Il concetto del politico – esordisce Godani – è un nucleo fondamentale del pensiero di Rancière, pensiero che si rivela sempre originale, innovativo, spesso perfino provocatorio nei confronti di idee costituite e pensiero corrente. Un pensiero che si confronta continuamente con la realtà, con i temi della contemporaneità e teso all’affermazione dell’uguaglianza per dare legittimità alla voce degli esclusi. Uno dei cardini principali della riflessione, attiva e anticonvenzionale del filosofo francese è il legame tra politico ed estetico: da una parte la problematica del risvolto estetico della politica e il rapporto tra le diverse arti (arti figurative, letteratura, cinema..) e la politica e anche tra quest’ultima e un discorso sulle diverse arti, ma dall’altra anche una riflessione su un’estetica propria della politica, che ha una lunga tradizione. La filosofia di Rancière risulta quindi una florida contaminazione di idee, interessi provenienti da un vasto e vario campo di saperi, dalla politica, alla letteratura, all’arte, alla danza, al cinema. L’originalità del pensiero estetico e politico di Rancière sta soprattutto nell’aver rotto con una tradizione del pensiero critico forse un po’ malinconica, apocalittica, tipica della filosofia del ‘900, sostituendovi un approccio a problemi estetici e politici meno “pessimisti”, un approccio più sereno, meno catastrofico, più luminoso se vogliamo, che insieme gli conferisce appunto un elemento di originalità appunto, ma anche, dice Godani, “di allegria”. Tra i lavori più inerenti alla relazione in questione, ii professore di Macerata ricorda “Il disagio dell’estetica”, “Scarti”, dedicato al cinema e preceduto da “La favola cinematografica” e infine “Lo spettatore emancipato”, il quale riesce a fare una sintesi dei diversi percorsi che emergono dagli archivi operai settecenteschi, fornendo un’analisi non scontata del termine emancipazione, traspone dolo anche sul piano dello spettatore appunto, seduto davanti a uno schermo in una sala cinematografica. Il professore ricorda anche un saggio dedicato a Madame Bovary in cui spicca l’idea di una democrazia in letteratura e vi si insinua la domanda sul perché Flaubert abbia dovuto uccidere, letteralmente, M.me Bovary.
La questione della “democrazia delle cose” è un punto chiave del pensiero di Rancière, il quale ricerca appunto un’equivalenza delle diverse attività dell’uomo e non una loro gerarchia. Equivalenza che va a costruire un tessuto di“comunismo sensibile”(come lo chiama il filosofo) in cui tutte le cose sono sottratte a una verticistica gerarchia, alla discrepanza tra mezzi e fini, tra attività sottoposte a un’obbligata finalità e utilità esterna e attività che rientrano “in un libero gioco estetico”, come l’arte, la letteratura, il cinema, il gioco. E tale equivalenza Rancière la trova ribaltando il concetto di temporalità e fornendone un’analisi diversa, che superi la tradizionale dicotomia tra “il tempo degli uomini attivi” e quello degli uomini passivi non sottoposti all’obbligo del lavoro utile.
Rancière inizia il proprio interessante intervento delucidando il termine del titolo, finzione. Contrariamente all’interpretazione classica e comune di questa parola, secondo il filosofo francese essa non è meramente un’invenzione di situazioni immaginarie in contrapposizione alla solida realtà, bensì è ”una struttura di razionalità. È una modalità di presentazione che costruisce forme di coesistenza, di successione e di concatenamento causale tra eventi e conferisce a tali forme la modalità del possibile, del reale o del necessario”. Necessaria laddove si cerca di dare un senso al proprio agire, e al significato stesso di questo agire. All’interno di tale struttura di razionalità il tempo gioca un ruolo determinante: “Costruire un concatenamento tra eventi significa definire un’omologia tra rapporti di successione e rapporti di causalità. Il grande modello di questa strutturazione temporale del disordine temporale è stato fissato dalla Poetica di Aristotele”. Infatti il tempo della rappresentazione tragica è per lui
“il concatenamento degli eventi necessario e sufficiente a compiere il duplice passaggio dall’ignoranza al sapere e dalla fortuna alla sfortuna. Basti pesare alle grandi tragedie greche, sofoclee, euripidee di cui l’Edipo è forse l’emblema più calzante. La conseguenza più significativa è una gerarchia temporale che a sua volta va a dividere l’umanità in due tipi: esiste infatti “il tempo della cronaca, che dice come le cose accadono le une dopo le altre, nella successione empirica, e c’è il tempo della razionalità poetica, che dice come le cose possono avere luogo, come accadono in conseguenza della loro stessa possibilità […] Il tempo della cronaca è il tempo degli esseri racchiusi nel mondo della quotidianità, l mondo degli esseri che all’epoca erano chiamati uomini passivi o meccanici, perché le loro attività non erano alto dalla messa in atto dei mezzi capaci di rispondere alla necessità immediata. È insomma il tempo degli uomini che non hanno tempo. Il tempo del legame razionale è il tempo degli uomini cosiddetti attivi, perché vivono nel tempo dei fini prescelti e dei concatenamenti delle cause e degli effetti attraverso i quali perseguire tali fini. È il tempo degli uomini che hanno tempo”.
