A prender inizialmente la parola è stato l’assessore alla cultura Stefano Calistri, che oltre a portare i saluti dell’Amministrazione comunale ha sottolineato quanto sia importante che un ragazzo di soli diciotto anni trovi il coraggio, la voglia, l’entusiasmo e la passione per scrivere un libro, nonostante sia figlio e contemporaneo di una generazione in cui la tecnologia esasperata, gli e-book, la sfiducia che dilaga tra editori e scrittori emergenti e non solo, abbia un po’ la meglio. In seguito è stato l’editore del libro, Leonardo Bertelli a prendere la parola. Il professore si dice soddisfatto per aver dato un piccolo contributo a tutto quel vortice di idee, pensieri, considerazioni, riflessioni che emergono dalla mente di Francesco e aggiunge che tutto ciò che come editore ha fatto è stata un’operazione grafica per dare a dei contenuti di per sé già perfetti, una forma che fosse il più maneggevole e leggibile possibile. O meglio, anziché il termine leggibilità Bertelli e Francesco hanno trovato un’espressione forse più adatta ad esprimere il lavoro editoriale: bellezza è quando la forma rivela il suo contenuto. E, aggiunge Leonardo, da questo libro, ciò che emerge innanzitutto è la personalità dell’autore, la sua capacità di esprimere e difendere delle idee dotate sempre di una logica, anche quando questa può essere dettata dal sentimento.
È stato poi l’autore della prefazione, il giornalista Rudy Caparrini a presentare l’opera di Francesco. Rudy ringrazia il ragazzo per avergli concesso un compito così onorato ma anche oneroso, gravoso allo stesso tempo. Infatti il giornalista confessa che scrivere la prefazione a un libro così ricco di contenuti, riferimenti a mostri della letteratura mondiale (Tolstoj, Dostoevskij, Dante, Manzoni, Dickens e molti altri) o della filosofia è stata un’impresa che usciva dalle sue stesse competenze. Caparrini elogia la grande maestria di questo piccolo genietto nel saper costruire una progressiva esposizione di ragionamenti sempre così razionali, acuti e sempre concatenati, mai casuali. Gli interrogativi, le riflessioni profonde che si pone Francesco sono quei dubbi, quelle domande cruciali, fondamentali (nel senso tedesco di grund, il nostro fondamento, ciò che ci fonda nel profondo, per così dire) che due millenni di filosofia non sono riusciti a risolvere una volta per tutte. E oserei dire, per fortuna, perché, come scrive anche Francesco, il dubbio è, in ultima istanza, ciò che fa di noi ciò che siamo, è, cartesianamente, la nostra vera essenza. Se non ci poniamo domande, se non dubitiamo, se non scaviamo dentro gli eventi, se non sottoponiamo a esame la realtà che viviamo ma vi ci adagiamo supinamente, passivamente, come meri spettatori, se non prendiamo ciò che ci circonda con la meraviglia e il giusto senso di critica di cui possiamo esser capaci, allora difficilmente potremmo sperare di trovare delle risposte (o per lo meno dei tentativi di risposta), difficilmente riusciremo a trovare un senso o uno scopo che ci permetta di vivere un’esistenza degna di tale nome, così come difficilmente potremmo sperare di stupirci del mistero insondabile di tutto ciò che ci accade. Francesco, continua Rudy, parte dalle cose più semplici, più familiari e quotidiane, per poi passare a temi più alti, fino a rivolgersi al cielo, che diventa una sorta di confidente, cui affidare le domande più difficili e abissali. Cielo che rappresenta l’orizzonte delle nostre aspirazioni, del nostro anelito verso l’infinito, rappresenta quella tensione inesausta al nostro desiderio di elevazione, oltre i nostri limiti e possibilità umane, rappresenta quello sconfinamento oltre la materialità della nostra condizione umana. Cielo che diviene il nostalgico, malinconico e poetico paesaggio lunare di eco leopardiana; cielo lombardo così tanto sublimato dalla prosa manzoniana, cielo trapuntato dalle stelle, con cui Dante ha voluto emblematicamente chiudere ogni sua cantica. Ed è proprio sulle stelle – magiche e luminose guide verso l’ignoto, metaforiche segnaletiche di una trascendenza che ci sovrasta, portatrici di un messaggio che proviene dalle profondità abissali dello spazio, un messaggio indecifrabile che si dilata fino a spalancarsi dentro il nostro spirito facendoci intuire