Seguendo la divisione accademica che attraversa il Paese raccogliamo qui il vasto ambito di materie comprese nelle definizioni di "scienze umanistiche" e "scienze sociali". Le persone, il loro vivere in società e tutto ciò che vi ruota attorno.
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Dal convegno Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi, altri due interventi molto suggestivi e appassiona(n)ti raccontano due donne, due anime completamente diverse.
Irene Dati, giovane studentessa iscritta alla magistrale di scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze ci narra la struggente storia di Alcesti, protagonista della tragedia (ma tragedia a lieto fine in realtà) di Euripide, probabilmente rappresentata alle feste Dionisie del 483 a.C. La struttura della tragedia ricorda più quella di una fiaba, anche per il finale luminoso e lieto che ribalta gli eventi tragici avvenuti prima.
Nel prologo il Dio Apollo racconta di esser stato condannato dal padre Zeus a fare da schiavo nella casa di Admeto, re di Fere, in Tessaglia. Già qui dunque assistiamo a un fatto piuttosto insolito: una divinità che è schiava di un uomo mortale. Admeto è comunque un ospite perfetto, accogliente e benevolo e grazie a queste sue qualità si guadagna il rispetto del dio. Proprio per la stima nutrita nei confronti del padrone, Apollo ottiene dalle Moire che Admeto possa sfuggire alla morte, a patto che qualcuno decida di sacrificarsi per lui. Nessuno però né gli anziani parenti né i più cari amici sembrano disposti a un tale e letale sacrificio. Soltanto lei, Alcesti, l’amatissima sposa è disposta a rinunciare alla propria vita per risparmiare quella dell’altrettanto amato marito. Quando Thanatos, la morte, entra in scena Apollo invano cerca di impedire che la giovane e coraggiosa fanciulla venga sacrificata e si allontana dalla casa invasa da un’angosciante silenzio. Quando il coro dei cittadini di Fere incombe sulla scena si consuma la tragedia. Una serva annuncia che Alcesti è pronta a morire ed ecco che si apre una delle immagini più potenti e strazianti della tragedia: la regina saluta la luce del sole, quel sole che non potrà mai più vedere, da cui non potrà mai più essere illuminata e scaldata. La attendono la notte e le tenebre eterne dell’oscurità dell’Ade e dovrà congedarsi da quella luce tanto cara e preziosa:
“Sole, luce del giorno, ètere, limpide e veloci nuvole […] Terra, tetto dell’atrio, nunzial talamo di Jolco […] Lasciatemi, lasciatemi, adagiatemi. Più non mi reggono i piedi. Morte è già presso: ombrosa notte sopra gli occhi cala. Figli, figli, la madre vostra non vive più. Addio figli, godete questa luce del giorno. ” Admeto si dispera, piange, non vorrebbe mai lasciare la sua sposa: “Ahimè, questi detti al mio cuore son più che ogni morte funesti! Oh no, non partire, ti prego […] Se muori, io morrò. Tu sola puoi darmi la vita o la morte.” Niente però potrà fermare la risoluzione di Alcesti, pronta a morire per l’uomo che ama a cui però porge un’ultima richiesta, esige da lui un’ultima promessa: “Admetoa te che la mia sorte vedi, dirò, pria di morir, quello che bramo. Io più che me, te caro avendo, a prezzo del viver mio, la luce a te serbata, muoio. E potevo non morir per te […]. Ma divelta da te non volli vivere […] un Dio volle che così fosse tutto questo. E sia. Ma tu, memore, rendimi una grazia. Al beneficio pari non sarà, ché nulla val quanto la vita vale; ma ben giusta: e tu stesso lo dirai: ch'ami non men di me questi fanciulli, se pure hai senno. Fa' ch'essi padroni sian della casa mia, schiva le nozze, ai figli miei non dare una matrigna […] Non farlo, no, ti prego. Ai primi figli sopraggiunge nemica una matrigna: cuore non ha più mite d'una vipera. […] Io morir devo, e non domani, e non il terzo dí del mese, il mal m'attende; ma fra poco viva chiamar me non potrete. Addio, siate felici. Glorïarti, o sposo, potrai che la tua sposa ottima fu: e voi, figliuoli, della madre vostra”
Alcesti fa dunque promettere allo sposo di restargli fedele anche da morta, di non portare a casa una nuova moglie e una matrigna per i figli. Admeto promette:
“Sarà, tutto sarà. Non temere. Io t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora unica sposa mia detta sarai. Niuna Tessala più mi chiamerà sposo, e sia pur di nobil stirpe, sia di vaghissime forme […] E non un anno il lutto tuo porterò; ma sin ch’io resti in vita […] Ora attendimi là, quando io sia morto, e prepara la casa ove dimora avrai con me. Ché porre io mi farò in questa stessa arca di cedro, il fianco vicino al fianco tuo; né morto mai, sarò da te disgiunto, o sola fida!”
Alcesti quindi muore e tutti la piangono disperati. Bellissime le parole di Admeto, del l figlio Eumelo e dei Corifei nel Peana funebre. Dopo il compianto entra in scena Eracle, intento in una delle dodici fatiche per chiedere ospitalità ad Admeto. Questi racconta all’eroe, non potendo nascondere il proprio dolore, che era morta una donna, non consanguinea. Dopo altre vicissitudini, uno schiavo del re rivela ad Eracle l’identità della donna. Eracle allora decide di scendere nell’Ade per riportare in vita Alcesti.
L’eroe, ripresa così la donna, torna alla reggia, tenendo tra le braccia la regina coperta da un velo, fingendo di averla avuta come premio durante i giochi pubblici, per testare così la fedeltà del re. Admeto ha inizialmente orrore persino a toccarla e, fedele alla promessa fatta alla consorte in punto di morte, vieta all’eroe di entrare con lei. Alla fine, dopo l’insistenza di Eracle Admeto acconsente a guardare la fanciulla velata.xc .
