta. Perché Julie avverte di aver perso qualcosa. Avverte di non sentire. Avverte che la sua felicità l’annoia, non la appaga. Avverte di aver perduto l’io autentico e profondo che la faceva sentire viva. Forse non felice ma di fatto, viva. Il problema di Julie sta nel suo non riuscire a tenere insieme l’amore e la passione, il desiderio e il matrimonio, l’anelito di seguire l’uomo che ama e di cui, anche da sposata torna ad esser l’amante, e l’esigenza di essere rispettata pubblicamente, il desiderio instabile, continuamente in tensione e costantemente eccedente e il bisogno di stabilità ed equilibrio..è possibile, chiede la filosofa, trovare una sintesi virtuosa tra questi due poli così apparentemente inconciliabili? Già nell’800 cominciamo a vedere, che questo è possibile – si leggano ad esempio i romanzi di Jane Austen, in cui quasi sempre il lieto fine sancisce l’unione matrimoniale di un amore sincero e forte. Nel ‘900 poi il processo arriva a compimento, grazie in particolare all’emancipazione femminile, a una relazione tra sessi più libera da gerarchie.
In ogni caso, quel che Rousseau sembra aver voluto suggerirci è di riconoscere l’ambivalenza dell’amore e l’impossibilità di viverla pienamente o in maniera appagante e completa. La sfida, conclude Pulcini, è quella di imparare ad abitare e gestire tale ambivalenza senza fingere che non esista, consapevoli degli aspetti chiaroscurali, delle sfumature infinite, ambigue, perennemente in precario e vertiginoso equilibrio, delle emozioni e delle passioni e cercar di vivere, nella maniera possibilmente più libera e incondizionata, la ricchezza inesauribile di una piena “democrazia delle emozioni”.
“Così tra questa immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare”
Giacomo Leopardi
È toccato a un filosofo, e non a un fisico o ad un astronomo concludere l’affascinante ciclo di conferenze, dal titolo “La luce e il cosmo” che si sono tenute da lunedì 19 a venerdì 23 ottobre presso il Nuovo Auditorium di Piazzale della Resistenza a Scandicci. Perché un filosofo? In realtà in epoca antica filosofia e scienza (in particolare la matematica) si intrecciavano mirabilmente. Basi pensare ad Eratostene, ma anche a Talete, ai pitagorici... In ogni caso, fin dall’antichità il filosofo non smetteva di sondare il cosmo, le stelle, il cielo e la terra, da Eraclito, Tolomeo, Platone, Aristotele fino ad arrivare alla scolastica medievale. Certo, la visione cosmogonica di questi pensatori antichi poco o nulla rispecchiava del cosmo come lo conosciamo noi, grazie a scoperte scientifiche, fisiche e matematiche, che hanno avuto il loro apice con la cosiddetta rivoluzione copernicana.
"È proprio di ogni nuovo inizio di irrompere nel mondo come “una infinita improbabilità”: pure, questo infinitamente improbabile costituisce di fatto il tessuto di tutto quanto si chiama realtà.”
Hannah Arendt
Nell’ambito dei cicli di conferenze che si svolgono al Gabinetto Viessieux, lunedì 12 ottobre si è parlato del pensiero di una grande filosofa, Hannah Arendt. Dopo un appello contro le misere finanze del Gabinetto che, proprio a causa della mancanza di fondi non ha potuto purtroppo, pubblicizzare l’evento, il moderatore Stefano Berni, uno dei co-fondatori del gruppo Quinto Alto, presenta i relatori: Giuseppe Guida, professore di storia e filosofia al Liceo Rodari Cicognini di Prato, grande esperto di filosofia tedesca e di storia della filosofia (e filosofia della storia) e Agnese Della Bianchina, giovane dottoressa in filosofia e specialista del pensiero di Hanna Arendt, protagonista della tesi di dottorato.
Non ci sono parole per quello che è accaduto ieri ad Ankara, l’attentato terroristico durante una manifestazione pacifista, che ha costato la vita a 95 persone (per ora) e causato gravi danni a tantissime altre.