la voce dell’assoluto – che l’autore del libro esorta a costruire la propria vita. Spesso infatti, soprattutto nei nostri tempi, tendiamo, chi più chi meno, ad essere cupi, scoraggiati, a vedere tutto nero, avanziamo con gli occhi gettati a terra, incapaci di lanciare uno sguardo verso l’alto; intorno a noi scorgiamo solo nebbia, buio, indifferenti verso il mondo e verso gli altri, mentre, conclude Caparrini, abbiamo bisogno di ritrovare uno sguardo che si riapra a cercare la luce, a rivolgersi di nuovo alle stelle, a ciò c’è sopra di noi. Diciottenni come Francesco, sono ragazzi che ancora vedono la possibilità di poter fare qualcosa di grande e bello, e noi adulti, allora, dobbiamo cercare di incoraggiarli, spronarli a coltivare ciò che di immenso e fecondo posseggono dentro di loro. Il nostro compito è quello di dar loro la speranza, per cercare un futuro che può e deve ancora esserci se riusciamo a immaginarcelo anche in un momento così terribile, di crisi e sfiducia generale, di mancanza di prospettiva, di disillusione e amarezza. Ma dobbiamo impedire che i nostri ragazzi si arrendano prima ancora di aver cominciato a lottare per un presente e un domani migliori, perché vale anche la pena farlo, vale ancora la pena “combattere” per un mondo in cui esistono anche persone che a diciotto anni riescono a scrivere un libro che è pura poesia, puro incanto filosofico, che ancora ci regalano quello stupore e ci ridestano quella meraviglia che troppo spesso non sappiamo far brillare, e che offrono a tutti noi l’occasione per fermarci un attimo a pensare e a riflettere su cose grandi e importanti.
Prima che prenda la parola Francesco, arriva il nostro Sindaco Angela Bagni che dice sia stato doveroso mettere a disposizione questo spazio per un evento simile e aggiunge di essere orgogliosa di avere, nel nostro comune una personalità come Francesco, che ridà speranza e voglia di guardare avanti a tutti noi. Sostenere la cultura è alla base della nostra comunità e lei e a sua giunta lavorano incessantemente per diffonderla e darle il giusto valore, sostenendo perciò iniziative che vedono protagonisti ragazzi talentuosi, appassionati e impegnati come il piccolo autore del libro, motivo di soddisfazione per tutta la nostra città.
Ecco che infine a prendere la parola è Francesco Alfano. Il ragazzo esordisce premettendo che niente del suo lavoro è lasciato al caso. Il libro si divide in 5 parti: 4 saggi sul Natale e un 5 saggio che invece, apparentemente, esce un po’ dalle corde, in quanto è un saggio sul male. Ma, continua Alfano, solo apparentemente, perché di link, di collegamenti tra quest’ultimo capitolo e gli altri lui ne ha trovati tanti e lascia anche a noi fare altrettanto. Il titolo, continua è ripreso da una poesia di Giovanni Pascoli, “Ciaramelle”, scritta nel 1903 e facente parte della raccolta dei Canti di Castelvecchio. Francesco spiega che come tutta la poetica pasco liana è fonosimbolica anche questa poesia è meravigliosamente sonora, musicale, i versi risuonano come il tintinnio delle ciaramelle da cui prende il titolo, che sono una specie di zampogne senza sacca. Era dalla propria casa dell’infanzia che il poeta sentiva il suono di queste ciaramelle, suono che appunto diventa ricordo, ancora vivo, di un passato che non c’è più, ma che ritorna nell’animo e nella memoria del poeta. Memoria che diviene magica, specchio di quella nostalgia dell’assoluto, quell’anelito verso l’infinito, quella tensione inesausta verso l’oltrepassamento della propria contingenza che ognuno di noi dentro di sé avverte:
Udii tra il sonno le ciaramelle/ ho udito un suono di ninne nanne./ Ci sono in cielo tutte le stelle,/ ci sono i lumi nelle capanne./ Sono venute dai monti oscuri/ le ciaramelle senza dir niente;/ hanno destata ne' suoi tuguri/ tutta la buona povera gente./ Ognuno è sorto dal suo giaciglio;/ accende il lume sotto la trave;/ sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,/ di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,/ là nella casa, qua su la siepe:/ sembra la terra, prima di giorno,/un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle/paion restare come in attesa;/ed ecco alzare le ciaramelle/il loro dolce suono di chiesa; (questa la prima parte della poesia).