Anna Scattigno, ricercatrice in Storia del Cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi di Firenze e co-fondatrice della Scuola Italiana delle Storiche, invece ci racconta un’altra donna, molto diversa da Alcesti. Anche in questa vicenda emerge il tema della fedeltà assoluta. Ma si tratta di una fedeltà molto diversa da quella, dettata dall’amore profondo dei due eroi greci. La donna in questione è Maria Teresa d’Austria, nata nel 1717 e che, grazie alla Prammatica Sanzione del 1713, emanata dal padre Carlo VI – che stabiliva l’immutabilità e l’indivisibilità della successione nella Monarchia Asburgica garantendo dunque un solo ordine di successione – nel 1740 ereditò il regno della Monarchia Asburgica e sposando Francesco I di Lorena fu fondatrice del casato Asburgo Lorena. Soltanto dopo la guerra di successione, con la pace di Aquisgrana del 1748 l’imperatrice poté prendere possesso dei suoi diritti di imperatrice. La coppia imperiale ebbe ben 16 figli. Infatti Maria Teresa a una politica di guerra per saldare i confini dell’impero preferiva una politica di alleanze matrimoniale, predisposizione che la portò ad avere forti conflitti con il figlio Giuseppe – co-reggente nel 1765 dopo la morte del padre Francesco I e futuro imperatore del Sacro Romano Impero.
Il profondo contrasto è evidente nella corrispondenza che i due intrattenevano. La politica del fare figli aveva però anche un’altra funzione per l’imperatrice: rappresentava il proprio dovere di sovrana. Dovere che avrebbero dovuto introiettare e mantenere tutte le sue figlie e future regine. Nelle lettere che Maria Teresa inviava a figlie e nuore questo aspetto veniva sempre ribadito e sottolineato con forza. In una delle lettere inviata a una delle sue nuore che stava allattando un figlio, scriveva: “Ad onta dei miei sedici figli io non so niente. Per tutto quel che riguarda il parto ho preferito rimanere ignorante per poter conseguire al meglio la mia obbedienza. Per poter obbedire al meglio.” La corrispondenza di Maria Teresa è davvero imponente e ricca in particolare di lettere ai figli. Vi è un’edizione relativamente recente, edita a Berlino nel 1940, con il titolo “La moglie e la sovrana” a cui fa riferimento l’edizione italiana curata da Alberto Spaini.
Lo stile dell’imperatrice si esprime al meglio nelle lettere scritte in francese. Maria Teresa conosceva moltissime lingue (tedesco, latino, italiano, francese, ungherese) ma mentre nella lingua tedesca risulta più dura, più brusca, la lingua e la cultura francese le insegnava una moderazione, una dolcezza che mancavano nella sua madrelingua. Le lettere a Giuseppe sono sicuramente le più importanti dal punto di vista politico ed emergono non solo il divario tra due opposte visioni politico-strategiche, ma anche tra due diverse visioni culturali e ideologiche: Giuseppe era imbevuto di cultura illuminista, mentre Maria Teresa, per quanto la conoscesse, da fervente cattolica e convinta che solo la religione – e le alleanze matrimoniali – potesse garantire una convivenza pacifica, non la condivideva.
Ci sono poi anche molte lettere all’atro figlio, Pietro Leopoldo – futuro Granduca di Toscana – che risultano molto diverse rispetto a quelle indirizzate a Giuseppe. La famiglia Toscana di Pietro Leopoldo diventerà, agli occhi della madre un modello perfetto tanto che in questa corrispondenza emerge una sorta di idillio e serenità familiare: si parla di viaggi, vita domestica..
Anche agli altri due figli, Ferdinando e Massimiliano – avviato alla carriera ecclesiastica – Maria Teresa non manca di inviare lettere.
Ma le più grandi differenze emergono nella corrispondenza alle figlie, i cui contenuti sono totalmente diversi da quelli presenti nella corrispondenza ai figli maschi. Le otto arciduchesse sembrano lì per costruire alleanze matrimoniali, in particolare con le corti più rilevanti d’Europa: Francia e Regno di Napoli. Alla prima verrà mandata Maria Antonietta, a soli 13 anni, al secondo Maria Carolina a soli 15 anni. Praticamente due adolescenti appena uscite dall’infanzia. Maria Amalia e Maria Carolina hanno invece un’età maggiore quando verranno date in moglie: la prima a 23 anni, la seconda a 24.
Dalla corrispondenza emerge che forse, la figlia prediletta di Maria Teresa è Maria Cristina, che addirittura viene chiamata dalla madre “mia unica amica”. Maria Cristina è molto innamorata di Alberto di Sassonia e sarà proprio Maria Teresa a fare trattative segrete affinché l’amata figlia possa sposare, stavolta per amore, l’uomo che desidera, nonostante la contrarietà dei principi, soprattutto di Giuseppe. Si tratta forse dell’unico matrimonio d’amore, anzi, di amour-passion, perché anche questa passione sarà destinata a consumarsi e anche il matrimonio di Maria Cristina non si rivelerà un matrimonio felice. È però questa passione che Maria Teresa rimprovera alla figlia il cui comportamento passionale, da donna dominata da un amore travolgente, rischia di mandare a monte le trattative che la sovrana sta cercando di intrattenere per lei. Nello stesso tempo questo amore la rimanda, col ricordo, al suo. Un amore non passionale ma che le aveva assicurato “29 anni di matrimonio felice”. L’amor “fou” di Maria Cristina è molto diverso da quello, mite, tranquillo, amichevole e fondato sulla reciproca stima, sul reciproco rispetto e sulla reciproca fedeltà, che aveva conosciuto Maria Teresa e che pur era stato amore. Una forma diversa di amore ma sempre amore era. Proprio per questa sua esperienza la regina cerca di educare la figlia a moderare la propria passione, a temperarla, a trasformare quell’amore folle e selvaggio in un sentimento più “educato”, più consono al ruolo di una sovrana.
“Questo è il mio consiglio”. Frase che ricorre spesso in tutte le lettere e che diviene quasi la firma, la traccia emblematica dell’indole e del carattere di Maria Teresa. Tra i consigli e i principi che la donna prodiga alle figlie ce ne sono alcuni per lei fondamentali: una delle norme più importanti del matrimonio è la sottomissione della moglie-madre al marito. Parlando delle figlie, in una lettera, la sovrana scrive: “sono nate per obbedire e devono acquistare col tempo questa abitudine.”
Si tratta di una doppia obbedienza, come donna e come principessa. E ancora: “La moglie è sottoposta al marito, egli è il nostro solo scopo. Lo dobbiamo servire e aiutare. Lo dobbiamo vedere come un amico fraterno e il migliore compagno”. Dunque una devozione assoluta.
