Uno dei primi temi trattati riguardava l’approccio del giornalismo nei confronti della Scuola. Secondo Boscaino la stampa ha in parte cavalcato la delegittimazione del mondo della scuola, tanto da ricalcare un vecchio articolo del 2007, in cui Pietro Ichino criticava, bollandolo come fannullone un certo professor M e sollecitando l’allora ministro Padoa Schioppa a buttarlo fuori dall’Istituzione scolastica. Su quella scia si accrebbe la ormai sdoganata battaglia contro gli insegnanti cattivi e fannulloni, rafforzando, fino ad oggi quel senso di presa di posizione punitiva dei docenti, diventati sempre di più uno dei maggiori bersagli, da parte dei media come della politica. La Buona Scuola renziana non fa che ribadire questo concetto “delle mele marce” della scuola, incitando a un sistema di meritocrazia – ma aprioristica e non legittimamente fondata – atta a promuovere i “migliori” e allontanare, bocciare i peggiori, senza però usare criteri e parametri oggettivi, se mai esistessero simili parametri di giudizio, dato che qui il merito è lasciato quasi esclusivamente all’arbitrio e al giudizio del dirigente scolastico. Secondo Boscaino l’atteggiamento dei mezzi di informazione dovrebbe essere più rispettoso e responsabile, soprattutto perché si sta parlando di una delle istituzioni fondanti e fondamentali dello Stato, nonché ultimo “presidio di democrazia”. Al contrario, sembra invece che molti dei giornali principali del nostro Paese non facciano che sdoganate millanterie ed ipocrisie finalizzate a corroborare progetti distruttivi ai danni della scuola, che si sono alternati in tutti i precedenti anni, fino a dare piena legittimazione anche a quest’ultimo progetto distruttivo della legge 107, che di fatto annienta tale Istituzione dello Stato come spazio di partecipazione e democrazia.
Incalzato da altre domande il Rettore Dei ha invece sottolineato il tema della trasparenza, concetto imprescindibile quando si parla di democrazia e istituzioni democratiche o che tali dovrebbero essere e ha fatto notare come l’Università italiana si classifichi in posizione medio-alta (con anche picchi di eccellenza), per quanto riguarda la valutazione nell’ambito della ricerca, mentre nell’ambito della didattica scenda a livelli piuttosto mediocri. Secondo Dei manca un adeguato sistema di valutazione della didattica, sebbene a suo dire i test fatti dagli studenti per valutarla siano un primo passo in questa direzione. Secondo il Rettore i sistemi di valutazione, seppur sempre perfettibili, sono indispensabili ed esistono in tutti gli altri paesi e mentre quelli che riguardano la ricerca (sebbene anch’essi migliorabili) hanno già raggiunto un buon livello, per quanto riguarda la valutazione della didattica siamo molto indietro. Bisognerebbe identificare quelle che sono le strategie politiche del governo della didattica: individuare punti di forza e debolezza, obiettivi, stabilire indicatori e parametri quantitativi e il più possibile obiettivi. Un po’come già sta avvenendo per la ricerca appunto (numero di articoli, pubblicazioni..insomma, per essa, esistono migliori e maggiori parametri valutativi), secondo il nostro Rettore. Per quanto riguarda l’annunciata “buona Università”, secondo Dei basterebbero tre concetti basilari, se adeguatamente applicati, a rendere buona l’Università: diritto allo studio, infrastrutture e risoluzione del precariato della ricerca. Non occorre fare chissà che innovazioni se prima non si mettono in atto o si migliorano questi tre punti fondamentali. Ciò che serve, semmai è un piano pluriennale di investimenti per poter capire come regolarsi, per individuare gli obiettivi e capire quante risorse vi si possono spendere e a cosa dare la priorità “non si può, conclude “continuare a navigare a vista”..
