Berni, durante la sua introduzione si concentra in particolare su uno dei più noti e densi testi dell’autrice ebrea, “Vita Activa”, il cui titolo originale in inglese, era “Human condition”. La prima parte di questo libro si sofferma molto sul tema del lavoro, tematica fondamentale in filosofia politica e sociale. L’invito di Berni è quello di cercare di leggere questo testo del ’58, provando ad attualizzarne i contenuti in modo che possa fungere, per alcuni aspetti, come guida di lettura e di comprensione del nostro presente.
Collegandolo strettamente al suo concetto di lavoro, la Arendt affronta anche quello di natura analizzando il rapporto, per lei molto intrinseco che si crea tra di essi. Innanzitutto, prosegue Berni, l’autrice tedesca considera il lavoro non come un’attività ludica, bensì come necessità, fatica, sacrificio (tematica, questa del sacrificio molto legata a sua volta al cristianesimo), seguendo la scia di comunità primitive o antiche come ad esempio la Grecia, da cui lei stessa parte. Per gli antichi greci, ma anche per i romani il lavoro era sinonimo di schiavitù, si lavorava per qualcun altro, per un padrone, perciò non era visto come attività spontanea. Anche per gli indiani d’America, dice Berni, il lavoro veniva collegato alla sottomissione all’uomo bianco, e pur di non sottoporsi alle fatiche e ai sacrifici imposti dai conquistadores i pellerossa preferivano addirittura morire.
Per la Arendt inoltre il lavoro, come prima accennavamo, è inscindibilmente legato alla natura, l’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico, “l’uomo è un animale che per natura lavora”, come recita la massima del cristianesimo e da questo punto di vista, la filosofa sembra non riuscire ad affrancarsi del tutto da tale visione cristiana. Secondo Berni, però, questa concezione del lavoro come qualcosa di naturale rischia di risultare astorica. Infatti in una simile visione naturalistica manca proprio la dimensione ludica, spontanea all’interno della dimensione lavorativa, tutta schiacciata sulla natura e la necessità. Nell’ottica di Arendt questa concezione del lavoro è volta soprattutto per rafforzare l’aspetto della politica, vista come libertà: solo quando l’uomo potrà affrancarsi dalla fatica e dalla necessità del lavoro potrà prima ancora che filosofare, dedicarsi alla politica di cui la filosofa recupera l’aspetto ludico, libero, spontaneo, quotidiano. Questo momento della piena libertà dell’attività politica, però, secondo Berni stride molto con l’impostazione sociale della nostra contemporaneità, tutta improntata a un consumismo selvaggio e piegata a una politica finanziarizzata e burocratizzata e schiacciata sulla legge di mercato. Difficile, in un tempo come il nostro, recuperare questa dimensione di libertà, spontaneità, questa dimensione ludica della politica. Inoltre rompendo il rapporto dialettico che intercorre tra necessità e libertà (Spinoza parlava di una “necessità libera”) e riproponendolo come un e inconciliabile dualismo, in una radicale dicotomia che le oppone senza trovare un filo che possa tenerle insieme, ciò che va perduta, secondo il relatore, è proprio la dimensione ludica e spontanea che pure era presente anche nei greci. Secondo Berni ciò che forse rischia un po’idi sfuggire nelle analisi della filosofa è l’aspetto di agonismo invece molto forte nella polis greca. È vero che molto spesso il lavoro per i greci si collegava all’idea di schiavitù, ma l’idea stessa di libertà per loro era una dimensione ludica e necessaria insieme, dimensione che si ritrova in maniera chiara nell’ agon, nella lotta (intesa sia come sport ma anche come guerra), considerata fondamentale. Ma se dunque è l’agonismo al fondo di una tale dimensione ludica come può essere letta la politica? Secondo Berni in quest’ultima l’elemento agonistico permane eccome! La dimensione polemologica, si trasforma in una sorta di sublimazione in una dimensione politica, che pur mantiene, sebbene in maniera appunto, “sublimata” l’elemento conflittuale, di confronto. Per i greci la politica non è solo libertà ma contiene anzi un forte elemento di rischio, di conflitto. Concludendo, Berni ritiene che si dovrebbe un po’sfuggire da questo “giusnaturalismo” arendtiano in cui il lavoro si piega sulla natura e la “vita buona” diviene il risultato di un totale affrancamento dalle costrizioni e dalle fatiche del lavoro per aprirsi alla dimensione politica intesa come libertà piena e totale e recuperare invece una dimensione più agonistica che è consustanziale alla natura umana: “dobbiamo rovesciare il detto di Clausewitz per il quale la guerra non è che la politica continuata con altri mezzi e dire che, almeno per i greci, la politica è la guerra continuata con altri mezzi”.