Insomma, come si può leggere, vi è una musicalità insita in questi versi, che evoca un’infanzia finita ma che ritorna sottoforma di ricordo struggente.
Passando poi a parlare della scelta della copertina il giovane Alfano spiega che è un quadro di Salvador Dalì, La Madonna di Port Ligat, opera autobiografica che si ispira alla Pala di Brera di Pier Della Francesca. Il quadro è vita, rinascita, rappresenta un’immagine sacra ma che non vuole riprodurre la sacralità “più classica e tradizionale”, del suo illustre precedente quattrocentesco: il corpo di Maria è infatti vuoto, così come lo è quello del Bambino Gesù, al cui interno proprio come in un quadro (il dipinto sembra proprio fatto a piani – che sarebbero poi i corpi dei personaggi – che diventano dei “meta quadri”o una sorta di scatole cinesi, quadretti dentro al quadro più grande che li contiene) vi è dipinto un pane, oggetto su cui convergono tutte le linee di fuga del quadro, proprio per focalizzare lo sguardo degli spettatori proprio in quel determinato punto, come a suggerirci di guardare, ammirare, addirittura contemplare quel pane. Imparare a stupirci delle cose semplici, quotidiane, delle cose che sono piene di vita e che diventano simbolo di nascita e fecondità, quelle cose che solitamente non destano la nostra attenzione e che invece sono piene di valore e di significato, pur nella loro apparente semplicità. Entrando nel vivo del libro, Francesco ci spiega che più che libro il suo è un panphlet. Quest’ultimo nato nel XVIII secolo, era un piccolo scritto di impostazione fortemente soggettiva e il più delle volte molto polemico, tanto che gli autori dopo la pubblicazione erano molto scettici perché erano convinti che in ogni caso le cose nel mondo e nella vita sarebbero rimaste immutate nonostante i loro panphlet con riflessioni e critiche anche particolarmente pungenti. Alfano premette subito che nel suo panphlet non c’è polemica e non si sente affatto scettico riguardo al dopo, forse perché il pessimismo o la disillusione non sono sue caratteristiche peculiari. Fatto sta che questo libriccino è una raccolta molto personale e soggettiva di pensieri e riflessioni che partono dallo spunto del Natale e che hanno il Natale come fulcro e filo conduttore, ma per andare a spaziare in quei temi, in quelle domande di valore universale che hanno dilaniato filosofi e scrittori di tutti i tempi, e anche le persone dotate di un certo grado di sensibilità. L’autore tiene infatti a precisare che tutti noi siamo potenzialmente dei filosofi. Perché fare filosofia significa porsi delle domande, significa cercare il senso profondo delle cose, sconfinare oltre i limiti della propria finitudine e piccolezza umana e allargare il proprio sguardo verso orizzonti più alti, più ampi, assumere una visione più adeguata ad abbracciare la realtà che ci circonda e di cui facciamo parte, chiederci il mistero di noi stessi e del perché siamo qui, su questa terra, fino a cercare di sfiorare quel mistero infinito che trascende la nostra esistenza e ci apre le porte per qualcosa che sta oltre di noi. Filosofare significa indagare, scavare la realtà in tutte le sue sfaccettature, senza niente prendere per scontato: ogni piccola o grande cosa cela il suo segreto più inaccessibile e la filosofia riuscisse a farcelo intuire, farcene assaggiare il sapore, riuscisse a suggerircene il mistero che ogni cosa accoglie dentro di sé, come se tutto ospitasse e racchiudesse qualcosa di meraviglioso entro di sé, come se tutto, anche la cosa più apparentemente insignificante fosse ricettacolo dell’infinito che ci trascende e che ospitiamo dentro la nostra anima o la nostra mente, dentro le capacità del nostro pensiero, altrettanto meraviglioso. Platone e Aristotele parlavano proprio di Thaumazein, di meraviglia, quando si riferivano alla pratica filosofica e alla sua origine, che proprio da quello stupore meravigliato nasce e di quello si nutre. Filosofia, amore per il phos, dice Francesco, per quella luce che cerca di illuminare ogni cosa, attraverso l’indagine, il pensiero critico, i punti di vista mai uguali, le prospettive mai comuni, per poi volare verso spazi più alti e ancor più irraggiungibili. Luce