Mercoledì, 11 Febbraio 2015 00:00

Il folle Milarepa e il Professor Vallauri, dal Tibet alla biblioteca di Scandicci

Scritto da
Vota questo articolo
(7 Voti)

“… durante la notte, nei miei sogni, potevo attraversare senza impedimenti l’universo in qualsiasi direzione, dalla cima del Monte Meru alla sua base e distinguevo chiaramente ogni cosa…”.

(Milarepa)

Continua l’interessante ciclo di incontri letterari/filosofici presso il Nuovo Auditorium di Scandicci e domenica, otto febbraio, è stato il turno di Luigi Lombardi Vallauri, ordinario di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Firenze, che ha presentato “I centomila canti” di Milarepa, edito da Adelphi e tradotto da Kristin Blancke e Franco Pizzi.

Prima di entrare nel vivo dell’opera e dell’autore, Vallauri, come già diverse volte fa in altri suoi interventi, ha invitato l’uditorio a soffermarsi sul meraviglioso prodigio della parola. “Non sono io a prendere la parola, è la parola che prende me”, dice il professore, esortando il pubblico a riempirsi di meraviglia di fronte a questo prodigio del linguaggio che è in corso. Il portento che fa sì che da un ammasso di “carne” quale è il cervello, escano fuori dei concetti intelligibili. Il cervello è l’oggetto più complesso dell’universo ed è un vero e proprio prodigio soprattutto se si riflette sull’assoluta eterogeneità ontologica tra la carne e i pensieri coscienti e intelligibili che da essa spuntano fuori, producendo il logos. Seguiamo allora, continua Vallauri, il canale della meditazione e quello dello stupore, dinnanzi a questa sorta di miracolo.

Bene, dopo la presa d’atto di qualcosa che ci è così vicino e familiare come la parola ma su cui non ci soffermiamo mai abbastanza senza carpirne il meraviglioso mistero che dovrebbe lasciarci attoniti, inizia il suggestivo, profondo e affascinante, in maniera quasi ipnotica e calamitante, intervento del professore.

Il monte Kailash, su cui visse Milarepa, è il monte più sacro dell’umanità, esordisce Vallauri e alle sue pendici c’è il grande mantra Mi inchino al gioiello del fiore di loto, che recita così: “mi inchino al gioiello della mente spirituale che risplende nel fiore di loto del corpo cosmico”.

Chi era Milarepa, questo mago, poeta ed eremita, che ebbe una vita alquanto estrema, con dei trascorsi persino criminali (da vedere il film del ’74 Vita di Milarepa di Liliana Cavani) che visse nell’undicesimo secolo in Tibet, lo “yogin errante tra le montagne innevate che diffonde intorno a sé un mandala di felicità”, il cui nome significa “Mila vestito di tela”, a sottolineare che egli meditava vestito di solo cotone nei rigori estremi delle cime dell’Himalaya nutrendosi di sole ortiche, fino a diventare del loro colore? Vallauri legge qualche citazione sul suo conto. “è il più famoso e amato degli yogi spirituali tibetani (…) vestito solamente di un perizoma di tela a 10/15 gradi sotto zero, lassù sulle cime innevate dell’Himalaya, raggiunge il Buddha e canta la sua voce spirituale”, scrive Carla Gianotti. “Fu mago, poeta ed eremita, il San Francesco del Tibet vissuto nell’ XI secolo”, si legge in Bacone. E infine, scrivono i traduttori Blancke e Pizzi “è un santo molto popolare delle scuole del buddhismo tibetan . Un pozzo di saggezza inarrivabile. Costante maestro della via della ricerca” .