“La moglie è tenuta ad obbedire al marito. Non deve mirare altro che a renderlo felice e a soddisfare i suoi bisogni”. C’è un totale annullamento dell’individualità della persona umana, un’abnegazione sentita come scelta e come dovere, come unico scopo e unica possibilità di costruire un matrimonio felice per entrambi i suoi membri. “ L’unica vera felicità su questa terra è un matrimonio felice”, scrive ancora Maria Teresa alla figlia Maria Carolina, promessa a Ferdinando IV di Borbone. In tutta questa lettera vi è un’insistente indicazione del “dovere di essere felici”, ma qui, l’unico stato di felicità sembra arrivare solo da un matrimonio felice. Anche quando questo sembra non aver alcuna premessa per dirsi felice. Ferdinando IV infatti è noto per la sua bruttezza e per il suo essere brusco e persino violento, tanto che Pietro Leopoldo scrive alla madre che sua sorella, Maria Carolina piange in continuazione e che ha persino pensato di togliersi la vita. Per tutta risposta ci si aspetterebbe consolazione e conforto da una madre amorevole. Invece nelle lettere che Maria Teresa invia alla sventurata figlia, non vi è alcun cenno di ciò, anzi, vi si continua a ripetere che la possibilità/il dovere di essere felici lo si conquista incarnando la figura della moglie perfetta, ovvero attraverso indissolubilità, obbedienza, sottomissione, docilità, remissione, disciplina. Maria Carolina proverà a seguire i suggerimenti - o meglio, comandamenti! – della madre, ma nonostante questo, non riuscirà a realizzare un matrimonio felice con Ferdinado IV.
La sottomissione soprattutto sembra essere il comandamento che non ammette eccezione alcuna. Anche nei confronti degli errori del marito la moglie deve rimanere imperturbabile e anzi, accettarli e sopportarli con pazienza: “la moglie ha sempre torto, qualsiasi cosa abbia commesso il coniuge.” Un comportamento diverso sarebbe stato, agli occhi di Maria Teresa, sintomo di prepotenza e ad una donna, al prepotenza proprio non si confà!
La moglie deve meritare la fiducia del marito: “la felicità della donna consiste unicamente nella fiducia che il marito ripone in lei.”
Tutti questi insegnamenti normativi, categorici possono risultare alle volte anche molto bruschi e freddi, di una rigidità glaciale che non sembra lasciare molto spazio alle emozioni, alla compassione. Eppure, pur nella loro durezza, pur nella loro incisività poco empatica, testimoniano la convinzione e le buone intenzioni della sovrana, sinceramente persuasa che solo in questo modo la donna, moglie, madre e sovrana avrà la possibilità di rendere felice il proprio matrimonio. Ed è proprio nelle sue mani, nel suo comportamento sottomesso e obbediente che sta la chiave di questa felicità. I comandamenti impartiti alle figlie sono il frutto dell’esperienza personale di felicità di Maria Teresa ed in essi c’è la speranza e la volontà di madre che anche le sue figlie e principesse riescano a vivere una simile esperienza, possibile soltanto, però se fanno propri gli insegnamenti e gli ideali che ella stessa consegna loro in eredità. La felicità cui fa riferimento la sovrana è stata possibile grazie al suo atteggiamento docile e remissivo, degno di una moglie e di una regnante, che ha potuto costruire un matrimonio fondato sulla stima reciproca, su una profonda amicizia e su un reciproco scambio di servigi tra lei e il marito, di cui si era conquistata la fiducia, evitando così da parte di quest’ultimo un comportamento di imponenza e dominio. Alla fine, quel che Maria Teresa sembra dire alle figlie è che il buon esito della felicità di entrambi i coniugi dipende dalla donna ed è forse questo aspetto che risulta più carico di pesantezza normativa, proprio perché il matrimonio deve esser visto, dalla donna, come una vera missione. Missione che si allarga dalla sfera privata dei doveri e delle responsabilità nei confronti del marito e dei figli a quella pubblica, dei doveri e delle responsabilità nei confronti dei propri sudditi: “La principessa quando viene inviata nelle nuove corti è straniera e prima suddita. Perciò deve in primo luogo imparare la lingua – cosa che deve essere di conoscenza pubblica – per diventare una cittadina del Regno, e impararne le usanze.” Isabella, infante di Spagna, ad esempio, cercò di comprendere le minime usanze del paese, guadagnandosi così l’apprezzamento e la benevolenza dei suoi sudditi, la stima di una Nazione che l’accolse a braccia aperte.
Altra convinzione della sovrana era che la pace della famiglia reale sarebbe stata l’unica condizione per la pace della corte e dello stato. La sottomissione nella coppia coniugale acquista qui, dunque, un ruolo politico, come sottomissione nei confronti del proprio popolo e del proprio regno. Non bisogna mai cercar di prevalere o dominare sul re poiché ciò significherebbe sia la fine della pace coniugale che quella della Nazione. La regina deve tenersi sempre in disparte e non deve fare politica, o qualora il marito le accordi una parte del governo/del regno, l’onore deve andare comunque sempre al re, e non si deve saperlo in pubblico.
Maria Teresa muore nel 1780 con la consapevolezza che tutto il suo ideale, modello di sottomissione e reverenza non era più applicabile in un’Europa cambiata, quel modello non rispondeva più alla nuova cultura che stava prendendo il sopravvento. Questo Maria Teresa lo sapeva bene e ne soffriva, perché riteneva quel modello come l’unico valido e capace di conservare la pace e la felicità tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica e politica. Unico puntello nelle mani della sovrana restava allora soltanto quello della religione, che però non bastò a cancellare quella tragica consapevolezza nel veder dissiparsi un modello morale e culturale in cui non aveva mai smesso di credere.
Il Pensiero di Althusser III: il principio di surdeterminazione
Oltre a una profonda avversione nei confronti di qualsiasi lettura umanista e storicista de Il Capitale, visione che abbiamo avuto modo di descrivere e commentare in due articoli precedenti, Althusser, soprattutto a partire dal volume Per Marx, edito in Italia da Editori Riuniti nel 1965, vuole anche rigettare l’idea che il rapporto fra struttura e sovrastruttura vada interpretato come orientato verso un riduzionismo che riconduca ogni elemento a una dimensione economica. In quest’ottica, la teoria marxiana non rappresenta un rovesciamento della dialettica hegeliana, dall’idealismo al materialismo, bensì un modo diverso di intendere la dialettica. Quest’ultima ha infatti in Marx una struttura diversa rispetto a quella proposta da Hegel.
Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi
Un convegno emozionate e ricchissimo di riflessioni stimolanti e importanti, quello tenutosi il sei e sette novembre presso la Sala della Resistenza del Palazzo Ducale di Massa. Il ciclo di conferenze, dal titolo “Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi”, è stato organizzato dall’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” ed è nato da un’idea di Alessandra F. Cieli, una delle co-fondatrici e vice presidente dell’associazione stessa.
Dopo i saluti delle amministrazioni (il consigliere regionale Giacomo Bugliani e l’assessore Martina Nardi) e di Olga Raffo, co-fondatrce dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne” si sono alternate moltissime relazioni. Non potendole affrontare tutte, ci soffermeremo su alcune della prima giornata di conferenze, moderate da Alessandra Pescarolo, dirigente dell’IRPET, esperta di sociologia e storia del lavoro e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche.
Daniela Lombardi, professoressa di Storia moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa e una delle massime esperte di storia del matrimonio e della famiglia col suo intervento ha sfatato una visione a volte forse mitologica e un po’superficiale che abbiamo della famiglia di oggi. Si parla infatti molto di crisi della famiglia, con toni molto accalorati e molto spesso si dimentica, quando si affrontano questi temi, di avvicinarsi ad essi con un approccio più storico che permetta di leggere anche la realtà attuale in maniera più lucida ed oggettiva. Se si guarda, ad esempio, ai dati ISTAT risalenti al 2012 sulla situazione delle famiglie italiane, ci si accorge che, nonostante appunto si tenda a denunciare in continuazione l’aumento di divorzi e separazioni, questi ultimi sono in leggera diminuzione. Certo occorrerebbe avere anche i dati degli ultimissimi anni per poter fare una stima completa. Quello che emerge in particolare è però soprattutto un calo dei matrimoni, sia religiosi che civili ma accompagnato da un aumento delle unioni di fatto, delle famiglie ricostituite e delle coppie omosessuali che chiedono con sempre maggior forza, giustamente, un riconoscimento giuridico della loro unione. Quest’ultimo fatto è un chiaro segnale che vi è ancora un urgente bisogno di esser riconosciuti come famiglie e che quindi il desiderio stesso della famiglia non sembra esser scomparso, anche se è quello che negli ultimi anni tendiamo a credere. Certo, che le famiglie o l’idea di famiglia siano cambiate non c’è dubbio, ma certe tendenze che noi consideriamo strettamente contemporanee in realtà non lo sono, per lo meno non tutte. siamo davanti, prosegue la Lombardi, a mutamenti epocali che non sono solamente di oggi, ma che hanno avuto inizio già a partire dagli anni ’70 del ‘900, non solo in Italia ma anche in molti paesi europei e negli Stati Uniti d’America. I cambiamenti più evidenti sono i seguenti: instabilità coniugale, separazioni e divorzi in crescita già dagli anni ‘70 e diffusione della contraccezione (fenomeno caratteristico degli anni ’70 che ha fatto sì che la procreazione non fosse più una fatalità ma una scelta).
Si fanno meno figli. In realtà si parla ancora troppo poco, soprattutto in Italia, di questo calo della natalità, presente anche nel sud e anche tra gli immigrati. Quest’ultimo aspetto significa che non esiste alcun collegamento con il lavoro femminile, tanto che se andiamo a guardare a un paese come la Svezia che detiene il più alto tasso di occupazione femminile, vediamo che lì il tasso di natalità è molto aumentato. Al contrario, sono proprio le difficoltà economiche che provocano un calo delle nascite e non tanto il fatto che ci siano più donne a lavorare.
Diritto di famiglia in Italia del 197 che ha portato ad alcune innovazioni importanti: la parità dei diritti dei coniugi; la stessa responsabilità, per entrambi i coniugi, nei confronti dei figli (la patria potestà, proveniente dal diritto romano, finalmente nel XX secolo, viene dunque abbattuta); parità dei diritti tra figli nati all’interno del matrimonio (i cosiddetti legittimi) e quelli nati fuori dal matrimonio (i cosiddetti illegittimi) e scomparsa dei termini stessi di legittimità/illegittimità nel riferirsi alla prole.
L’allungamento della vita e il calo delle nascite hanno inoltre portato a un cambiamento all’interno delle relazioni parentali: vi è una riduzione della parentela in senso orizzontale (cugini, fratelli, sorelle..) e un allargamento della parentela in senso verticale (bisnonni, nonni, nipoti..), tanto che alcuni sociologi hanno chiamato il XX secolo, “secolo dei nonni”.
Tutti questi mutamenti, ad ogni modo, contrariamente a quel che si pensa, non hanno portato alla fine della famiglia, nonostante la proliferazione sempre più numerosa di saggi con titoli apocalittici come “la morte della famiglia”, “La fine del matrimonio” e simili. La crisi della famiglia può essere ridimensionata proprio se acquisiamo uno sguardo storico attraverso il quale renderci conto che più che scomparire, la famiglia si è adattata a questi cambiamenti, ed è sopravvissuta per quanto in forme diverse dai secoli precedenti.
Altro mito da sfatare: molti si attaccano tanto all’idea della “famiglia tradizionale”. Ma che cos’è la famiglia tradizionale. Certo, per la Chiesa e per alcune forze politiche, la famiglia tradizionale è quella composta da un uomo e una donna, ma in realtà nel passato non c’è mai stata una “famiglia tradizionale” o un’idea di famiglia tradizionale. Ad esempio, non tutti si sposavano: il fenomeno dei single non è un motivo solamente di oggi; esistevano già fenomeni di convivenza o di concubinati, per quanto non fossero accettati dalle autorità religiose e secolari. Molto spesso ci si univa per solidarietà, soprattutto tra partners provenienti da ceti sociali poveri che dovevano fronteggiare difficoltà economiche, più facili da combattere che stando soli; l’instabilità stessa non è un fenomeno contemporaneo. Piergiorgio Curti (Associazione Lacaniana italiana di psicoanalisi) parla proprio di “instabilità strutturale” (ci sono vari esempi di fughe dal matrimonio, già a fine ‘600, come quella di Nicoletta Grillo). Un altro dato che è rimasto piuttosto costante è che spesso le domande di separazione venivano soprattutto dalle donne, in particolare per violenza maritale. Anche in questo dunque vediamo un parallelismo tra ieri ed oggi e ci rendiamo conto che questo fenomeno non appartiene soltanto alla nostra contemporaneità; altro aspetto di comunanza era l’esistenza di famiglie nucleari, soprattutto tra ceti poveri e un numero contenuto di figli stesso, spiegabile sia per la tarda età del matrimonio (26-27 anni) che per l’esistenza di metodi contraccettivi “naturali” (l’interruzione del coito.)