Giuseppe Bagni ha parlato invece in particolare dell’importanza della collegialità, cioè dell’unione e della comunità del mondo della scuola inteso per intero. Molti hanno bollato le critiche alla 107 come le solite lamentele da parte degli insegnanti, mentre Bagni evidenzia il fatto che sia stato tutto il mondo di coloro che lavorano nella scuola o che la frequentano o la vivono indirettamente, come ad esempio anche i genitori, a sollevare perplessità nei confronti di questa legge e a mobilitarsi contro di essa. Sulla base di questo terreno comune, che non deve però scadere nel “general-generico”, siamo riusciti, prosegue il professore, a scrivere cinque obiezioni molto forti e concrete alla 107. L’esito è stato quasi nullo, perché come ben sappiamo la legge è passata tramite la fiducia ma ciò che è stato comunque importante, al di là della mancata vittoria, al di là del prodotto finale, è stato il processo sinergico che ha unito tutti coloro che si occupano di scuola (docenti, studenti, personale ATA, genitori, sindacati…) e che credono fermamente nei valori della scuola e nel suo essere baluardo di promozione e difesa della democrazia. Ciò che più spaventa di questa legge è il suo inchiodare la scuola al presente, così come altrettanto allarmante è la logica premiale che porta avanti, la logica del merito che però non va ad individuare un giusto merito, ma lo fa a prescindere, in base a un principio aprioristico che già stabilisce in partenza la necessità di diseguaglianze e distinzioni tra scuola e scuola, tra docente e docente e tra studente e studente. È la ricerca di un merito e di un premio che prescinde e non si serve di reali strumenti atti a misurare questo merito, se mai esistessero o esisteranno mai, e che pertanto non fa che aumentare i divari e le diseguaglianze. In questo quadro il rischio più grande è quello di interiorizzare questa logica e rimanere ovattati nel proprio e singolo percorso. Il messaggio che questa norma lancia e che facilmente viene incamerato è che sia giusto che “finalmente ci sarà una persona che potrà allontanare qualcuno” e in questa visione non si fa che pensare solo al proprio orticello, senza allargare lo sguardo oltre di esso. Una mamma penserà solo al proprio figlio che sarà fortunato quando finalmente il suo professore “cattivo” verrà fatto allontanare (che poi magari i cattivi sono quelli che mettono voti bassi!) e non pensa agli altri eventuali figli che in un’altra scuola si troveranno ad avere lo stesso “cattivo professore”. In questo modo tra l’altro ci sarà un concentrato di professori considerati buoni in alcune scuole, dove ci saranno perciò sempre più iscritti e un concentrato di “mele marce” o bollate tale in scuole che si svuoteranno pian piano sempre di più. Questo è un rischio grosso, perché quando si parla di scuola, quando si pensa alla scuola non si può rimanere arroccati in una visione monadica ma pensarla come intero sistema, le cui faglie, sebbene non evidenti nella mia personale scuola, riguardano anche me. Non si può pensare solo al proprio, sebbene questa è una cosa su cui cerca di insistere molto il potere che preferisce creare divisioni e magari anche conflitti, parcellizzare e frammentare anziché unire. Perché il singolo è più controllabile, la folla molto meno. Per questo è essenziale e urgente ritrovare un pensiero comune che può venire solo dalla società civile. Bisogna smuovere le coscienze e far capire che è interesse di tutti che la scuola intesa come sistema unitario interessa tutti, riguarda tutti.
Fabrizio Dacrema, a una domanda di uno studente sul rapporto tra Università e mondo del lavoro (e su quale sia il ruolo del sindacato all’interno di questo rapporto), risponde che il sistema formativo deve essere inclusivo. È un dato di fatto che noi italiani, a differenza di molti altri paesi, una volta finiti gli studi, facciamo molta più fatica a trovare lavoro. La soluzione non è quella di creare una netta contrapposizione tra sistema produttivo e sistema formativo, non è quella di innalzare barriere tra i due ambiti. Bisogna però rafforzare l’autonomia delle istituzioni formativi e nello stesso tempo lanciare una politica industriale che stimoli il sistema produttivo ad incrementare la domanda di ricerca e conoscenza. Nel rapporto scuola/lavoro, Università/lavoro, Ricerca/lavoro questo governo sta portando avanti una via bassa che non migliora né crea una sinergia virtuosa tra ambito formativo e produttivo. L’alternanza scuola lavoro che promuove questa riforma non serve a un’immissione dello studente nel mondo del lavoro né a una migliore preparazione o formazione nell’affrontarlo. Occorrerebbe semmai accrescere una capacità formativa delle imprese e non parcheggiare in esse per 200 o 400 ore nei periodi estivi gli studenti. A tal proposito, anche Bagni aggiunge che questa alternanza non porta che a tagliare ore bignamizzando i corsi in un’ottica, per altro, che si preoccupa di “far assaggiare” il lavoro e non di creare un percorso formativo tramite cui, semmai, arrivarci. Quel che avviene a scuola non deve essere addestramento ma formazione culturale. Un’alternanza scuola-lavoro pensata nei termini di questa riforma sembra più che altro un modo opportunistico, ipocrita e semplicistico di rispondere al problema della disoccupazione giovanile, facendo lavorare i giovani prima, cosa che non sembra molto innovativa o risolutiva del problema! Tra l’altro viene specificato che alcune di queste ore possono essere svolte anche durante i mesi estivi: parcheggiando i ragazzi in aziende che probabilmente non hanno neanche voglia di formare questi stessi studenti, sembra che il fine sia più quello di mandare questi ragazzi a coprire i buchi della mobilità estiva degli impiegati dell’impresa o dell’azienda o del tale o tal’altro albergo, piuttosto che garantire un’esperienza di sperimentazione del mercato del lavoro efficacemente formativa.