Non è passato molto tempo dall’altro, terribile attentato a Suruç - rivendicato poi dalle truppe dell’ISIS – che per sempre lascerà nei nostri occhi l’immagine straziante di quel selfie di giovani e giovanissimi che lanciavano un appello di pace e di speranza, per sempre interrotto dalla brutale violenza di chi la pace non la vuole. Ieri un altro messaggio di pace è stato abortito e quel che resta è una grande ferita che non riesce a sanguinare commenti, anche se dovrebbe. Una grande ferita che dovrebbe rimanere incisa in tutta la comunità internazionale. Quello che sta succedendo in Turchia non dovrebbe essere più tollerabile. Un capo di stato che vuole imporre tutta la sua autorità e che impedisce una convivenza pacifica con la comunità dei curdi, che fa di tutto per spazzare via il partito filo-curdo dell’HdP che lo scorso giugno, conquistando il 13% dei consensi durante le elezioni parlamentari è riuscito ad entrare in parlamento impedendo all’AKP di Erdogan di ottenere ancora una volta la maggioranza assoluta.
Molto si è parlato di scuola durante la serata di venerdì 18 settembre, nell’ambito delle iniziative e dei dibattiti di “Firenze Rossa e Solidale in festa” che in questi giorni si sta svolgendo presso l’SMS di Rifredi.
A parlarne sono stati Luigi Dei, Rettore dell’Università degli Studi di Firenze, Giuseppe Bagni, professore e membro del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), Marina Boscaino, insegnate, giornalista e aderente alla LIP (Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica), Alessia Petraglia, senatrice SEL e Fabrizio Dacrema, coordinatore Dipartimento Formazione e Ricerca CGIL. Gli insigni ospiti sono stati incalzati da un susseguirsi di domande provenienti da studenti delle superiori e dell’Università, in particolare dell’UDU e della Rete degli studenti Medi.
Tale formula ha reso possibile un confronto proficuo tra i rappresentanti della politica e della scuola e gli studenti, favorendo un’insolita sinergia e un prezioso confronto tra entrambe le parti.
In questi giorni stanno girando immagini sempre più dolorosamente lancinanti, agghiaccianti e persino disturbanti, della tragedia dell’immigrazione. Una delle più strazianti, che Il Manifesto ha anche scelto come foto sulla prima pagina, è quella di un bambino arenato sulla spiaggia, come un pesciolino sputato fuori dall’acqua. È a faccia in giù, il piccolo corpicino adagiato sulla sabbia, in una posizione così abbandonata e morbida che pare stia dormendo. E davanti il mare. Con le sue onde incessanti come gli cantasse una ninna nanna liquida. Ma quel bambino non si sveglierà mai più, le stesse onde che ora arrivano ad accarezzargli e lambirgli alcune estremità del corpo sono le stesse che ne hanno interrotto la vita. Tutte queste morti, tutte le morti in mare o per soffocamento in spazi microscopici in cui queste persone vengono stipate come topi perché non hanno abbastanza soldi per comprarsi il posto “in prima classe” nella parte superiore dell’imbarcazione sono di una drammaticità allucinante. Se esiste una forma adatta ad esprimere il dolore di queste traversate, di questo viaggio costantemente in troppo precario e vertiginoso equilibrio tra la vita e la morte, di un’esistenza ferita dalle bombe, dalle persecuzioni, dalla miseria, forse questa forma è quell’urlo disperato di una donna siriana che aveva appena appreso della morte del figlio. Un urlo che ci ha fatto venire i brividi, forse, mi auguro, anche al leghista più radicale.
Parlare della scuola è un po’ come parlare della teoria della relatività. Ci sarebbero da dire mille cose e mille altre vi si potrebbero collegare e soprattutto bisognerebbe essere veramente e pienamente informati. È un macro argomento difficile da trattare, così come è difficile entrare a fondo anche in una sola delle sue infinite “sottoaree”. Vorrei però dire qualcosa riguardo a un recente dibattito che si è aperto in seguito al polverone suscitato da un articolo di Feltri sul Fatto Quotidiano, concernente l’utilità o meno delle facoltà umanistiche. Entro in questo tema perché forse lo sento un po’mio, un po’ vicino a me, essendo io una studentessa di filosofia, dunque di una facoltà umanistica. Il suddetto Feltri sosteneva la pressoché totale inanità degli studi umanistici o ad essi relativamente affini, come anche scienze politiche (o per lo meno credo includesse anche quelli), rispetto a facoltà più direttamente e chiaramente proiettate in maniera più netta e (quasi) automatica (certo, con tutta la difficoltà del momento, della crisi ecc..) verso il mercato del lavoro, quali ad esempio medicina, ingegneria, giurisprudenza. Certo, si tratta effettivamente di facoltà che hanno uno sbocco lavorativo molto più definito e logicamente immediato. Se studio medicina è abbastanza automatico che la mia aspirazione sia quella di diventare un medico o di lavorare comunque entro quell’ambito e presumibilmente sarà quella la mia realizzazione lavorativa. Poi ovvio, ogni persona è diversa e i cambi di rotta nella vita sono frequenti e imprevedibili, anche in quei cammini che appaiono più unidirezionali o talmente scolpiti, che poco spazio lasciano, per lo meno apparentemente, a possibili deviazioni.