che, scrive l’autore, “è il riflesso dell’anima, la quale, avvicinandosi al reale, desidera vedere meglio, assetata com’è di novità”. Francesco infatti ci invita a reimparare a stupirci, a stupirci dello stupore stesso, senza il quale la vita appare vuota e desolata, senza il quale il velo di Maya shopenhaueriano rimarrà sempre disteso a coprire e celare la meraviglia di un Essere che ci resterà per sempre precluso. Insomma, la filosofia come vita o la vita come filosofia, dichiara Alfano. Il primo saggio, continua Francesco, inizia con un passo tratto da “Una lacrima color turchese” di Mauro Corona e racconta la surreale vicenda di un paesino in cui misteriosamente cominciano a scomparire tutte le statuine di Gesù bambino. Le statuine sono metafora di un senso del Natale che anche qui e ai giorni nostri sta totalmente sparendo. Ormai il Natale è diventata mera occasione di consumismo sfrenato (per chi ha i mezzi e le risorse), di pubblicità bombardante, di notti deliranti tra fiumi di alcool e musica techno da passare nelle discoteche. Natale anticipato già dalle promozioni di panettoni e cioccolatini a cominciare dal 25 di ottobre, in nome di quell’accelerazione continua e frenetica propria del nostro tempo come ha ben delineato in più opere il filosofo Zygmut Bauman (ed è il diciottenne Francesco da una cultura quasi enciclopedica e soprattutto rara per la sua fresca età a sottolinearlo!) in cui una giornata “normale”assume il suo unico valore solo come anticipazione di qualche data importante ancora lontana a venire. Il Natale, prosegue Alfano citando Marx è diventato piuttosto una sovrastruttura e viene vissuto sempre di più solo esteriormente, quasi mai nella propria interiorità, nella propria intimità. Il suo senso è una scatola di Ferrero Rocher, il suo significato una “Merry Christmas night” al Tenax, la sua gioia un i-phone da trovare sotto l’albero. Il secondo saggio infatti si intitola “Sull’immanenza del Natale”, ed è un monito proprio per riscoprire l’importanza di viversi questa data, ma anche tante altre come fenomeni interiori. L’invito di Francesco è quello di riscoprire l’importanza delle piccole cose, degli affetti, dell’amore di chi ci vuole bene, dei loro gesti minuti ma preziosi, dei loro sorrisi, dei loro occhi lucidi di commozione quando ricevono o danno un regalo, di stupirci di fronte al mondo e a quello che di bello ci regala in ogni singolo istante, se siamo capaci di cogliere questi piccoli doni, se sappiamo farci attenzione, se sappiamo sbalordirci e rallegrarci quando qualcuno ci abbraccia, quando rivediamo un amico che non vedevamo più da tanto tempo, quando ci struggiamo di fronte a un paesaggio, a un fiore che sboccia, a un cielo stellato. Per Francesco il Natale diventa simbolo e metafora di tutto questo, che è, dice, la sua tradizione, termine da intendersi nella sua matrice latina, ovvero dal verbo tradere che significa consegnare: ed è questo che la sua famiglia e la sua formazione gli ha consegnato. Il terzo saggio si intitola “Natale, individuo e anima”: anche qui, sottolinea l’autore, niente è lasciato al caso, tutto è voluto anche in questo capitolo che si ferma in particolare su ciò che ciascuno di noi, sempre secondo Alfano, dovrebbe fare, a cominciare dal proprio piccolo, a Natale. Perché ogni gesto è destinato ad avere delle conseguenze su ciò e su chi ci circonda. Non siamo isole, nessun uomo lo è, per dirla con Jonn Donne, l’uomo, come già ben sapeva Aristotele è uno zoon politikòn, perciò ciò che è e ciò che fa, inevitabilmente ricade nella società, nelle relazioni con gli altri individui. Ogni uomo, come scrive Hannah Arendt, è iniziativa, e ogni sua azione porta con sé delle conseguenze, negative o positive, nel mondo. E allora, suggerisce Francesco, tanto vale cercare, per dirla con Dante, di lasciare “la nostra orma nel gran mare dell’Essere”, e, si legge nel panphlet “aprire una strada in mezzo al mondo, fare del bene: poi dimenticarsene, perché non c’è cosa più bella del bene fatto in silenzio […] non c’è cosa più piacevole di quello che nessuno sa.” Il quarto saggio è intitolato “La palingenesi di Scrooge”. Scrooge, indimenticabile protagonista della bellissima