La letteratura moderna però ha messo in discussione questa articolazione gerarchica della temporalità, “opponendo con Virginia Woolf la pioggia indisciplinata degli atomi agli intrighi ben serrati, dove l’ordine di successione degli eventi traduce quello dei dignitari nelle cerimonie ufficiali, e privilegiando la democrazia dei microeventi sensibili che tessono in modo simile la vita di coloro che l’ordine delle condizioni sociali separa”. Da questa riflessione il filosofo arriva a soffermarsi sul rapporto tra la storicità delle forme letterarie e artistiche e la storicità delle trasformazioni politiche e sociali, in particolare sui concetti di modernismo e avanguardia che implicano un complesso intreccio delle temporalità. Rancière prende in esame un testo del 1939, Avanguardia e kitsch in cui l’autore, Clement Greenberg, “fonda l’affermazione modernista sull’impossibilità di sfuggire a una necessità storica da lui descritta nei termini di declino: quando lo sviluppo di una formazione sociale arriva a un punto in cui essa non è più capace di giustificare le proprie forme specifiche, essa distrugge, "i concetti condivisi dai quali gli artisti e gli scrittori in gran parte dipendono per comunicare con il loro pubblico". "Le verità connesse alla religione, all’autorità, alla tradizione e allo stile sono rimesse in discussione, e gli artisti non sono più capaci di valutare la risposta del loro pubblico ai simboli e ai riferimenti che sorreggono il loro lavoro". "Hegelianamente l’arte non è più fioriera di un senso di vita comune, da che era “manifestazione sensibile dell’idea” l’arte perdendo il suo intrinseco legame con l’assoluto, il suo ruolo di manifestazione dello spirito viene meno e quindi “dal lato della sua suprema destinazione è e rimane per noi un passato”. Ma è, continua Rancière, proprio “questa diagnosi della fine dell’arte come fioritura di una forma di vita comune che Greenberg trasforma in prescrizione per il suo futuro: […] l’avanguardia non più attingere ispirazione dall’imitazione delle forme di vita comune. Ciò che le resta è imitare il fatto di imitare“. Essa diverrebbe perciò una pratica “alessandrina” che è il puro risultato del declino di una forma di civiltà. La differenza, però tra l’avanguardia odierna e l’antico alessandrinismo è che la prima va avanti mentre il secondo restava immobile.
“Il che equivale a dire che l’avanguardia è obbligata ad essere ancora più decadente dell’alessandrinismo. Se questa necessità si fa virtù è perché essa consente di resistere al progresso di un’altra arte, un’arte che Greenberg chiama di retroguardia, benché sia essa del tutto in consonanza con lo sviluppo dell’industria capitalistica: l’arte kitsch che offre prodotti culturali di fabbricazione industriale al consumo dei figli e delle figlie dei contadini che ormai nelle città industriali dispongono di un tempo di svago al quale non li ha preparati alcuna tradizione culturale. L’avanguardia artistica deve allora accelerare gli effetti della decadenza capitalistica per vincere in velocità la gara contro quest’arte kitsch che è l’espressione viva del progresso capitalistico”.