Quando invece si parla di studi umanistici, escluso l’insegnamento, che pare/appare l’unica strada perseguibile (benché molto impervia e scalcinata... ma avremo modo di parlare un po’ anche di questo, guardando soprattutto all’ultima riforma della scuola), per lo meno per quanto riguarda facoltà sotto lettere e filosofia, oppure la ricerca (che però in Italia spalanca uno scenario abbastanza inquietante), sembra non ci siano altri ambiti in cui i laureati uscenti da simili facoltà possano essere impiegati, o soprattutto valorizzati per le loro competenze, abilità e conoscenze, se non a costo di fare un lavoretto probabilmente sotto pagato e che tendenzialmente c’entra abbastanza poco con i loro studi. Sicuramente lo studio umanistico o anche quello di scienze politiche ha una “personalità” più sfilacciata, più sfumata, più complessa ma anche più vaga rispetto alla chiara formazione di studi ingegneristici o di medicina o di giurisprudenza. Per dirla brevemente, a un letterato gli si può far fare quasi tutto o quasi niente. Il problema è proprio che tra questi due estremi sembrano non esistere più quelle buone vie di mezzo (la meòtes, il giusto mezzo per dirla con Aristotele, anche se per lui era in senso etico più che altro – perdonate la deformazione professionale!) che forse esistevano per generazioni precedenti alle mie; adesso invece, mi pare, che come estremo venga scelto soprattutto il secondo, cioè il “quasi niente”.
All’età dei miei genitori frequentare facoltà umanistiche era motivo di orgoglio e non di vergogna o di panico per il futuro e una laurea in lettere, in storia, in filosofia poteva sfociare non soltanto nell’insegnamento, ma anche in altre e significative carriere. Molti dei giornalisti, critici, opinionisti importanti e anche di politici hanno lauree umanistiche o in scienze politiche alle spalle ad esempio, e non tutti nascono come ingegneri, o matematici, o economisti. Ma al di là di questo, ciò che sto dicendo è che penso che il problema stia tutto in quanto lo Stato riesca a rendere appetibili questi studi anche in vista di una loro immissione nel mondo del lavoro. E se si vuole cercare di difenderli, concentrarsi solo sui dati, per quanto sia essenziale e doveroso farlo, mi sembra un po’depistante e quasi auto lesivo, inconsapevolmente controproducente, perché si potrà dire tutto quello che si vuole ma sarà dura ammettere che un letterato, oggi come oggi, guadagni più di un ingegnere o abbia pari opportunità nel trovare un lavoro adeguato alla sua formazione. Anche tirare fuori dei dati che dimostrano che in ogni caso chi ha una laurea in lettere guadagna comunque di più rispetto a un diplomato non mi sembra un ragionamento così efficace per stimolare qualcuno a non trascurare immediatamente la possibilità di seguire studi umanistici, perché sì, va bene, magari guadagnerà più che se avesse soltanto un diploma o nemmeno un titolo ma rimarrebbe comunque più attratto da una facoltà che gli garantirebbe in maniera più automatica e quasi scontata uno stipendio ben più alto, sia rispetto a quello di un insegnante sia rispetto a un qualsiasi lavoro minimamente più vicino a studi umanistici o politologici.