Agnese della Bianchina si lancia in un suggestivo compendio, molto intenso e molto partecipato, di vari aspetti della personalità e del pensiero di Arendt. Donna coraggiosa, che ha sempre opposto alla passività e alla rassegnazione, complici delle più orrende nefandezze del genere umano la resistenza del pensiero, la forza del proprio essere presenti e del proprio agire, per trasformare e per intervenire attivamente nello svolgersi degli eventi per non lasciarsi passivamente trasportare da essi, subendoli senza opporvi resistenza, come vittime del sistema che però divengono complici di tale sistema stesso. Non bisogna pensare tanto a ciò che siamo ma a ciò che facciamo. Considerare il nazismo come un mostro non fa che creare un non coinvolgimento, non fa che inibire la nostra capacità di scelta e di (re)azione, ci porta all’impotenza rassegnata. E quel che deve altresì spaventare sono quei meccanismi sottili, silenziosi, striscianti, apparentemente innocui e “banali” che tanto si radicano e si inglobano nel nostro sistema tanto da essere accettati e persino legittimati. Un male mostruoso non è meno pericoloso di un male banale, perché quest’ultimo si insinua impercettibilmente dentro le nostre azioni e diviene un male accettabile, un male che perde la sua faccia di diabolica crudeltà, un male che non viene più considerato tale o che finisce per lasciare indifferenti e apatici. L’indifferenza è complice secondo Arendt. Ovviamente lei non ha mai voluto mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, ma ha sempre criticato l’incapacità di scelta e di azione, la rassegnazione ad accettare lo stato di cose esistente che hanno portato ai crimini più terribili della storia umana. Adolf Eichmann – gerarca nazista al cui processo, a Gerusalemme nel ’61, la Arendt partecipò e da lì scrisse “La banalità del male” - denotava un’assoluta mancanza di disagio nell’eseguire quegli orrori disumani, perché quello che faceva era obbedire agli ordini dei propri superiori e perché in Germania c’era un universale consenso al nazismo: per lui e per altri come lui, la propria azione era buona, non solo perché gli era stato ordinato di farla (e il suo dovere era eseguire gli ordini, senza porne in questione la giustizia o l’ingiustizia) ma perché era “legittimata” dalla coscienza collettiva, che a priori risulta buona perché comune, perché maggioritaria. Per Arendt oltre a riflettere sul ruolo del carnefice e sulla “banalità del male” commessa da personaggi apparentemente insulsi, insignificanti che si sono macchiati dei peggiori crimini, occorre indagare anche il ruolo della vittima, cercando di fare uno sforzo per non cadere nella convinzione rassegnata che a niente sarebbe servito opporre resistenza, che a nulla sarebbe servito fare qualcosa per opporsi al male che stava accadendo. La rassegnazione è un terribile atto di complicità del male. Bisogna mantenere sempre viva e vigile la capacità di non uniformazione, di non conformazione, di non adeguazione che consente di mantenere un costante stato di allerta non solo nei confronti del nemico ma anche nei confronti dell’amico, ci vuole anche una sana diffidenza anche verso l’amicizia. Tutto questo innestato su una concezione di libertà che per la filosofa ha sempre un’accezione plurale, pur senza assimilare la singolarità alla collettività, l’individuo ai molti. Si tratta di rivendicare un concetto di pluralità che non scada in una fisionomia del gruppo chiuso, dell’appartenenza settaria a un gruppo, che non è mai la soluzione politica ideale, ma che