Maria Petraglia a una domanda sull’impoverimento culturale in cui versa il nostro Paese – e che cita la statistica OCSE che ci mette al primo posto per analfabetismo funzionale – e quindi in che modo un ipotetico governo potrebbe affrontare e ovviare a questa visione e realtà sempre più asfittica dell’istruzione, risponde che anche il governo Renzi, come i suoi predecessori, hanno perseguito una politica di tagli in nome della spending review anche e soprattutto nei confronti del mondo dell’istruzione. La Senatrice sostiene però che, rispetto al clima di incultura fomentatosi e aggravatosi negli ultimi anni, nella scuola si è continuato a mantenere un buon livello di dibattiti e vivacità culturale. E la continua denigrazione del corpo dei docenti non fa che sottolineare quanta ignoranza del mondo della scuola ci sia dietro quest’ultima legge. Chi l’ha fatta evidentemente sembra conoscere e frequentare poco il mondo della scuola! Un altro aspetto allarmante della 107 è il suo aprire insistentemente al privato, apertura inquietante che ben si inserisce nella demagogica propaganda di Stato per la quale il richiamo al privato viene fatto passare come innovativo e moderno. Quel che viene fatto passare è che in un momento di crisi e di tagli è soprattutto grazie alle risorse dei privati che si può venire in aiuto di determinate istituzioni, dimenticando però che dovrebbe proprio essere compito dello Stato occuparsi economicamente e politicamente delle sue istituzioni pubbliche e non demandarle ai privati, che già si occupano delle loro. È inconcepibile che una norma sulla Scuola che dovrebbe riguardare in primis la scuola pubblica vi sia un punto in cui si stabiliscono le detrazioni fiscali a chi iscrive i propri figli a degli istituti privati, oltre ad aver allargato il 5 per mille anche a questi ultimi. La LIP nasce proprio per promuovere un’altra idea di scuola che sia alternativa a quella propugnata dal governo Renzi. Tale mobilitazione non nasce da una forza politica, ma da tutto il mondo della scuola, unito in una comune battaglia e da ideali, principi e valori condivisi, perché non si può pensare di varare una riforma scolastica senza ascoltare la voce di chi nella scuola ci lavora.
Boscaino aggiunge a tal proposito che una tale unione di forze (insegnanti, studenti, sindacati, genitori, personale ATA..) porta a un’alternativa politicamente consistente che porta avanti in maniera pervicace quei valori e principi che ci stanno sfilando via da sotto i piedi.