Secondo me se ci si concentra solo su un discorso di numeri, oggi, guardando all’impiegabilità e alla retribuzione di chi ha intrapreso studi umanistici, paradossalmente e nostro malgrado non si farebbe altro che regalare la corona di alloro a chi ha scelto di fare studi di medicina, ingegneria ecc..ed è inutile dire “eh però meglio comunque quella laurea che niente”! no, non va bene, rimane comunque un ragionamento al ribasso! Il problema invece, a mio avviso è proprio il fatto che tendiamo ad abbassare l’asticella fino alla sola soglia del sopportabile fingendo che sia un grosso vantaggio o il massimo cui poter aspirare, il meglio da aspettarsi, mentre è solo il minimo! In tal modo perpetriamo la convinzione che non si possa pretendere di ridare piena dignità e meritata legittimazione a qualcosa che invece dovrebbe pretenderle, perché questa dignità e legittimità ce le ha di per sé stessa. Non voglio che alcune persone (sempre meno) continuino a scegliere studi umanistici solo perché è comunque meglio che non avere alcun titolo, ma piuttosto perché riconoscano l’importanza e l’interesse di quegli studi, la loro preziosità, la loro indispensabilità. Ma, di nuovo, la colpa, o meglio, la causa, non è in chi ormai sceglie queste facoltà solo perché va bene avere un qualsiasi titolo piuttosto che niente e magari non si ha voglia di studiare materie che ci sembrano (ma anche questo è spesso un luogo comune) più faticose o difficili, la colpa è in uno stato che non dà pieno valore e merito a quelle facoltà e quindi non le rende abbastanza appetibili, sia in termini di ambiti e spazi (lavorativi) in cui esse potrebbero sfociare, sia in termini di retribuzione all’interno del “mercato del lavoro”. Fintanto che sarà il governo in primis a non riconoscere come risorsa fondamentale lo studio umanistico, sarà automatico che tali facoltà si svuoteranno sempre di più e che si impoveriranno, sia a livello di chi le frequenta che, di riflesso, a quello di offerta formativa, poli che vanno a creare un circolo vizioso che si “divora” vicendevolmente (detto in soldoni: se ormai io scelgo una facoltà umanistica non per reale e sentito interesse ma solo per avere un titolo considerato “più facile” non sarò così portato allo studio di quelle materie e nel momento in cui si abbasserà sempre di più il livello degli studenti che vi si iscrivono si abbasserà anche il livello preteso dai docenti che diventerà sempre più mediocre..ovviamente io parlo a livello tendenziale, per fortuna continuano a esserci menti notevolmente brillanti, ma il loro destino, spesso, per non rimaner frustrate o oscurate, e riuscire ad espandere la loro luce, ottenendo delle meritate gratificazioni – personali ed economiche – è quello di emigrare all’estero). Se non si creano ambiti lavorativi in cui il valore di queste facoltà possa non solo essere valorizzato e riconosciuto come meriterebbe, ma anche adeguatamente retribuito, come accade in altri paesi che investono molto più di noi (in cultura, ricerca, formazione..) e forniscono a queste facoltà (insieme alle altre, certo!) molti più spazi e molte più possibilità/opportunità di sbocchi, in termini di spendibilità lavorativa.
La mia impressione è che invece in Italia, tendenzialmente, qualsiasi lavoro (se poi lo si trova), più aderente a uno studio umanistico sia depresso e deprimente, frustrato e frustrante, economicamente ma anche emotivamente, sul piano della gratificazione personale, perché molto spesso accade che le menti “umanistiche” vengano subusate rispetto alle loro reali capacità, rispetto alla possibilità di espressione e di messa in pratica di queste ultime e rispetto a un tipo di impiegabilità effettivamente adeguata alle competenze in merito. Io non sto dicendo che medici, ingegneri, economisti, avvocati matematici e fisici non debbano essere adeguatamente retribuiti per il lavoro che fanno, che è altrettanto indispensabile e mai oserei metterlo in dubbio, ma non vorrei che ci fosse un abissale divario tra questi tipi di lavoro ed altri che non sarebbero poi così tanto da meno; si pensi anche solo allo stipendio di un insegnante, che, rispetto al carico di lavoro che svolge (in cui andrebbe compreso anche quello che si porta a casa!) e di responsabilità che ha, guadagna abbastanza poco; oppure si pensi a tutti coloro che vorrebbero fare ricerca o pian piano sperano di insegnare nelle università e queste ultime, a causa del problema dei blocchi del turnover, e dei continui e dissanguanti tagli che hanno subito e continuano a subire, non possono garantire quel tipo di percorso (in paesi più sani e lungimiranti si spende molto nella ricerca, visto che la vedono come una risorsa preziosa per la crescita culturale, sociale ed economica del paese stesso); si pensi a quanti di quelli che hanno fatto un dottorato in lettere, storia, filosofia ecc..che magari non sono andati all’estero rimangono frustrati o cadono in un limbo di cui non si conosce la fine.