significhi continua costituzione di possibili alleanze, apertura di infinite possibilità di pensiero e di azione. Una pluralità che impedisca l’isolamento solipsistico e autoreferenziale del singolo rispetto al mondo, ai problemi del mondo: un tale isolamento annichilisce l’originario carattere politico dell’essere umano, che non è improntato alla sola trasformazione del proprio sé ma alla trasformazione del mondo in cui siamo inevitabilmente immersi. Il pubblico è proprio questo: la capacità di trascendere la sola dimensione privata, egocentrica, individuale per occuparsi del bene comune, che riguarda tutti. Ciò è innanzitutto possibile grazie al ruolo della cultura, essenziale per Arendt, in quanto strumento di rottura del sistema dominante, dei dogmi dati per assoluti e di formazione del pensiero critico e della possibilità/capacità di scelta e di giudizio. Nei momenti di crisi della cultura e di processi di spolitiicizzazione del mondo occorre ricercare e contrastare quei meccanismi che creano passività, alienazione, spersonalizzazione, rassegnazione, anestesia di pensiero e azione, vittimizzazione inattiva e non reattiva. La Arendt però non ha un intento di colpevolizzazione degli atteggiamenti umani ma vuole riconoscere ciò che vi si annida dentro e dietro, vuole smascherare quei processi culturali, economici, politici che tacitamente, in maniera strisciante si radicano nella nostra esistenza collettiva e nella nostra mentalità, abortendo la nostra capacità di senso critico e di giudizio e dando così vita ai peggiori regimi totalitari. Docilità, incapacità di scelta, rassegnazione, senso di essere “vittime impotenti del sistema”, accondiscendenza, servilismo, acritico consenso sono tutti termini che se si innescano dentro di noi ci rendono tutti, complici di quello stesso sistema che dovremmo contrastare, con la forza della ragione, con la forza delle idee e con la forza delle azioni.
L’ultimo a parlare, con un’altrettanta partecipazione e un grande trasporto è Giuseppe Guida, che parte citando una lirica di Bertol Brecht che sembra evocare il testo su cui il relatore intende soffermarsi, “Lo spirito della rivoluzione”: “Affoga nella lordura / Abbraccia il boia, / ma trasforma il mondo.”
Per noi, dice Guida, la rivoluzione ormai sembra un lontano oggetto della memoria, ma per Arendt non era così. Quando ha scritto il suo libro erano gli anni in cui si era appena conclusa la rivoluzione cubana, gli anni in cui Sartre salutava “il Roberspierre nero”.. Nessuno meglio di Hannah Arendt ha saputo pensare le metamorfosi della rivoluzione, nessuno ha saputo meglio individuare i dispositivi di autodistruzione che le rivoluzioni quasi sempre hanno messo in atto. Nello scardinare alcuni miti che stanno alla base del fenomeno rivoluzionario secondo Guida tre sono le fonti principali della filosofa: Jean Sorel, Walter Benjamin e Martin Heidegger. Al pari di Sorel Arendt rifiuta l’illusione dialettica per la quale l’avvenire possa essere dedotto dal passato: la rivoluzione non può fondarsi su un’escatologia, su un’anticipazione di previsioni future dedotte dal passato. Anzi, la rivoluzione nasce par hazard, da un azzardo, non è l’effetto delle condizioni naturali della dunamis storica, di una fede escatologica della storia. In questo risulta essere in sintonia anche con Benjamin per il quale pure la rivoluzione è qualcosa di improvviso, una sorta di “miracolosa epifania del senso”, che ha luogo non come una specie di memoria proustiana collettiva o come una scansione di immagini dialettiche hegeliane.