Certo, tutto vero, prosegue l’emerito professore, ma è difficile in realtà considerare Milarepa oggettivamente, perché significa parlarne come un “lui”, mentre, afferma “il mio incontro con Milarepa è stato un incontro con il tu”, il tu che , come scrive il filosofo Buber “sta davanti e riempie tutto l’orizzonte”. Un po’ come quando si parla di un padre, non se ne parla oggettivamente, non c’è distanza, è un rapporto fra me e il padre, fra un io e un tu. È dunque un modo esistenziale io-tu quello dell’avvicinarsi al maestro tibetano, da parte di Vallauri, che continua dicendo che di aver lo frequentato per incursioni, tentativi quotidiani per realizzare il mio anelito al sublime”. Quindi non si tratta neanche di una vera e propria lettura. Il professore ammette di non essere “forse, purtroppo, un vero e proprio Milarepa”, essendo professore, con 5 figli e 10 nipoti, un possidente, “un homo eroticus urbano”, per quanto assolutamente non consumista (“ho solo una vecchia macchina da scrivere e una macchina fotografica!” esclama), ma la “mia vita”, prosegue, “contiene politeistiche contraddizioni e non è perciò asceticamente unitaria come quella di Milarepa”. Eppure questo personaggio è fondamentale nella sua esistenza, perché lo ha proiettato verso il cosmo e verso la montagna. ”L’eremitismo himalayano è una mia nostalgia”, sussurra Vallauri, che i quei luoghi c’è stato e che durante i suoi corsi, forse proprio per ripetere l’esperienza su quelle cime tibetane, usa portare i propri studenti su quelle delle alpi, per assaporare i momenti di silenzio meditativo, il tocco delle pareti dolomitiane, l’estasi vertiginosa della montagna, primo scalino verso le altezze cosmiche. Il professore si sente soggiogato da “questo vagheggiatore naif” soprattutto per i seguenti aspetti: la profonda dottrina; la testimonianza vissuta di conseguimenti spirituali altissimi (dunque non si tratta di sola dottrina, ma di vera e propria realizzazione); la facilità con cui i fatti concreti vengono spogliati dal loro involucro mitico; il fascino dell’eroico e dell’estremo; il rango poetico della sua opera (tanto che Milarepa viene considerato il più grande poeta tibetano); infine, ma non ultima, la follia (“è un pazzo sotto tanti punti di vista! È diventato famoso, ad esempio, per “esser diventato un bruco verde nudo, dato che in montagna a venti gradi sotto zero si copriva solo di un perizoma di stoffa e mangiava solo ortiche”).

Ma l’insegnamento vero di Milarepa è paradossalmente il non Milarepa. Ovvero, per lui vale lo stesso detto del dito che indica la luna, se guardi Milarepa è come se vedessi solo il dito, ma se guardi attraverso di lui, allora puoi vedere la luna. “Milarepa è le cose non Milarepa che Milarepa è per me”sofisticheggia Vallauri, e spiega: “Milarepa è il silenzio con la S maiuscola. È la luce con la L maiuscola che estingue la mondanità ma non il mondo. È la contemplazione fisica dell’aperto. È l’alta montagna. È il cielo. Insomma, c’è abbastanza Milarepa in me perché io sia un disadattato sociale!”.

Passando ad accennare la dottrina di questo yogin tibetano, il professore tende a evidenziare come in essa si stabilisca il primato della pratica. Non si tratta di una teoria della teoria, bensì di una teoria della pratica. A volte questo strano personaggio prendeva addirittura in giro la scolastica buddista tibetana, da cui prende le distane, pur conoscendola profondamente. Vi è nella sua dottrina una critica costante del discorso dialettico e religioso confessionale e istituzionale. Milarepa è il folle, è fuori da tutte le righe.

Altro aspetto essenziale della sua dottrina/pratica è la ridicolizzazione dei desideri mondani, dell’io desiderante e degli oggetti desiderati, che sembrano sostanze ma sono solamente e vanamente delle parvenze, in costante bilico tra l’essere e il non essere, tanto sono effimere e inconsistenti. Eppure, questa percezione della nientità, della vacuità e vanità non genera indifferenza, bensì compassione. Siamo nati tutti come dei condannati a morte, ma ciò non toglie niente alla poeticità dell’esistenza e alla compassione, al sorriso di fronte ai disgraziati che tutti siamo. Milarepa si china sui morituri pieno di meraviglia e di compassione. Inoltre lo yogi invita a vedere il mondo come Logos, come intelligibilità. È vero che molte cose al mondo sono casuali, ma al di sotto di questa apparentemente caotica e incontrollabile casualità c’è dell’intelligibile necessario. Un corpo vivente è una meraviglia assoluta, un meccanismo perfetto. Il mondo è una meraviglia permeata di logos, che è l’equivalente del concetto buddista di Dharma Kaya, che rappresenta l’ultimo stadio di un percorso contemplativo e meditativo, in cui si arriva a vedere la difettibilità del mondo ma nello stesso tempo anche il suo radicamento nell’assoluto.