E non deve diventare un ricatto o una costrizione il dover partire per un paese straniero in cui le mie competenze e il mio curriculum possano essere giustamente riconosciuti perché qui in Italia non li prendono in considerazione solo perché c’è scritto facoltà di lettere o simili. Il problema dunque, a mio avviso, sta nel riconoscere l’importanza della formazione umanistica senza svilirla rispetto agli studi scientifici e da qui di conseguenza renderla più appetibile anche sul mercato, ma solo aver preso coscientemente atto della sua importanza e necessità per arricchire (in tutti i sensi) il proprio paese e la propria società. Pertanto credo che, per quanto sentimentale possa apparire il discorso che mi accingo a fare, il dibattito non dovrebbe rimanere arroccato solo a numeri e statistiche (che andrebbero a mortificare ancor di più il possibile esito lavorativo di queste facoltà, secondo me), bensì dovrebbe spostarsi anche sul piano “ideologico”, su un piano qualitativo più che quantitativo. La vera forza degli studi umanistici è nella loro capacità di creare pensiero critico, analitico, riflessivo, forse maggiormente preclusa ad altre facoltà che hanno comunque altri meriti ugualmente indispensabili e preziosi. Gli studi umanistici formano coscienze critiche, esaltano il pensiero, l’anima razionale, come direbbe ancora Aristotele, che è la facoltà più alta e soprattutto l’unica che fa di noi degli esseri umani, l’unica che ci distingua dagli animali. Per Aristotele esiste un fine teleologico (un telos) in natura, che intrinsecamente, naturalmente, spinge ogni essere, ogni creatura, a partire dalle più piccole, come le piante, a mettere in atto ciò che essa ha in potenza, ciò che già essa è in germe, ciò che è nata per essere, e che è la sua caratteristica specifica, il fine specifico iscritto in essa. La sua donami/energeia, direbbe il filosofo.
E l’energia specifica, la potenzialità caratterizzante dell’uomo e quindi il suo fine, è quello di sviluppare la sua facoltà razionale, il suo pensiero, diremmo noi. Altrimenti rimane al grado di bestia o di mezzo uomo, perché non avrebbe raggiunto il suo scopo, non avrebbe messo in atto la sua dynamis, la sua capacità di essere ciò che è, non avrebbe realizzato ciò che in potenza già era. Marta Nussbaum direbbe che non avrebbe fatto fiorire la sua umanità. Non sarebbe fiorito, sbocciato come essere umano, anzi, dice lei, come persona. Ciò che fa di noi delle persone è proprio la fioritura di ciò che pensiamo, non soltanto in termini di pensiero raziocinante, scientifico, economico (il famoso Homo oeconomicus del pensiero liberale), ma un pensiero che mette a frutto e appunto fiorisca in tutte le sue infinite possibilità di applicazione. Pensiero filosofico, storico, artistico, emotivo, politico, critico..il pensiero ha uno spazio infinito di possibilità, non è unidirezionale, non è solo pragmatico, pratico, ma è entrambe le cose e gli studi umanistici, lontani dal dividere pensiero pratico e pensiero teoretico o analitico semmai offrono l’opportunità di farne il binomio migliore, perché è dal pensiero critico che può germogliare un pensiero pratico e pragmatico, è dalla messa in discussione del reale, dall’analisi dell’esistente e delle dinamiche che lo attraversano, delle strutture che si annidano dietro e dentro ai fenomeni, che si può mettere in atto delle azioni concrete, che si può operare una trasformazione o una “manipolazione” (in questo caso nel senso positivo del termine) dell’esistente stesso; è attraverso una formata capacità cognitiva e di ragionamento, da una allenata metodologia di analisi, di riflessione, di ricchezza argomentativa e di comprensione e soprattutto da una sviluppata competenza nello sviscerare i problemi per capirli al meglio, senza banalizzarli, che si può sperare di affrontare al meglio le dinamiche, i problemi e le domande cui ci mette di fronte la realtà, e poi trovare una soluzione concreta ed efficace ad essi.
