La nuova economia parla il linguaggio anglofono della flexibility, della competitiveness, e più recente della sharing economy. La nuova narrazione liberista inventa un sistema ideologico complesso e raffinato che relega le vecchie forme del lavoro, stabili e protette, nel reame della noia e alle quali contrappone le eccitanti innovazioni “smart” del capitalismo globalizzato. Peccato che proprio dietro queste presunte nuove frontiere delle liberazione si nascondano condizioni lavorative decisamente deteriorate e la revoca dei più basilari dei diritti in un contesto di proliferazione dello sfruttamento e di crescita delle disuguaglianze.
L’articolo recentemente elaborato in sede collettiva dai beccai, che potete trovare qua, mette in evidenza il moltiplicarsi di queste nuove forme ideologiche che accompagnano il diffondersi delle politiche neoliberiste e leggono con comprensibile sgomento la totale incapacità di rispondere sul piano ideologico alle nuove narrazioni che sembrano tanto più efficaci quanto più attingono dalla sfera valoriale generalmente attribuita alla sinistra.
Condivisione, mutualismo, sharing, consumo collaborativo semanticamente non troppo diversi dai concetti di collettivizzazione e cooperazione, ampiamente usati nel vocabolario della sinistra, sono tutti elementi portanti del nuovo capitalismo globalizzato. Questa constatazione, pone necessariamente una domanda: come è possibile che valori solidaristici tradizionalmente attribuiti ai detrattori del capitale siano stati inglobati dentro una retorica liberista per sua natura individualista e competitiva?
La grande riconfigurazione del capitale su scala globale fondata sulle multinazionali e sul modello della produzione flessibile che ha segnato il passaggio a una economia della flessibilità e della rete, è stata l’esito della volontà delle elite liberiste di disfarsi del Welfare State per recuperare margini di profitto e produttività ma è anche risultata ideologicamente efficace grazie allo sfruttamento e alla falsificazione di certi valori che i movimenti antagonisti all’economia di mercato avevano partorito già a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Difficilmente infatti, si sarebbero potute imporre tali misure così lesive dei diritti e del tenore di vita dei lavoratori, se la riorganizzazione capitalista non fosse stata accompagnata da una narrazione seduttiva dei cambiamenti in corso. Con una fortunata espressione del sociologo francese Luc Boltanski, si può infatti leggere questo fenomeno come la capacità del capitale di inglobare la sua critica. Dato il suo carattere fluido ed elastico, infatti, il capitalismo è sempre riuscito a inventarsi nuove modalità per l’accumulazione e il profitto, non ultima quelle di impiegare energie morali e normative esterne o persino apparentemente opposte ad esso. Ciò non significa affermarne la sua perennità ma solo rimarcane la sua capacità di adattamento. Il capitale ha la capacità di assimilare alcuni elementi e valori cari alla critica decontestualizzandoli dalla loro formulazione originale per poi inserirli organicamente all’interno dei meccanismi di funzionamento del capitale, che continuano a essere orientati all’accumulazione e alla ricerca del profitto. Non sempre questo meccanismo funziona, ma recentemente, anche a causa di una critica disarmata e poco innovativa, la capacità di assorbimento è piuttosto efficace. Occorre infatti rimarcare che se la critica è soggetta a essere strumentalizzata, essa è anche la migliore arma per porre limiti al capitale stesso e per orientare normativamente il suo cambiamento strutturale (fino anche alla sua eventuale distruzione).
Su Il Nuovo Spirito del Capitalismo Boltanski e Chiapello notano come sia i valori del movimento operaio e socialista prima, che quelli della contestazione giovanile “sessantottina” poi, siano stati spesso utilizzati dal capitale, in maniera deformata, nel tentativo di creare consenso attorno ai loro piani di frammentazione della classe lavoratrice, di smantellamento dei diritti e di precarizzazione.
Se fra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta autenticità, diritti civili, autonomia e antiautoritarismo, erano le parole d’ordine di una critica controculturale profondamente a disagio all’interno del modello familiare, paternalistico, monotono e rigido tipico delle società di mercato del dopoguerra, così la nuova narrazione del capitale degli anni ottanta, si caratterizza per generare entusiasmo nei confronti delle trasformazioni tecnologiche e sociali che aprono il locale al mondo, in direzione di una società più liberale e tollerante e che moltiplica le possibilità di autorealizzazione.
Nel suo storytelling, il capitale, trionfalisticamente, può affermare la polverizzazione della verticalità nei rapporti lavorativi, l’emergere di un management democratico e l’integrazione dei dipendenti nel decision-making aziendale. La disumana catena di montaggio fordista, in quest’ottica, è sostituita dalla pluralizzazione delle funzioni che un singolo lavoratore deve interpretare creativamente e assumendosi le sue responsabilità anche se, a ben vedere, quest’ ultimo è sempre più isolato e debole nei confronti dei ricatti del datore di lavoro.