L’età d’oro del matrimonio, secondo i sociologi, si è avuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900, quando dopo il secondo dopoguerra si assistette a una fase di ripresa economica accompagnata da una nuova speranza e una nuova euforia generale. Quindi non è facile, andando a ritroso nel tempo della storia, trovare una chiara idea di famiglia tradizionale. Ricordiamo poi che nel passato la reale funzione del matrimonio era quella di stabilire alleanze, politiche, nel caso delle famiglie nobili o regnanti o economiche nel caso di famiglie di ceto popolare (unire due forze lavoro). quindi una “famiglia tradizionale” fondata sul reciproco interesse! È questa la famiglia tradizionale a cui ci si appella?! Sarà nel ‘700 che Rousseau teorizzerà, stabilendo così la cifra della modernità, il matrimonio come sfera intima, privata, fuori dagli interessi o ruoli pubblici, fondato sulla libera scelta degli individui che si uniscono e mirante a realizzare la felicità di ognuno dei suoi membri. La sfera della felicità privata, individuale viene dunque prima di quella pubblica, condivisa, fatta di ruoli e relazioni sociali.
Oggi, conclude Lombardi, che la speranza di vita per le donne è arrivata a 84, 4 anni per le donne e 79,9 per gli uomini (dati risalenti al 2013), come possiamo stupirci che i matrimoni durino di meno? Non sarà che forse si adeguano anch’essi a un’età della vita diventata troppo lunga?
Un altro dei molti interventi proviene da Elena Pulcini, docente di filosofia sociale presso l’Università degli Studi di Firenze. Nella storia filosofica dei sentimenti, esordisce la professoressa, sicuramente Jean-Jacques Rousseau ha svolto un ruolo significativo, addirittura è stato colui che, come già aveva accennato Lombardi, si può dire abbia dato origine a un archetipo moderno: il matrimonio come una sfera intima, privata, che unisce due soggetti per loro libera scelta e per perseguire la propria felicità individuale. Come, quando e perché nasce la famiglia fondata sull’amore? Chiede Pulcini. Due aspetti fondamentali sono da considerare nell’ambito di un’epoca (il ‘700) come quella in cui scriveva Rousseau: la nascita di un nuovo codice affettivo accompagnata dall’intuizione dell’ambivalenza dell’amore e del soggetto amoroso e la riabilitazione della natura umana che configura un’antropologia positiva e introduce anche una riabilitazione delle passioni e della dimensione corporea. La sensibilità diventa infatti fonte di una nuova identità e fonte stessa della felicità. Il ‘700 è infatti proprio “il secolo della felicità” – tanto che vi è una proliferazione ingente di saggi, romanzi, libelli che hanno come tema proprio la bonheur. La felicità diviene quasi una massima kantiana, quasi un obbligo morale e giuridico, un imperativo antropologico: devi essere felice. È in questo secolo che viene infatti teorizzato e scoperto il diritto alla felicità posta sullo stesso piano degli altri diritti tradizionali quali la vita, l’eguaglianza e la libertà (addirittura nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America ratificata a Filadelfia nel 1776 essa compare come suo articolo iniziale: “Noi riteniamo che […]tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati […] di diritti inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”). Idea inedita di felicità intesa come stato permanente, non come momento o stato d’animo provvisorio e fugace.
Tornando alle passioni, queste ultime sono riconosciute come fattore dinamico della vita psichica delle persone. Tuttavia non manca di notarne la potenziale pericolosità e ambivalenza. Esse devono essere “addomesticate”, ammansite, edulcorate e ridotte a sentimenti, per levigarne il carattere potenzialmente (auto)distruttivo. Da forze caotiche, disordinate, distruttive si trasformano (o devono trasformarsi) in sentimenti pacati, controllati, ordinati, domesticabili. Il sentimento diviene così quella giusta via di mezzo, quella mesotès di aristotelica memoria (In medio stat virtus sarà la traduzione scolastica del concetto greco citato) tra la fredda a calcolante razionalità (quella che caratterizzerà l’ homo oeconomicus), e la troppo calda e (s)travolgente passione. Tale è il nuovo codice degli affetti in cui è possibile rintracciare la cifra della modernità. Charles Taylor (filosofo e sociologo canadese) ha persino identificato il sentimento come “il perno della cultura della modernità” . è sul codice del sentimento che si fonda la visione della famiglia come sfera intima, affettiva, in contrapposizione a una sfera pubblica oggi sempre più dominata dalle leggi del mercato e del consumo, dalla competitività selvaggia e dalla ricerca del profitto a tutti i costi. Ad ogni modo è sul sentimento, nel 700, che viene a fondarsi l’amore e la sfera privata moderna, la famiglia moderna (sia coniugale che genitoriale/filiale). Non dunque la passione fonda la famiglia ma il sentimento, l’ amour-amitié, l’amore amicizia, o l’amore-stima, che risponde ad alcuni dei bisogni più urgenti e forti dell’essere umano: il bisogno di affettività e diritto dell’individuo di scegliere il partner che ritiene più adeguato; il bisogno della durata, della sensazione di avere qualcosa di duraturo e stabile nella propria esistenza; una coesione interiore e una condivisione forte con la dimensione collettiva. Il sentimento però non è qualcosa di innato, ma lo si conquista non senza un a volte dilaniante conflitto interiore che può portare persino alla scissione del sé. La passione infatti rimane comunque, una forza vitale, necessaria per la costituzione stessa dell’identità. Nel romanzo di Rousseau, “La nuova Eloisa” (titolo ispirato dall’amore tra Abelardo ed Eloisa appunto), la protagonista, Julie, si innamora appassionatamente del proprio precettore ma rinuncerà a questa passione, questo “amour fou” per sposare un uomo attempato che le consentirà però di tenere insieme la dimensione soggettiva e la dimensione pubblica. Preferisce una tranquilla serenità a una passione travolgente ma pericolosa e “condannabile”. Sicuramente l’amore-passione può avere delle conseguenze distruttive: isola gli amanti relegandoli in una dimensione un po’ovattata, fuori dal mondo, dalla società, dalla dimensione pubblica, amore focoso, senza misura che vive e si alimenta solo di sé stessa, passione che si riempie solo di sé stessa e si nutre solo di sé; non è duraturo né stabile, è una vertigine, un uragano, una tempesta, un vortice che trascina potentemente i due amanti con sé ma che una volta esaurito rischia di annullarsi del tutto, fuoco che una volta spento diventa solo fumo e cenere; può portare, anch’esso, alla scissione del sé.