È sorprendente quanto per lo più forse non ci sia resi abbastanza conto della gravità di un recente dato che è uscito riguardante l’analfabetismo funzionale, con cui, cito (da www.contropiano.org) “si designa l'incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Un analfabeta, […] non è capace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità […] Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.” Se si guardano le percentuali si nota in maniera allarmante direi, che – e cito di nuovo dalla medesima fonte – “il 47% degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare. Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.” Ecco, in questo senso secondo me è un dovere (ri)dare una piena legittimazione e un grande valore a determinati studi che contribuiscano a impedire fenomeni di analfabetismo, sia di analfabetismo funzionale che di analfabetismo di ritorno. Ed è un dovere prima di tutto istituzionale e politico perché da lì deve partire, ma bisogna poi che si affermi pienamente come dovere morale ed economico, come doverosa e imprescindibile spendibilità di simili studi nel mercato del lavoro. Un dovere anche morale e culturale che possa diffondere a livello di percezione comune l’assoluta imprescindibilità di materie che facciano germogliare le potenzialità del pensiero e le capacità di comprensione dei fenomeni del reale, che ci permettano una maggiore capacità di lettura di ciò a cui assistiamo e di ciò che viviamo, attraverso una conoscenza e una possibilità di assimilazione del nostro passato, di elaborazione e azione sul nostro presente che possano permetterci di essere più in grado di fare previsioni sul futuro o creare “visioni” e costruzioni di futuri possibili e sperabilmente più sostenibili (in tutti i sensi), rispetto a un futuro ben poco auspicabile come quello che sembra attenderci.
Le idee si partoriscono attraverso studi, letture, conoscenze che “coccolano”, stimolano e arricchiscono le nostre menti tirandone fuori le meravigliose potenzialità. Pensiero a senso unico o un'unica possibilità di applicazione del pensiero, creano visioni e riflessioni superficiali e piatte, semplicistiche e parziali. Creano coscienze vuote e sempre più povere, sempre più assuefatte allo scorrere di eventi di cui restano apaticamente e passivamente in balia, in quanto incapaci di afferrarli e di scandagliarli nella loro complessità. E più il mondo si fa complicato più è facile rimanere vittime inconsapevoli e impotenti nelle mani di chi approfitta di questa stessa complessità per manipolare la verità, perché nessuno o sempre meno persone avranno gli strumenti adeguati per capire quale sia effettivamente la verità, o per lo meno assumere che possano esistere concezioni/visioni del mondo (weltanschauungen) diverse o alternative all’unica che ci viene proposta e “iniettata”e che risulta sempre più automatico introiettare senza reale cognizione di causa. Pian piano perderemo la capacità di mettere in discussione ciò che ci viene detto, ci limiteremo a diventare spettatori passivi che non si faranno domande su quello cui assistono prendendolo solo o per del tutto buono o per del tutto cattivo, ma senza cercare alternative, senza realmente sapere cosa stiamo guardando. Prima ancora però delle facoltà umanistiche (o delle facoltà in generale) è la scuola che prima di tutto ha la suprema possibilità e responsabilità nell’aprire le menti, nel creare cervelli pensanti, nel far germogliare idee e interessi. Ed è allucinante che ogni riforma sulla scuola non abbia fatto altro che devastare, dissanguare e fare a pezzi (attraverso tagli scriteriati e indiscriminati, economici ma anche di materie scolastiche e personale didattico e ATA, sforbiciate in qua e in là, stipendi ai limiti, maestri unici, tre più due, sis, poi tfa. pas, concorsone..che non si capisce più niente ecc, ecc..) una delle istituzioni fondamentali e fondanti della nostra società, fino a darle il colpo di grazia con l’ultimo ddl scuola. Questo ultimo ddl rientra molto nel discorso che facevamo prima, ovvero di ragionare solo in termini di mercato del lavoro, che è doveroso prendere in considerazione, ma non se prima non si è presa consapevolezza dei meriti tangibili e intangibili di materie umanistiche (nel discorso di prima) o di un’istituzione come quella della scuola, il cui scopo non tanto o comunque non solo quello di creare futuri lavoratori, ma anche futuri pensatori. Fare di una scuola un’azienda nella mani del dirigente scolastico non rispecchia questa essenziale funzione della scuola. Farne una struttura così verticistica rischia di mortificare proprio il principale spazio di scambio di idee, di compartecipazione democratica, di pluralità di visioni, di ricchezza di insegnamento. È molto pericolosa, ad esempio, tra le altre cose, la figura manageriale che diverrebbe quella del preside per come è prevista nella legge 107/2015. Ogni scuola rispecchierà la visione che di essa ha il suo preside, ne sarà il suo riflesso. Certo, nei casi di un preside aperto al confronto e al dialogo, con docenti o anche studenti, la concezione della sua scuola sarà frutto di una condivisione e di una discussione plurale. Ma cosa succederebbe nel caso di un preside fascistoide per niente aperto al confronto con le altre forze che sostengono questa istituzione? È vero, in altri casi potrebbe invece trattarsi di un preside illuminato con un’idea di scuola fortemente positiva e condivisibile, ma è il principio che è sbagliato, perché alla radice c’è un’idea non più democratica della scuola ma preoccupantemente verticistica e gerarchica. Così come è altrettanto rischioso il “bonus” ad alcune scuole, che contribuirebbe a reiterare, riproducendole tra le diverse scuole, fratture e cesure già esistenti a livello di società.