Anche per Heidegger, sebbene cerchi di immaginare un’altra rivoluzione, quella conservatrice, in cui asupica una piena affermazione del popolo tedesco che scegliendo, sceglie il proprio destino (dunque tutt’altro ambito rispetto alla visione di Arendt), la rivoluzione non si lega a un piano prestabilito, predeterminato.
Per Arendt la rivoluzione mette in evidenza il risorgere della libertà, che a sua volta è prima di tutto la capacità di cominciare qualcosa di nuovo, è un’azione iniziatrice, inaugurale entro uno spazio pubblico che non assimila, non omologa ma permette incontri e scambi e anche scontri. Come per Benjamin anche per la filosofa tedesca, la rivoluzione si oppone alla catastrofe, al corso entropico del tempo della modernità: “i processi storici sono diventati automatici e altrettanto rovinosi dei processi naturalistici/biologici della vita (…); che conducono l’individuo dalla nascita alla morte”. Questo declino dell’essere umano, in termini fisiologici corrisponde appunto a un corso che appare naturale e necessario del tempo storico, ma al quale sempre ci si può opporre con la forza della nostra capacità di iniziare, di inaugurare un processo nuovo. Anche nei momenti di maggior pietrificazione rimane e deve rimanere sempre la facoltà di essere liberi e quindi di farsi soglia di infinite possibilità, di creare, di cominciare cose grandi e belle. La libertà è questa apertura aurorale e innovatrice, questo muoversi verso e non cristallizzarsi su un determinismo dato per naturale e scontato, annichilendo la nostra potenzialità “iniziatrice” intrappolati in un corso di eventi ritenuto ineluttabile o inevitabile. Si può sempre interrompere il corso automatico della storia grazie a questa libertà feconda che ci è propria, grazie a questa capacità di cominciare che è sempre possibile. Certo, è durante i fenomeni di rivoluzione che questa capacità, questa possibilità di interruzione dell’automatismo storico si fa più evidente e visibile, scoppia in maniera più eclatante e rumorosa, ma in ogni momento questa libertà di azione può manifestarsi, anche quando resta più in sordina. Proprio perché la libertà e l’azione che accompagnano i processi rivoluzionari sono originarie, sono connesse alla nascita, all’apertura di possibili; sono degli attributi iniziali, ontologici, inaugurali e quindi non possono diventare qualcosa del passato, ma possono costantemente risorgere. Questa libertà, questa capacità inaugurale interrogano sempre il dasein, il senso dell’essere. Per Heidegger l’essere era essere per la morte, mentre Arendt libera la natalità dal suo fine (dalla sua fine) di morte, la natalità, l’essere non è più essere per la morte: gli esseri, anche se dovranno morire non sono nati per morire ma per sorgere, per cominciare. L’uomo è un inizio. L’essere è una nascita costante, è fatto per iniziare qualcosa di nuovo. Il suo essere è inaugurale e non è un essere per la morte. “Gli uomini muoiono, ma non sono fatti per morire. Sono creati per incominciare” (H. Arendt)
Spesso, continua Guida, per Arendt la rivoluzione è apparsa (da Lenin a Marx, a Kautski..) come frutto della necessità, non tanto come opera di uomini ma come una fiumana che trascende, travolge gli individui e le loro convinzioni, una fiumana in cui questi ultimi più che agire sono agiti da qualcosa che li trascende e li supera. Alla fine l’esito di ciò è stato ad esempio che alla fine delle rivoluzioni del XXVIII secolo non vi è stata la libertà ma la filosofia della storia hegeliana. Ciò che prima era politico è diventato storico e quindi non la libertà ma la necessità è divenuta il carattere delle rivoluzioni. Per Arendt si tratta di un effetto nefasto e autolesionista per la rivoluzione stessa, in quanto la necessità storica apre le porte a un dispositivo ideologico autodistruttivo, che apre le vie al totalitarismo, distruggendo lo spazio della sfera pubblica nella maniera più brutale. L’idolatria della storia, la fede fanatica o cieca nel progresso