Tutto questo, accade comunque soltanto all’interno del soggetto, si tratta di un conflitto tutto interiore, tra l’io e l’io e non in nome di norme imposte o sancite dalla comunità, dalla collettività. È una lotta lacerante tra esigenze e bisogni diversi di uno stesso io, che se da una parte si sente animato da una passione che lo scuote, che lo riempie, lo colma, una passione che innalza la vita ai suoi massimi livelli, dall’altra sente l’esigenza di una pace interiore ed esteriore, di un equilibrio tra la sua dimensione individuale e quella collettiva, che se da una parte sente la vita in maniera più forte del normale quando avverte dentro di sé un desiderio desiderante, il desiderio stesso che si alimenta di se stesso, dall’altra anela una stabilità affettiva ed esistenziale durevole e sicura, una comodità su cui adagiarsi tranquillamente e quietamente. Se da una parte è la passione a tenerlo vivo e ad accendere la miccia del suo sentire, del suo provare sensazione, dall’altra teme la propria distruzione, la propria rovina come soggetto e come persona inserita in un contesto sociale e aspira a una coesione interiore ed esteriore. Altra novità riscontrabile nel testo del filosofo francese è la dignità conferita alla donna, che acquista valore di soggetto. Attenzione però, per quanto apprezzabili potessero essere le intenzioni dell’autore nel delineare questa nuova dignità, suo malgrado essa ha contribuito a far introiettare la figura femminile come quella dedita all’altro e alla cura degli affetti, fuori dalla dimensione pubblica. Per Rousseau infatti la donna è soggetto, sì, ma è soggetto destinato ad essere per l’altro: un soggetto altruistico, dedito appunto alla cura dell’altro, un soggetto oblativo, che annulla la dimensione del sé più proprio e individuale.
La donna è moglie e madre, è colei che gestisce la sfera degli affetti e delle relazioni familiari, dunque colei che deve occuparsi della sfera privata. Tale visione ha lasciato le sue tracce anche nella modernità: la donna ha il potere di unire, di tenere insieme, di gestire i sentimenti e le relazioni, ma finisce così di esser relegata nel chiostro della dimensione privata e l’esclusione dalla sfera pubblica, concessa soltanto all’uomo. Questa costruzione dell’immagine della donna si traduce anche in un’evitabile perdita del diritto al pathos e all’eros: per gli uomini le passioni sono rivendicate come un diritto, una forza, una connotazione positiva, eroica, mentre nella donna tendono spesso a generare sensi di colpa, e ciò si traspone anche nella sfera pubblica e collettiva, in quanto la società borghese condannerà sempre e solo l’adulterio femminile e mai, o di rado quello maschile – basti leggere romanzi come “La lettera scarlatta”, “Madame Bovary” o “La nuova Eloisa” stesso. In quest’ultimo vi è senz’altro una critica, da parte dell’autore all’amore fatale, a favore di un amore amicizia ma in realtà nello stesso tempo Rousseau sembra abbattere il mito della passione distruttiva, che porta alla morte del sé. Infatti il romanzo si conclude con un’emblematica frase pronunciata dalla protagonista, che lascia intendere che forse la scelta di sacrificare questa passione intensa per un quieto sentimento, per una quieta felicità, uno stabile e duraturo affetto non è del tutto fioriera di appagamento profondo. “La felicità mi annoia” dice Julie. Una frase che esprime una sorta di stasi inorganica, un’anestesia dell’io più vero e intimo, un’anestesia di ogni slancio vitale, una condanna a morte, muta e silenziosa della potenza della vita, un’apatia annichilente. Da questa felicità noiosa emerge un incolmabile vuoto dell’essere, che ha abortito una parte profonda di sé, che ha soppresso e ammutolito il desiderio irrequieto ma vitale e con esso ha perso la forza e lo slancio che se gettano l’io oltre o fuori di sé nello stesso tempo lo vivificano e lo fanno essere. L’io è desiderio o non è. È mero involucro di niente. La vita del soggetto desidera e desidera desiderare o muore di una morte lenta. L’io muore dentro perché uccide una parte di sé, la più viva, la più forte, la più vera, la più potente. L’io si adagia sul vuoto svuotandosi di passione e desiderio. La scelta di Julie ha dunque richiesto la rinuncia a una parte autentica del proprio sé e questo tradimento che l’io fa a sé stesso in qualche modo lo annienta. Perché Julie avverte di aver perso qualcosa. Avverte di non sentire. Avverte che la sua felicità l’annoia, non la appaga. Avverte di aver perduto l’io autentico e profondo che la faceva sentire viva. Forse non felice ma di fatto, viva. Il problema di Julie sta nel suo non riuscire a tenere insieme l’amore e la passione, il desiderio e il matrimonio, l’anelito di seguire l’uomo che ama e di cui, anche da sposata torna ad esser l’amante, e l’esigenza di essere rispettata pubblicamente, il desiderio instabile, continuamente in tensione e costantemente eccedente e il bisogno di stabilità ed equilibrio..è possibile, chiede la filosofa, trovare una sintesi virtuosa tra questi due poli così apparentemente inconciliabili? Già nell’800 cominciamo a vedere, che questo è possibile – si leggano ad esempio i romanzi di Jane Austen, in cui quasi sempre il lieto fine sancisce l’unione matrimoniale di un amore sincero e forte. Nel ‘900 poi il processo arriva a compimento, grazie in particolare all’emancipazione femminile, a una relazione tra sessi più libera da gerarchie.