Ad ogni modo, senza entrare nei punti specifici della “Buona scuola”, la mia impressione, a livello complessivo, è che questa riforma non faccia che creare una scuola/azienda che è la riproduzione in piccolo dell’attuale governo: struttura verticistica che parte dal potere dell’uomo solo al comando e che scende a grappolo verso le strutture via via inferiori ma annullandone la forza e la possibilità di partecipazione democratica; uno spazio omogeneo che cancella l’identità dei propri membri anonimizzandoli e omologandoli all’unico pensiero, all’unica visione, all’unica opinione possibile, che è quella del capo/padrone/manager/dirigente; uno spazio che anziché prendere forza anche e proprio attraverso la pluralità di idee di coloro che vi partecipano assorbe quest’ultima in un’unica voce unisona, giusta o sbagliata che sia, ma comunque unica mirante a soffocare qualsiasi altra voce che osi anche solo minimamente stonare o discordare dal coro; uno spazio che va a riprodurre i divari drammatici che spaccano la nostra società, anziché conciliare e provare a ricomporre quelle fratture creando un equilibrio più sostenibile, una giustizia più equa e anche una più equa distribuzione di opportunità per le diverse parti in gioco. Uno spazio pensato in questo modo va anzi ad esasperare e mettere sempre più in conflitto queste stesse parti, riproducendo quindi anche all’interno del mondo della scuola una preoccupante iniquità e una tensione conflittuale ed esasperata, simili a quelle che si continuano a perpetrare nel mondo del lavoro o nei contesti sociali in generale.
Rudy: “Come… qual è il 14esimo emendamento?”
Paul: “Lo Stato non può applicare alcuna legge che limiti privilegi o immunità a un cittadino.”
Avv. Washington: “Né può negare a qualsiasi persona, entro la sua giurisdizione, l’eguale protezione delle leggi.”
Rudy: “E cosa significa?”
Avv. Washington: “Significa che devono trattarvi come qualsiasi altro figlio di putt*na in questo stato.”
Da “Any Day Now”
Ieri sera alla televisione sono incappata in un’ottima pellicola indipendente americana, che non conoscevo affatto, ma che offre stimoli molto interessanti e ancora attuali. Il film, diretto da Travis Fine e che è stato presentato, ottenendo un buon successo all’edizione del Giffoni Film Festival 2013, si intitola “Any day now” ed è tratto da una storia vera, accaduta negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70.
“Resistete a colui che costruisce una piccola casa e dice: "qui sto bene"
resistete a colui che rientra a casa e dice: "dio sia lodato"
resistete al tappeto persiano dei condomini
all'ometto dietro la scrivania
alla società d'import-export
all'istruzione di stato
alle tasse
a me stesso che vi parlo
resistete a colui che per ore intere dal podio saluta le sfilate
resistete al presidente del tribunale
alle musiche, ai tamburi, alle parate
Lo scorso 29 giugno Palazzo Strozzi ha aperto le porte a un illustre ospite, venuto d’Oltralpe: il filosofo Jacques Rancière che, nella Sala Altana, ha discusso di “Modernità e finzioni del tempo”. La conferenza è stata promossa dall’Institut Francais Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Viessisux e il Gruppo Quinto Alto, nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari “Prospettive critiche”.
Dopo i dovuti ringraziamenti portati dalla Presidente dell’Istituto francese, Isabelle Malèse e del Gabinetto Viessieux, e dopo un breve contributo del professor Mario Citroni, ha preso la parola, per introdurre il prestigioso ospite, il professore di Estetica presso l’Università di Macerata Paolo Godani, moderatore della serata.
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