Vallauri suggerisce poi tre aggettivi con cui dipingere il suo Milarepa: “eccelso, estremo, strano”. Per quanto riguarda il suo essere estremo, basta pensare al fatto che aveva sterminato la famiglia con la sua magia nera ed esser stato costretto ad espiare “compiendo sfide inenarrabili”, tra cui, appunto, l’ascesi fisica oltre che simbolica, delle altissime e freddissime montagne del Tibet; o al fatto che, come abbiamo già detto, in mezzo alle tormente di neve, sulle cime innevate dell’Himalaya, sui picchi acuminati del monte più sacro dell’umanità fosse coperto con un sottile perizoma di cotone e si nutrisse di sole ortiche perché il calore ascetico era maggiore del gelo e l’estasi saziava, riempiva molto di più del cibo, che è solo una sostituzione di essa, come se ci si riempisse la pancia per sostituire la mancanza di riempimento spirituale. E a Milarepa bastava soltanto quello e diceva: “se posso morire qui nella solitudine della montagna posso dire di aver realizzato il mio sogno di yogin”. Anche per quanto riguarda la stranezza esistono diversi episodi della sua vita che l’attestano. Una volta sembra che vedendolo vagare nudo, con il membro eretto, i suoi discepoli e le sue sorelline (“lo trovano nudo e verde”), presi da un senso di imbarazzo gli chiesero di coprire “le vergogne” e gli prestano un pezzo di stoffa. Il Maestro, ne fa dei piccoli tubettini con cui va a coprire le punte delle dita delle mani, dei piedi e del pene, giustificandosi dicendo che non sapendo cosa intendessero per vergogne si era coperto tutte le parti sporgenti del proprio corpo, intonando poi un canto.

È straordinariamente estremo, ma anche straordinariamente concreto. Va a mendicare, ad esempio e anche quando viene preso a sassate da una vecchia, lui intona “il canto della nonna”, talmente sublime e struggente da spezzare il cuore (“O nonna dal cuore nero (..) O nonna, tu che sei sempre la sola ad avere pazienza (…) O nonna, avvilita per il declino del corpo illusorio (…) O nonna rugosa…O nonna piena di rimorsi senza alcuna sicurezza nella morte”). Ad attestare la sua concretezza è anche un episodio: quando il suo discepolo prediletto, Rechungpa, è pronto per partire verso il luogo dove “ci sono tutte le cose” (templi, lama, maestri, sapienza, libri…), dopo aver completato l’iniziazione ricevuta dal maestro, questi lo ferma dicendogli che ha un ultimo insegnamento da impartirgli, e così dicendo gli mostra il sedere calloso che “è diventato così per la meditazione”. L’insegnamento supremo, che vale più di tutta la teoria, è un insegnamento pratico e visibile, di una concretezza quasi brutale.

Milarepa è anche il poeta della desolazione della famiglia consumata per i piaceri e sulla precarietà della bellezza e della giovinezza. È il poeta del distacco, non solo dalle vacue cose materiali ma anche dagli affetti, dai legami, dalle persone care, che ama ma di un amore diverso, un amore che non stringe, un amore che non vincola, che non crea dipendenze. Un amore che sa lasciare, sa abbandonare. Sa bastare a sé stesso. Sa alleggerirsi di quel peso troppo soffocante che a volte impedisce di essere liberamente e felicemente autosufficienti e immensi, in estasi e beati nella propria solitudine, che lascia sì spazio a questo diverso tipo di amore, ma è uno spazio in cui non c’è, per così dire, spazio per ciò che lega. Lancinanti e quasi spietati i canti sulla moglie (“All’inizio la sposa è una dea (…) in seguito è un’orchessa con occhi di cadavere (…) alla fine è una vacca sdentata, un’orchessa che rode la mente ..”), o desolati e tristi quelli sul figlio (“All’inizio è un leggiadro rampollo degli dei. L’amore che gli si porta è intollerabile. In seguito i debiti da pagare sono insostenibili. Il padre lo chiama ma non riceve risposta. La madre non ottiene parola da lui (…) Alla fine è un vicino poco affezionato. È un nemico nato da noi stessi che rode la mente”).