Un altro pensatore americano che ha cercato di dare una risposta alla tesi hegeliana è Emerson che definisce il ruolo del poeta moderno, che si oppone a quello aristotelico di costruire una storia che sussuma una successione temporale in una legge causale. La differenza principale fonda le sue radici sull’ “affermazione di un privilegio del presente, che è il privilegio del tempo della coesistenza. La poesia dovrà trovare la propria ispirazione nel caos dei fenomeni eterogenei che formano il presente. […] Compito del poeta è dare a questa coesistenza un’espressione spirituale, tracciando un filo comune che leghi tutti questi fenomeni; suo compito è esprimere il potenziale di vita che corre attraverso la loro diversità”. Ecco la materia temporale del nuovo poeta moderno, ovvero la coesistenza del presente, l’equivalenza temporale dei fenomeni e delle più diverse attività, la “democrazia delle cose”, la loro compresenza in un tessuto che le renda omogenee e ne annulli la gerarchia. C’è da sottolineare però, prosegue ancora Rancière, che tale presente non presente a sé stesso. “il tempo non è contemporaneo a se stesso. Questa questione di non-contemporaneità è cruciale per la definizione del modernismo. La diagnosi hegeliana riposava su una affermazione di contemporaneità. La modernità era compiuta. La vita collettiva del popolo era ormai incarnata nelle forme istituite dell’economia politica, dello Stato e dell’amministrazione razionale. E lo spirito che aveva animato il progresso della storia di era fatto cosciente a se stesso nella scienza. Ecco perché l’arte che era stata l’espressione di questo spirito estraneo a se stesso, nella materialità esteriore della pietra scolpita, della superficie dipinta o della metrica poetica, aveva perso il proprio contenuto sostanziale ed era condannata al mero virtuosismo formale. Hegel aveva così posto un semplice dilemma: o l’arte o la modernità. Per confutare questa diagnosi, occorreva confutare lo scenario temporale che lo fondava.
È esattamente ciò che fa Emerson quando dichiara: noi non siamo moderni, noi non abbiamo ancora trovato lo spirito immanente alla nostra forma di vita. Noi non siamo nel tempo del dopo, nel tempo alessandrino in cui l’arte ha perso il proprio contenuto vitale. Noi siamo nel tempo di prima, nel tempo pre-omerico del «non ancora». Ma questo «non ancora» deve essere a sua volta diviso. Da un lato, è la constatazione di un difetto. La prosa del nuovo continente non ha ancora trovato un’espressione spirituale. Guardiamo questi fenomeni nuovi come cose, situazioni e personaggi volgari, racchiusi in una relazione economica egoista fatta di un valore d’uso immediato e di un valore di scambio astratto. Occorre dargli un nuovo valore, quello dei simboli di una forma collettiva di vita. Il problema moderno è quello di costruire un nuovo senso di comunità, un nuovo sensorium capace di dare alle cose prosaiche la dimensione poetica attraverso la quale esse compongono un mondo comune. Non è dalla semplice evoluzione del tempo che dobbiamo aspettarci questo adeguamento tra la prosa degli interessi materiali e il senso spirituale del mondo nuovo. Occorre anticiparla. Questo è il compito del poeta a venire”. Questo ritardo però è la premessa perché possa esser possibile un’anticipazione, “è dalla discordanza del presente che occorre ricavare la musica del futuro, la pulsazione selvaggia della vita nuova.” Ed è l’avanguardia a rivelarsi capace di anticipare l’evoluzione del tempo, proprio in forza del suo ritardo rispetto a se stesso.
Rancière trova un parallelismo tra il pensiero di Emerson e tra quello di uno dei pensatori che più volentieri associamo all’idea di avanguardia, ovvero Marx, che negli scritti del 1843, rifiutava la tesi hegeliana di una modernità definita attraverso l’adeguamento tra pensiero e mondo.
“La realtà tedesca, diceva, testimoniava al contrario una perfetta discordanza. La filosofia tedesca aveva elaborato una teoria dell’emancipazione umana che non aveva corrispondenza alcuna nella miseria feudale e burocratica della Germania dell’epoca. È per questa stessa ragione che la Germania poteva realizzare una rivoluzione di tipo nuovo, una rivoluzione umana che avrebbe saltato la tappa della semplice rivoluzione politica. Ma poteva farlo a una condizione: appropriarsi di quella energia della trasformazione effettiva del mondo che i rivoluzionari francesi avevano dispiegato senza poterle dare una formulazione teorica all’altezza delle esigenze del tempo. Utilizzare per costruire un mondo a venire il potere di anticipazione ricavato dal ritardo stesso del presente, questo è lo scenario temporale comune a Marx e a Emerson”.