In ogni caso, quel che Rousseau sembra aver voluto suggerirci è di riconoscere l’ambivalenza dell’amore e l’impossibilità di viverla pienamente o in maniera appagante e completa. La sfida, conclude Pulcini, è quella di imparare ad abitare e gestire tale ambivalenza senza fingere che non esista, consapevoli degli aspetti chiaroscurali, delle sfumature infinite, ambigue, perennemente in precario e vertiginoso equilibrio, delle emozioni e delle passioni e cercar di vivere, nella maniera possibilmente più libera e incondizionata, la ricchezza inesauribile di una piena “democrazia delle emozioni”.
“Così tra questa immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare”
Giacomo Leopardi
È toccato a un filosofo, e non a un fisico o ad un astronomo concludere l’affascinante ciclo di conferenze, dal titolo “La luce e il cosmo” che si sono tenute da lunedì 19 a venerdì 23 ottobre presso il Nuovo Auditorium di Piazzale della Resistenza a Scandicci. Perché un filosofo? In realtà in epoca antica filosofia e scienza (in particolare la matematica) si intrecciavano mirabilmente. Basi pensare ad Eratostene, ma anche a Talete, ai pitagorici... In ogni caso, fin dall’antichità il filosofo non smetteva di sondare il cosmo, le stelle, il cielo e la terra, da Eraclito, Tolomeo, Platone, Aristotele fino ad arrivare alla scolastica medievale. Certo, la visione cosmogonica di questi pensatori antichi poco o nulla rispecchiava del cosmo come lo conosciamo noi, grazie a scoperte scientifiche, fisiche e matematiche, che hanno avuto il loro apice con la cosiddetta rivoluzione copernicana.
Il pensiero di Althusser II: Antiumanesimo teoretico
A partire dalla seconda metà del Novecento il paradigma umanista, che ha dominato l’orizzonte culturale del mondo occidentale lungo tutta l’età moderna, è entrato in una crisi profonda che riflette una insoddisfazione crescente nei confronti della presunzione degli approcci di matrice cartesiana di porre l’essere umano al centro di ogni riflessione filosofica.
Non solo eventi storici dalla portata devastante come le guerre mondiali, i genocidi di massa, la corsa agli armamenti e la conseguente minaccia di distruzione atomica, ma anche radicali trasformazioni sociali ed economiche che hanno visto l’esaurirsi del sistema di produzione fordista, in un contesto di globalizzazione e di crescita delle disuguaglianze sia all’interno dei paesi industrializzati che fra paesi del sud e del nord del mondo, hanno contribuito a mettere profondamente in discussione l’ottimismo che ha contrassegnato quello che Habermas ha definito "il progetto della modernità". Alla prova dei fatti, la concezione che ha interpretato l’uomo come autonomo ordinatore della realtà, come il protagonista razionale e il deus ex machina di un processo storico, di una marcia trionfale di crescita e progresso tecnico che lo avrebbe condotto all’emancipazione e alla felicità assoluta, ha dimostrato tutta la sua inconsistenza.
È in questo clima di forte insofferenza verso gli insegnamenti tradizionali che comincerà a diffondersi, soprattutto in Francia, sia nell'ambito filosofico che delle scienze sociali, l'approccio strutturalista. Facendosi interpreti del disagio nei confronti della filosofia tradizionale, alcuni dei suoi principali esponenti quali Lévi-Strauss, Foucault, Lacan e Althusser sono riusciti nella sfida di coniugare l’insegnamento dei maestri Marx, Freud e Nietzsche, attenti nel descrivere le forze latenti che determinano il comportamento umano, con gli impulsi formalisti che provenivano dalla linguistica di Saussure, portando così a compimento un percorso teorico particolarmente fecondo di messa in discussione del concetto di uomo e di soggetto così come concepito dalla filosofia tradizionale, da Cartesio in poi.
Le riflessioni teoriche di questi autori tendano a minare profondamente l’immagine predominante dell’uomo che si è imposto nella modernità: se nel pensiero umanista l’essere umano è concepito come libero, capace di iniziativa e di apportare il cambiamento con la ragione, inserito in un flusso temporale costante che lo rivolge verso il progresso e la certezza di un futuro migliore, nell’ottica strutturalista è invece interpretato come profondamente determinato da elementi esterni e latenti in un contesto in cui le sue azioni si traducono nella continua riproduzione della realtà, ordinata, senza tempo e uguale a se stessa.
L'apporto specifico di Althusser alla critica antiumanista è di fondamentale importanza, tanto per la sua capacità di contribuire in maniera feconda alla riflessione strutturalista, quanto per quella di aggiornare il pensiero neomarxista di Gramsci e Lukács al contesto del dopoguerra e del pieno sviluppo della società fordista.
In primo luogo, l’obiettivo dichiarato di Althusser era quello di confutare la concezione del marxismo umanista secondo cui il pensiero dell’autore de "Il Manifesto" vada interpretato come una dottrina politica della libertà in cui viene enfatizzato il ruolo attivo e creativo di donne e uomini nel cambiare il mondo e rompere le catene dell’oppressione dello sfruttamento capitalista.
Secondo Althusser la teoria marxista è innanzi tutto una analisi scientifica della fase di dominazione capitalistica e non un pamphlet moralizzante. In quest'ottica, l'oggettività dell'impresa scientifica richiede uno studio rigoroso del sistema capitalistico e della società borghese, avulso da ogni forma di ideologia, soprattutto quella umanista. Porre al centro l'essere umano, e attribuirgli caratteristiche innate di razionalità, autonomia e coscienza, come fa la filosofia umanista, è una grave distorsione che impedisce una lettura della realtà estranea agli interessi di parte.
L'antiumanismo teoretico di Althusser è dunque innanzitutto questo: l'invito a studiare la realtà sociale considerando l'essere umano come uno degli elementi che la caratterizzano ma non come il centro da cui dipende tutto, il deus ex machina che ordina il mondo.