Negli ultimi anni, la narrazione capitalista è risultata ancora più efficace poiché ha aggiunto a questa ideologia della flessibilità quella della condivisione. Concetto tanto caro sia alla critica “sociale” e operaia che fa della cooperazione e della collettivizzazione due concetti chiave del suo progetto politico, quanto a quella “artistica” dei movimenti controculturali che invece invocano il comunitarismo come forma di autentica liberazione dei meccanismi della razionalità strumentale, la condivisione è ormai un termine ampiamente colonizzato dall’ideologia del mercato che ne ha fatto l’emblema di una modalità di fruizione dei servizi fondata sulla scarsa trasparenza e sulla deregolamentazione lavorativa.
Pur nella loro varietà e diversità, le varie modalità e tipologie di sharing, lungi dall’essere il risultato del libero desiderio di formare genuine forme di aggregazione, o di una nuova concezione di socializzazione avulsa dalla logica di mercato, tendono in realtà a costituirsi come processi mediati da imprese che fanno di questi servizi basati sulla rete, un modo rapido per fare profitto, sfruttando la capacità di queste nuove forme di organizzazione economica di scavalcare la giurisdizione statale, in particolare in termini di sicurezza e tassazione.
Il concetto progressista dell’open source, ripreso dalla sfera informatica, anch’esso nato in ambito critico, ma ben presto colonizzato dal capitale, si è oggi trasformato in un modo di rappresentare l’economia come fondato sul mutualismo e sull’utilizzo paritario e libero di mezzi e servizi, nascondendo però il fatto che la proprietà, intellettuale e/o dei mezzi di produzione, lungi dall’essere scomparsa, è sempre in possesso di una elite imprenditoriale che anzi, mai come in questo frangente, fonda il suo successo su rapporti economici di sfruttamento.
Anche quando i metodi peer to peer sembrano scavalcare l’impresa, mettendo in contatto diretto i cittadini, come nel caso dello scambio o compravendita di abiti usati, in realtà il modello, di per sé, riproduce le logiche capitaliste perché mobilita gli individui come attori prettamente economici: non esiste una comunità di uguali ma sempre e comunque un rapporto, una transazione in cui gli attori assumono il ruolo o di piccoli imprenditori oppure di consumatori. In questo modo, ognuno tende ad assimilare le logiche del mercato e del profitto non solo quando sta lavorando, ma anche quando utilizza questi servizi. Lavoriamo per il capitale anche nel tempo libero.
Infine occorre rimarcare un'ulteriore forma di assorbimento della critica, quella fondata sul concetto progressista di fiducia e tradizionalmente legata a una visione non economicista dell’essere umano. L’idea che la sharing economy sia legata alla fiducia, in quanto mette in contatto persone che non si conoscono se non superficialmente sulla rete, è una invenzione ideologica che nasconde i veri motivi per i quali si realizzano la maggior parte delle forme di rapporto nella galassia social: avere un tornaconto. Nessuno nega l’utilità di certe forme di sharing come Bla Bla Car o Couchsurfing, che permettono un’ ottimizzazione delle risorse per tutti gli attori in gioco, ma concepire questa innovazione tecnologica come un cambiamento nel modo di intendere l’organizzazione economica è un errore che deve essere evitato. Nello sharing, i rapporti di potere non sono diversi da quelli di forme più tradizionali di fare impresa.
Nel caso ad esempio della celebre compagnia di taxi-sharing Uber, nella sua versione “POP”, chi offre il servizio è un tassista occasionale alla ricerca di guadagno che utilizza la propria auto per trasportare il cliente anch’esso spinto a scegliere il servizio per un calcolo economico di convenienza. Sempre dietro il presunto legame umano di condivisione e di cooperazione si nasconde invece un rapporto economico che lega insieme il lavoratore autonomo precario, senza diritti e sottopagato, con il consumatore che, a caccia dell’ultima offerta, in condizioni di assenza di garanzie, mette a rischio la sua incolumità per appagare una necessità di risparmio.
Strappati dal loro contesto originario, i valori critici della condivisione e della cooperazione sono stati assorbiti dentro le logiche capitaliste per perpetuare le condizioni di sfruttamento. Cercando di darsi un volto umano e di creare entusiasmo rispetto alle nuove innovazioni socio-economiche, il capitalismo, proprio tramite queste nuove forme di creazione di profitto, si sta espandendo a ritmi vertiginosi: mai come oggi l’individuo è incoraggiato a assumere atteggiamenti imprenditoriali e consumistici in ogni suo momento dell’esistenza. Mobilitato da principi di apertura e condivisione, in realtà viene pienamente inserito in un sistema che fa di ogni ambito della vita un questione di calcolo utilitaristico fra costi e benefici. Certe forme di sharing possono risultare anche utili e vantaggiose, ma l’utilità e il vantaggio non vanno confusi con le vere forme autentiche e pure di relazione e comunanza.