Un esempio della combinazione tra politica marxista e poetica emersoniana Rancière lo trova nella famosa opera di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa. “Un film che è parte di un progetto largamente condiviso tra gli artisti sovietici, a partire dalle loro stesse divergenze: creare non più delle opere d’arte destinate all’universo separato dei consumatori borghesi, ma delle forme della nuova vita comune; anticipare sull’avvenire di questa vita nuova, creando un mondo sensibile comunista, un nuovo tessuto dell’esperienza collettiva.” Il film riprende, legando le immagini attraverso un montaggio frenetico, le diverse attività di alcune persone di una grande città in un’unica giornata. Il risultato è che tutte queste differenti operazioni, dalla manicure, al lavoro di montaggio, sembrano inserirsi davvero in un comune tessuto collettivo, perdendo la loro sostanziale diversità e annullando una possibile gerarchia. Le attività montate con un ritmo veloce, sembrano legarsi perfettamente, compenetrarsi come in un’unica danza, creando una stessa sinfonia in cui ognuna ha lo stesso frammento di tempo, in cui ognuna occupa lo stesso spazio e assume una stessa importanza. Come cantassero all’unisono, in un coro in cui ogni voce conta quanto l’altra. Strumenti diversi che si armonizzano in un’unica orchestra sinfonica:
“Tutte queste attività vengono ricondotte a pochi gesti essenziali, tutte sono ritagliate in brevi frammenti e montate in alternanza a un ritmo veloce. Per questa ragione si è creduto di vedere nel film, come in molti altri progetti futuristi dello stesso periodo, l’adesione ingenua ai nuovi idoli moderni della macchina, della velocità, dell’automatismo e del taylorismo. Soprattutto, è facile assimilare l’estrema frammentazione e il montaggio accelerato delle attività presentate ai principi tayloristi tanto apprezzati all’epoca in Urss. Eppure l’efficacia estetica del montaggio di Vertov va nel senso esattamente contrario dell’efficacia economica della frammentazione taylorista. Non scompone un lavoro in molteplici operazioni complementari. Bensì crea un tempo comune a una molteplicità di attività che non hanno niente in comune, se non l’essere tutte l’opera di mani industriose. Ciò che ci mostra il montaggio non è il concatenamento delle attività, bensì la loro uguaglianza come unità di movimento e la loro compenetrazione all’interno di uno stesso concerto d’insieme. Il ritmo accelerato non è la celebrazione del lavoro taylorizzato o della produzione sovietica. È la celebrazione del comunismo in quanto tale, dell’equivalenza di tutte le attività all’interno della sinfonia comunista. È il film a creare questa sinfonia, che non è altro che il comunismo come tessuto sensibile comune. […] Il tempo comunista è il tempo della compenetrazione e dell’uguaglianza dei movimenti.” Ed è proprio il rifiuto dell’articolazione gerarchica della temporalità al centro dell’anticipazione avanguardista che ha appunto il compito di costruire questo tessuto sensibile del comunismo unendo attività che appartengono a tempi e mondi diversi e riassorbendole in frammenti equivalenti di un medesimo movimento globale, come nel filmato del regista russo. Infatti “In un certo senso il comunismo sensibile realizzato da Vertov risponde all’idea della rivoluzione umana espressa dal giovane Marx: il comunismo è la condizione nella quale il lavoro è la manifestazione dell’essenza umana, anziché essere il mezzo per guadagnarsi da vivere. È la forma di vita nella quale gli «uomini meccanici» diventano uomini in tutto e per tutto, perché i mezzi e i fini dell’azione sono diventati una sola e stessa realtà. È questo comunismo a unire i movimenti delle ballerine, il meccanismo rotatorio della filatura e i gesti delle operaie alla catena di montaggio o delle centraliniste in uno stesso movimento d’insieme. Ma la condizione di questa uguaglianza in movimento è che ciascuna di queste attività sia scollegata dalla propria temporalità specifica e dai fini che essa persegue. Il ritmo comune della sinfonia presuppone che tutte le attività che vi si compenetrano condividano la stessa caratteristica: quella di non obbedire ad alcuna volontà, ad alcun fine esterno.”
L’affascinante riflessione del filosofo francese, che qui purtroppo non possiamo riportare per intero, si conclude lasciando la parola al pubblico, molto stimolato dagli inesauribili spunti forniti dall’intervento di Rancière che si spera di riavere di nuovo qui a Firenze, a parlarci di tempo, comunismo, arte, cinema e letteratura.