Seguendo la scia di Spinoza, Althusser riconduce alla categoria di ideologia anche il soggetto stesso, interpretato come una illusione del tutto immaginaria. Il Marx del Capitale, secondo Althusser, si libera dell’umanesimo e di un modo di filosofare incentrato sul soggetto per ridurlo, alla stregua di Spinoza, a mera ideologia che come tale deve essere espulsa da ogni teorizzazione scientifica. Questo sforzo è ravvisato da Althusser negli scritti di Marx dal 1845 in poi in cui il filosofo tedesco «rifiutando l’essenza dell’uomo come fondamento teorico […] bandisce le categorie filosofiche di soggetto, empirismo, essenza ideale ecc. da tutti i campi in cui regnavano» e, riconducendo l’umanesimo alla sua funzione pratica di ideologia, apre la strada a una conoscenza scientifica del mondo umano.
Spostare l'attenzione dagli uomini o gruppi sociali, per concentrarsi sui già dati rapporti di produzione che distribuiscono meccanicamente i ruoli e le funzioni che gli uomini ricoprono nella loro vita quotidiana, implica ripensare non solo la centralità del soggetto ma anche smantellare i presupposti di coscienza e autonomia che gli sono sempre stati attribuiti.
La libertà in questo frangente va vista come è una condizione di possibilità del sistema, non come una attribuzione o una caratteristica posseduta intrinsecamente dagli esseri umani. Questi ultimi, o le classi sociali nelle quali sono inseriti, non sono i soggetti della storia ma semplicemente dei portatori o supporti (Träger) dei rapporti di produzione. Fra le più importanti conseguenze di questa interpretazione sta una visione dell’individuo che, contrariamente a qualsiasi concezione filosofica legata all’umanismo, sia essa di matrice illuminista che socialista, non ha alcun peso nel determinare la storia, ma si limita semplicemente a riprodurre il compito che gli viene assegnato. Il cambiamento sociale, la rivoluzione non ha a che fare con l'azione illuminata di alcuni soggetti ma è una mera possibilità, peraltro intrinsecamente aleatoria, derivante da particolari e favorevoli situazioni strutturali come quella della Russia degli inizi del Novecento. Se il motore della storia è la lotta di classe, quest’ultima non ha nulla a che fare con la libera iniziativa degli individui che acquisiscono coscienza della loro condizione, piuttosto è l’esito dell’influenza reciproca fra le varie sfere della società all’interno della struttura. Non essendo il demiurgo della storia ma piuttosto subendone gli avvenimenti, l’essere umano subisce un radicale decentramento rispetto al centro della conoscenza e della realtà, ruolo al quale l’umanismo lo aveva eretto.
Ma questo “antiumanismo teoretico”, pur decentrando in maniera radicale e riducendo a mero meccanismo l’essere umano e rifiutando di considerarlo l’unità di analisi privilegiata di qualsiasi discorso scientifico, non rompe in maniera decisiva con il progetto illuminista e modernista di una conoscenza oggettiva che si erga a baluardo nei confronti di tutti i tentativi mistificativi delle forme di oscurantismo ideologico che riproducono le disuguaglianze sociali.
Certo, come ammette lo stesso Althusser, non è facile essere marxisti in filosofia, non è facile armonizzare la contrapposizione fra il pensiero scientifico e quello ideologico, ma è da questa distinzione che occorre partire per evitare che la critica al positivismo, all’umanesimo, allo storicismo, al razionalismo cartesiano non si riduca a mero nichilismo. Solo una critica teoretica, rivolta ai fondamenti della concezione umanista della filosofia occidentale, può, mettendo da parte ogni connotazione moralista, far comprendere quale è il posto dell’uomo nel mondo: ciò significa a un tempo rimarcare la sua mancanza di libertà rispetto alle regole strutturali che lo avvolgono ma, allo stesso tempo, permette di liberarlo dalla fallacia ideologica nel quale è stato rilegato dalla concezione umanista.
Sebbene ad oggi l'enfasi posta da Althusser sulle forme di dominazione a cui si deve piegare l'uomo, incapace di generare cambiamento in quanto inserito in ruoli che ripete all'infinito, appaia eccessiva e troppo sminuente nei confronti della capacità dell'uomo di promuovere il cambiamento, non deve sfuggire l'intento di Althusser che non è tanto quello di negare la possibilità che l'essere umano apporti un contributo per determinare la sua liberazione, quanto quello di liberare l'uomo dalla presunzione di pensare di essere al centro dell'universo. L'idea borghese dell'uomo così come teorizzata da Cartesio fino a Kant, come vedremo quando Althusser ci parlerà degli Apparati Ideologici di Stato, è un meccanismo di dominazione perché nel farci credere di essere soggetti liberi e già autonomi, distrugge lo spirito critico e rende docili: immaginandosi come soggetti già intrinsecamente votati alla libertà, diventa meno lucida la nostra capacità di comprendere che in realtà siamo assoggettati a una forma di dominazione sottile che facendoci credere di essere liberi, genera in realtà consenso e riproduce lo status quo.
Ecco allora che appare chiaro l'obiettivo di Althusser: resistere all'umanesimo in quanto strumento ideologico funzionale al capitale, analizzare il capitalismo per quello che è, ovvero un sistema di sfruttamento, non dovuto alla "cattiveria" della classe dominante, ma legato a elementi strutturali come la proprietà dei mezzi di produzione e la presenza di rapporti di produzione. Solo rimanendo ancorati all'analisi scientifica ci si può permettere di sfuggire alla trappola ideologica di considerare l'uomo come razionale demiurgo della propria libertà e si può aprire le strade al vero cambiamento sistemico.
"È proprio di ogni nuovo inizio di irrompere nel mondo come “una infinita improbabilità”: pure, questo infinitamente improbabile costituisce di fatto il tessuto di tutto quanto si chiama realtà.”
Hannah Arendt
Nell’ambito dei cicli di conferenze che si svolgono al Gabinetto Viessieux, lunedì 12 ottobre si è parlato del pensiero di una grande filosofa, Hannah Arendt. Dopo un appello contro le misere finanze del Gabinetto che, proprio a causa della mancanza di fondi non ha potuto purtroppo, pubblicizzare l’evento, il moderatore Stefano Berni, uno dei co-fondatori del gruppo Quinto Alto, presenta i relatori: Giuseppe Guida, professore di storia e filosofia al Liceo Rodari Cicognini di Prato, grande esperto di filosofia tedesca e di storia della filosofia (e filosofia della storia) e Agnese Della Bianchina, giovane dottoressa in filosofia e specialista del pensiero di Hanna Arendt, protagonista della tesi di dottorato.
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