strorico viene vista da lei come un elemento che pregiudica il successo della rivoluzione perché in questa fede assoluta, in quest’esaltazione del progresso gli individui vengono risucchiati, vengono assorbiti nel divenire impersonale della storia come mere pedine o simbologie di qualcosa che li trascende, portatori o “incorporazioni”o espressioni impersonali e universalistiche dell’ideologia dominante del momento; divengono presenze superflue che possono essere solo funzionali se si fanno emblemi di tale ideologia o altrimenti risultano ostacoli da riassorbire nel sistema o addirittura da eliminare in quanto espressioni di qualcosa che ostacola il pensiero dominante, simboli contrari allo spirito del tempo o allo spirito della rivoluzione stessa. Basti vedere l’esito della rivoluzione francese e la conseguente dittatura giacobina. Anche Sorel intravedeva gli effetti perniciosi di una fede cieca nel progresso. Oltre a questo aspetto, la Arendt considera altrettanto deleterio, per il buon successo di una rivoluzione, il passaggio dalla dimensione politica a quella sociale, passaggio che invece non si è verificato nella rivoluzione americana, unica, a suo parere che abbia avuto un esito migliore, a differenza della rivoluzione francese e della rivoluzione russa, che infatti, secondo la filosofa hanno avuto come limite proprio questo passaggio alla dimensione sociale, all’autonomia del sociale a scapito della libertà politica. Il tentativo marxiano di liberare il processo vitale della società dai ceppi della miseria, il tentativo di trasformare la questione sociale, vista come prioritaria, in forza politica, ha però portato, secondo Arendt proprio a sacrificare la stessa libertà politica, aprendo poi la strada alla dittatura del partito e distruggendo così il processo rivoluzionario. Certo, è vero che anche la rivoluzione americana non ha instaurato il regno della libertà ma i padri politici di quella rivoluzione hanno comunque, a detta della filosofa, impedito che la questione sociale pregiudicasse l’esito della rivoluzione. In questo però, prosegue Guida, non c’è un atteggiamento borghesemente distaccato nei confronti della povertà, della miseria, del sociale, anzi nelle sue pagine emerge una sensibilità molto forte, ma quello che forse Arendt non ammette è il rischio di mettere in secondo piano, durante i fenomeni rivoluzionari, l’aspirazione alla libertà politica rispetto alle urgenze e ai bisogni impellenti che le condizioni di miseria e povertà impongono, tanto da venire sacrificata rispetto ad essi. L’esito rischia però di essere “l’irrefrenabile revolutio egualitaria che finisce per aprire le porte “all’indistinzione di una moltitudine di monadi indifferenziate pronte a sottomettersi al potere leviatanico di un nuovo dispotismo […] Ed è in quest'astratta “somiglianza universale”[21] – per dirla con De Sanctis – che iniziano a delinearsi quei modelli identitari omologanti e discriminatori verso chi non è assimilabile alla nozione di “simile”[22] decretata dall'opinio communis”(Fabrizio Marini), un gregge indistinto pronto a salutare un potere cui si piega senza se e senza ma. Un po’come ciò che si auspicava il Grande Inquisitore dostoevskiano: un’umanità anonimamente unificata e uniformata, una sorta di formicaio consenziente e concorde a un potere universale in cui ciascuno si esonera dalla responsabilità di decidere, assorbita e in un potere, che, prendendo a prestito le parole di Tocqueville “non distrugge, ostacola, comprime, spegne, inebetisce […] un potere assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite.”
Anche i campi di concentramento hanno in comune con i regimi totalitari questo unico obiettivo di degradare gli individui a massa indifferenziata, di degradare ad oggetto, annientarne la libertà e la spontaneità, e creando così, come ha scritto Hannah Arendt
“un dominio totale che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro.[…] I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono.”