e poetica ballata di Charles Dickens, “Canto di Natale”, come forse sappiamo, è un uomo grigio, terribilmente avaro, tirchio, cinico e misantropo: odia tutto e tutti, ,ma soprattutto, ciò che detesta di più è proprio il Natale, con tutte le sue smancerie e sdolcinatezze e gli scambi affettuosi di baci e abbracci. Scrooge si troverà però inaspettatamente la visita di tre spettri, che rappresentano, rispettivamente, lo spettro del Natale passato, del Natale presente e del Natale futuro e sarà attraverso questo fantastico viaggio attraverso i suoi ricordi e ciò che è e sarà di lui che l’uomo, così cupo e meschino avrà la sua vera e propria “capitolazione”, come la chiama l’autore del panphlet e rinascerà come una fenice che resuscita dalle sue stesse ceneri. Diventerà l’uomo più buono e amato della sua contea, benefattore magnanimo e di buon cuore e di lui la gente si ricorderà sempre come “l’unica persona in grado di vivere davvero il natale”. Per Francesco questa rinascita di un uomo così menefreghista, disinammorato della vita, indifferente al mondo e agli altri diventa metafora per indicare che anche noi dobbiamo cambiare atteggiamento, non solo nei confronti del 25 dicembre, ma verso tutti gli aspetti della vita. Rinascere per diventare degni di tutto ciò che essa ci mette davanti. Infine arriviamo al quinto saggio, che si discosta, almeno apparentemente, dai precedenti, quasi ad essere agli antipodi. Infatti anziché di essere più buoni – e, come ha scritto ironicamente Corona nel libro già citato, anche dire più buoni è un po’un’ipocrisia perché implica che buoni ci sentiamo già! – si parla del male, che ammonisce Francesco, è inevitabile essendo una componente ineluttabile dell’uomo e della sua esistenza. Riguardo al capitolo Alfano legge una delle poesie che forse ha espresso il senso del male nel migliore dei modi possibili. Si sta parlando di Montale e di una delle sue poesie più note e potenti mai scritte: Spesso il male di vivere ho incontrato/era il rivo strozzato che gorgoglia/era l'incartocciarsi della foglia/riarsa, era il cavallo stramazzato.// Bene non seppi, fuori del prodigio/che schiude la divina Indifferenza:/era la statua nella sonnolenza/del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Il male è proprio questo, una foglia che si accartoccia, un cavallo che stramazza, una statua, che ricorda quelle di De Chirico, così algide e immobili, abbandonate, nella loro totale ed eterea apatia, in paesaggi metafisici e desolati, sospese in un tempo che sembra consumare e corrodere le cose impietosamente e incessantemente, lasciandole in preda a un vuoto assoluto che tutte le scava. Assenza. Indifferenza. Il soggettivo dell’io montaliano, afferma Francesco, diviene oggettivo, il primo piano, personale, si traspone nell’universale, perché quelle cose che il poeta vedeva le può vedere ciascuno di noi essendo il male una sensazione che accomuna tutti, una costante nella nostra esistenza. “piacer figlio di affanno”, diceva Leopardi e anche Shopenhauer non ha mai smesso di scrivere che la gioia è effimera, fugace, un lampo passeggere in una condizione di sofferenza perenne: “tutto è dolore”. Questo perché l’uomo è gettato nel mondo, si trova cioè “in un certo stato d’animo di cui è ignota l’origine, preso nella condizione impersonale dei rapporti e della quotidianità”, come si legge nel libro di Alfano che sapientemente cita e sorprendentemente delinea, il senso della Geworfenheit - appunto la gettatezza, o deiezione – heideggeriana. Ma una salvezza per questa condizione di impersonalità, di vagabondaggio affannoso nel mar della vita può esser data proprio dalla nostra capacità di elevarci al cielo con le nostre domande, con il nostro sguardo verso l’alto. Francesco cita a tal proposito l’incipit delle “Notti bianche”, il bel romanzo breve di Fedor Dostoevskij, in cui il protagonista si chiede: “ma io, per che cosa vivo davvero?”. Problema che chiunque,probabilmente, in maniera più o meno latente, più o meno inconscia, più o meno lancinante e sentita, vive dentro di sé. E lo sguardo vola di nuovo a cercar le risposte verso un cielo muto, che non ha risposte ma che accoglie tutte le nostre incertezze, le nostre questioni fondamentali, i nostri dubbi raminghi. Come il cielo di Manzoni che Renzo scorge e che lo rimanda alla propria condizione. O come il paesaggio lunare che già nel V secolo a.C la poetessa Saffo tesseva nei suoi versi, cominciandosi, una delle prime, a interrogarsi sulla vita e il suo senso. Paesaggio lunare che forse più di chiunque altro è stato sublimato dal nostro Leopardi, di cui Francesco, suo grande amante, non si trattiene di leggerci per intero una delle più belle poesie, “Canto notturno di un pastore dell’Asia”, ma di cui qui, per motivi di spazio ci limiteremo a riportare solo l’incipit:
“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/Silenziosa luna?/Sorgi la sera, e vai,/Contemplando i deserti; indi ti posi./Ancor non sei tu paga/Di riandare i sempiterni calli?/Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/Di mirar queste valli?/Somiglia alla tua vita/La vita del pastore./Sorge in sul primo albore/Move la greggia oltre pel campo, e vede/Greggi, fontane ed erbe;/Poi stanco si riposa in su la sera:/Altro mai non ispera./Dimmi, o luna: a che vale/Al pastor la sua vita,/La vostra vita a voi? dimmi: ove tende/Questo vagar mio breve,/Il tuo corso immortale? […]”
Porsi queste domande, problematizzare il nostro breve vagar è intelligenza,termine che letteralmente, spiega Francesco, significa intus legere, saper leggere la realtà. E Francesco Alfano con la sua presentazione e il suo libro ha dimostrato di saperla leggere davvero, come di saper leggere e interpretare i propri moti dell’animo, la propria condizione che va ad allargarsi e ad abbracciare quella umana, che conclude, sarà anche costellata da dolore, male e sofferenza, ma queste componenti ineluttabili possono esser trasformate nel proprio contrario, grazia a quella che, l’autore del libro, ha chiamato costante positiva: il mal di vivere, questa sorta di spleen baudelairiano, può diventare stimolo per cercare di riscoprire la bellezza e la felicità. Il male, dunque, diviene male positivo. Scrive l’autore: “Ho definito questa costante positiva […] nel senso letterale di sussistere di conseguenze vantaggiose o favorevoli in corrispondenza di dati o fatti direttamente controllabili. È solo andando oltre questo concetto del mal di vivere che troveremo la realtà. Non si rivelerà positiva in toto, come insegna Leopardi, ma ci farà entrare in un’ottica favorevole della vita, cioè ci farà ottenere una Weltanschauung ossimorica in cui il male e il bene diventano passi necessari per raggiungere la nostra felicità”. Anche Dante, conclude Francesco, ha dovuto attraversare l’inferno prima di riveder le stelle. Ed è con queste che ogni sua cantica si conclude. Il diciottenne Alfano ci ha accompagnati in questo viaggio, un po’come Virgilio fa con Dante, viaggio ricco di riferimenti, di riflessioni profonde, accompagnate dalla maestria con cui il giovane autore cita autori di grossissimo calibro, dimostrando di saperli fare propri, di rielaborarli personalmente, di averli capiti nel profondo, e soprattutto di amarli intensamente, appassionatamente. Proprio questo amore per la cultura e la letteratura – “nostra espressione da sempre” esclama Alfano – trapela da ogni pagina fino a contagiare a trascinare il lettore in un viaggio in cui si alternano saggezza, leggerezza, poesia, tenerezza. In cui il basso delle cose familiari, semplici, confortanti, e l’alto, puntellato di stelle e di nomi importanti si abbracciano e si compenetrano mirabilmente. Francesco spicca il volo verso quell’amore che move il sole e l’altre stelle, partendo dal calore di un camino acceso, dall’ammirazione di un pezzo di pane, delle lucine dell’albero, i morsi del pandoro, dal suono di due calici che si toccano..insomma, dalle cose umili, nel senso latino di humus che significa suolo, terra, terreno. E forse, solo chi è profondamente attaccato alle proprie radici, all’amore per la terra, può sperare di innalzarsi verso l’alto, fino a toccare il cielo e a “fare il solletico alle stelle”. E credo che Frarncesco Alfano sia una di quelle persone capaci di sentirle davvero ridere le stelle, e che una sua orma importante,“nel gran mar dell’essere”, l’abbia già lasciata.