Struggente e toccante (tanto da far commuovere Vallauri) invece il canto al discepolo Rechungpa, prima di congedarsi a lui: “Quando il maestro è vecchio è difficile che i giovani si interessino a lui (…) Il padre viene abbandonato come un vecchio elefante, mentre il figlio, forte come uno jac parte per “U” (il luogo dove ci sono tutte le cose)”; oppure, sempre a Rechungpa: “Caldo raggio del sole. Stendardo che sventola (…) figlio mio bello, Rechungpa, leonessa bianca delle nevi (…), non scendere a valle, rimani sui picchi nevosi (…) non temi di danneggiare le tue ali scendendo tra la folla? (…) pesce dagli occhi dorati, non venire a riva (…) Il mio figlio amato è partito per U.”. Questo canto lascia intendere che sapersi distaccare non significa non provare amore, affetto, né significa non sentire dolore o anche pungente e profonda sofferenza dalla perdita o dipartita di una persona cara. Nello stesso tempo però si sa lasciarla andare. Si accetta che essa parta, che se ne vada. Milarepa sa che l’amato discepolo deve partire e approdare a nuovi lidi. Ma non lo trattiene. Arrivederci. Anzi, probabilmente, addio. Parola piena d’amore che accompagna, per sempre e ovunque, chi se ne va. Anche quando non ritorna. Addio, per sempre, ovunque tu sia, io, ti saluto e continuo a salutarti sempre con il mio addio. Ti accompagno, in qualche modo, ma dicendoti sempre, dalla mia, dalla tua lontananza, addio.

Ci sono poi bellissimi canti sul corpo e le sue energie, come il canto delle sei beatitudini che conducono sempre all’estasi, che mai ha oggetto. Milarepa è arrivato a riempire sé stesso e la propria esistenza di pura estasi, è arrivato alla “superfelicità”. Come scrive la Gianotti “Milaraspa diffonde la melodia (…) e la sfida adamantina a cercare le più alte dimensioni dell’essere: la felicità, la beatitudine e la gioia, in ordine decrescente.”

La felicità è una condizione stabile, la beatitudine invece è qualcosa che mi può capitare. È un excessus menti. si è felici e si può provare beatitudine ma quest’ultima non è stabile come la felicità. È simile al cielo, non è legata ad oggetti, riassume in sé il vuoto e la pienezza e li contiene entrambi. È una sorta di vuoto pieno o di pienezza vuota: “Lo stato puro della beatitudine è il vuoto (…) La gnosi di beatitudine e vacuità”.

Nel canto delle dodici (ma per Vallauri sono 11 in realtà) felicità, si legge più o meno così: “Come un criminale scappato di prigione lo yogin si allontana da tutti ed è felice; (…) come un cavallo senza briglie lo yogin non ha attaccamenti né dipendenze ed è felice (…) Come il monte Meru (l Kailash) al centro dell’universo lo yogin è felice (…) Come l’aria lo yogin si spande ovunque ma ne è felice (…) Come il sole che brilla nel cielo la luce dello yogin raggiunge ogni cosa e ne è felice. Come un’aquila che fende il cielo lo yogin è convinto della sua visione e ne è felice (…) Come lo scorrere del grande fiume le esperienze fluiscono e lo yogin ne è felice …” e altre felicità. Felicità, però attenzione, senza ritorno, come le foglie della palma che non ricrescono. Non ci sono promesse di eternità né in questa vita né in una ultraterrena. Eppure, anche in questo lasciare la propria vita, in questo congedarsi dall’esistenza senza ritorno lo yogin resta felice. Qualsiasi cosa faccia, lo yogin è felice, perché la sua felicità è insita in ogni azione, qualunque essa sia. Perché la sua è una felicità che non abbisogna di nient’altro che di sé stessa, trova pienezza nel proprio vuoto, nelle proprie rinunce. Nel distacco dalla famiglia, nell’abbandono dell’orgoglio, dei beni materiali, della ricerca di fama e di gloria. Nello scrivere senza desiderio di erudizione… (“Quando entrate in contatto con ricchezze ambite,/fate attenzione che non nasca l’attaccamento./Quando siete colpite dai dardi di parole offensive,/fate attenzione che il vostro udito non s’inganni./Quando siete in compagnia di amici,/fate attenzione che non nasca l’invidia. /Quando ricevete onori e riverenze,/fate attenzione che non nasca l’orgoglio. /In ogni momento e in ogni circostanza, /domate i demoni cattivi del vostro flusso mentale. /(…) meditate tutto ciò che sorge come vacuità e illusione..”)