Bagni sempre ribadendo l’importanza del sistema scuola per intero, esorta a non promuovere la visione di quel potenziale docente che potrebbe pensare “io mi faccio la MIA buona scuola, con i miei alunni, perché tanto sono bravo”. Bisogna smettere di preoccuparci degli alunni che chiamiamo per nome e occuparci invece di tutti quegli alunni di cui il nome non si conosce, che sono fuori dal proprio registro. Basta con il mito del “buon maestro”! “Tu sei comunità educativa, non singolo insegnante che pensa solo ai suoi studenti migliori, tu devi avvolgere tutti gli studenti, anche quelli che non fanno parte della tua classe e della tua scuola, perché tu sei la scuola tutta intera di tutti gli studenti di questo paese e tutta quanta e tutti quanti ti devono stare a cuore!” in questo senso deve essere recuperata la collegialità e la visione più universale e comune dell’istituzione scuola in senso ampio, sebbene non astratto. Non è il singolo insegnante che fa “La buona scuola” all’interno della sua cassettina. L’orizzonte deve essere più ampio e deve unificare anziché creare abissali divaricazioni e diseguaglianze tra scuola e scuola. La metafora stessa della “squadra”, del “team” così tanto sdoganate nella retorica “frizzante, moderna e giovanile” (tale pretenderebbe di essere) di questo governo, ma in generale nel linguaggio attuale in qualsiasi ambito del nostro panorama sociale, economico, mediatico, culturale e politico, è devastante per quanto probabilmente seducente. Nell’idea stessa di squadra è implicita una competitività e una ricerca di un papabile avversario che sono proprio il contrario dei valori che dovrebbe trasmettere e di cui dovrebbe nutrirsi la scuola. Chi sono gli avversari? Gli studenti? I docenti considerati meno bravi? Come si può creare una competitività, una lotta tra scuola e scuola, tra docenti e docenti o tra docenti e studenti, tra preside e insegnanti ecc ecc.. la scuola dovrebbe promuovere principi di neutralità e imparzialità, di reciproca solidarietà, di condivisione, compartecipazione partendo da una base di eguaglianza e uguali opportunità per tutti. Poi certo, le distinzioni “di merito” ci sono, ma a partire da una base di medesime opportunità e stesse condizioni. Creare dicotomie tra scuole di eccellenza e scuole mediocri sulla base di criteri che rischiano di diventare puramente economici o relativi al verdetto di un dirigente scolastico è aberrante. Nella stessa direzione si inserisce anche il discorso dei bonus di 500 euro previsto per i docenti: secondo Bagni questi soldi non andrebbero spesi tutti in maniera individuale (per libri, spettacoli, corsi..), bensì almeno una parte di essi andrebbe spesa in un progetto condiviso di formazione per ciascuna scuola.
Per Dacrema questa riforma ricalca un modello di governo che già si è visto applicato al mondo del lavoro: uno svuotamento dei poteri “del basso” trasferiti nelle mani dell’uomo solo al comando, che sia il capo di un’azienda, il dirigente di una scuola, o il capo del governo. In questo c’è una volontà politica di controllo, intimidazione, frammentazione e disgregazione del corpo sociale mirante ad aumentare le conflittualità e a sfoderare un attacco sempre più palese nei confronti delle organizzazioni sindacali e di saltare la contrattazione sindacale. Per quanto riguarda la scuola, i sindacati devono recuperare il loro ruolo nei processi reali (dentro gli RSU; gli organi collegiali dei docenti…) per contrastare ogni elemento autoritario di questa ultima riforma scolastica.
Per Petraglia, incalzata da una domanda sul pensiero ormai tristemente comune di Università considerate più dignitose e facoltà invece più bistrattate e giudicate come inferiori o in cui si ritiene che vi si iscriva una massa di studenti poco seri e poco vogliosi di studiare (è il caso di lettere) o come limbo preparatorio nell’attesa di iscriversi in altre (è ad esempio il caso di biotecnologia o psicologia in cui gli studenti che non passano il test di medicina sostano per un po’dando alcuni esami che poi gli verranno riconosciuti una volta che entreranno in medicina), non esistono facoltà di serie A o facoltà di serie B. il problema è di nuovo, anche in questo caso, il rapporto tra università e mondo del lavoro. Quello che occorre è creare una prospettiva futura che possa valere anche per coloro che studiano storia ad esempio, e non soltanto per coloro che fanno materie più direttamente proiettate nel mondo dell’impresa e del lavoro – anche se pure in questo caso la prospettiva è comunque più inquietante rispetto a quella che hanno avuto generazioni precedenti. Quello che manca è un investimento nel rilancio del nostro Paese, il che non vuol dire semplicemente aprire delle fabbriche, ma dare delle prospettive ai giovani in ogni ambito, creando un piano industriale inteso però “globalmente”, ovvero che abbracci sia la dimensione della “manovalanza” che quella intellettuale. Che promuova mano e cervello. Che sappia mettere insieme, creando un iter virtuoso, sistema dell’istruzione – sistema universitario –mondo del lavoro. Oggi è diventato addirittura un privilegio, anziché un diritto poter studiare: molte famiglie non possono più permettersi di mandare i propri figli a scuola, figuriamoci iscriverli a un’Università. Va rilanciata un’idea di paese diversa, che prima di tutto si preoccupi di garantire il diritto stesso all’accesso allo studio, e non ridurlo sempre di più a privilegio che si può permettere solo una classe elitaria benestante.