Tali felicità però non scendono dal cielo, sono frutto di enormi fatiche, sono raggiunte dopo sforzi e pratiche difficilissime. La felicità è la conquista difficile del contemplativo. Lo yogin basta a sé stesso. C’è un altro canto, intitolato delle 8 autosufficienze, in cui persino quei tre capisaldi che tanto ricercano i discepoli, il tempio, il testo e il maestro, in realtà vengono “ridimensionati”: il maestro è un corpo-mente nel mondo. Come testo può bastare il mondo aperto intorno a te. Come veste può bastare il calore ascetico. Il cibo è mera sostituzione dell’estasi e se hai quella non hai bisogno di alimentarti … certo, replica Rechungpa, ma come posso imparare che i maestri sono inutili se non è un saggio maestro a insegnarmelo? Come posso apprendere che i libri non servono se non c’è un libro in cui ciò sia scritto?

Difficile trovare risposta a queste legittime considerazione del discepolo. E noi probabilmente possiamo capire ancor meno di lui. Eppure, conclude Vallauri, Milarepa c’entra tantissimo con noi e le nostre vite, col nostro stile di vita, che non ci rende felici, e che se esteso a tutta l’umanità ci conduce alla fine del mondo, all’autodistruzione. Probabilmente non potremo mai arrivare alla vita e all’ascetismo di Milarepa, e non è neanche detto che debba essere quella la meta da raggiungere, ma per lo meno quel suo stile di vita, quel suo inchinarsi di fronte alla meraviglia del creato e anche di fronte alle sue imperfezione, quello spogliarsi dell’involucro della materialità, degli oggetti, delle ambizioni, quel suo saper alleggerirsi, sapendo anche lasciar andare ciò che rischia di stringere, il suo saper essere al centro ma spandersi ovunque, quel suo svuotarsi per riempirsi di ogni cosa, può indicarci una direzione. Quella vita fatta di felicità vera, genuina perché autosufficiente – che non è simile a quell’ebbrezza che stordisce, quella frenesia fasulla che chiamiamo felicità, che crediamo di ottenere consumando e desiderando sempre di più, ingozzandoci, sempre più famelici, voraci e avidi, alle spese di altri di altri esseri umani, dell’ambiente e di altri esseri viventi in generale - se limata dai suoi estremismi inarrivabili, può essere quel dito che indica la luna per rendere più sostenibile la nostra vita e il nostro mondo. Ma non dobbiamo fermarci al dito, altrimenti rimarremo ingabbiati nel nostro circolo di autodistruzione. Bistecca-Benzina-Business-Bibbia-Bomba-Bush. Le sei B del disastro e della distruzione, le chiama Vallauri, che, estese su scala globale, significheranno, ben presto, la fine del nostro stesso mondo.

Infine, il professore conclude il suo intenso intervento salutandoci con due ultime citazioni. Una riprende quella con cui aveva esordito: “Mi inchino a ognuno di voi, gioiello della mente spirituale che risplende nel fiore di loto”, l’altra, di Milarepa, recita così:

Così come lo spazio abbraccia la terra, l’acqua, il fuoco e il vento,

possa io, allo stesso modo, abbracciare tutti gli esseri”.

Si possa anche noi, dopo questo incontro con Vallauri e con il “folle Milaprepa”, uscendone incantati, quasi storditi e sospesi in un’altra dimensione, più eterea, più evanescente forse ma che induce alla riflessione e a una concreta presa di coscienza e consapevolezza, guardare il mondo con occhi diversi e anziché divorarlo strappandone un pezzo alla volta, provare a contenerlo in un unico grande abbraccio, inchinandosi a tutti quei gioielli delle menti spirituali nascosti nei fiori di loto che in ogni attimo, se facciamo attenzione, scintillano nell’anima di tutti gli esseri che ci circondano.

Immagine liberamente ripresa da www.thangkas.com

Ultima modifica il Lunedì, 09 Febbraio 2015 18:32
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.