Sulla fortuna o meno dei diversi progetti, sul ruolo di chi li promuove e di chi gestisce la piattaforma, sulla quantità e la tipologia dei “sottoscrittori” che ogni progetto riesce ad avere si sono interrogati vari studiosi anche a livello italiano producendo dei primi report che forniscono un quadro generale del settore (vedi www.egeaonline.it). La pratica di per sé non ha nulla di particolarmente critico, se non il fatto che la formula “me lo finanzio mediante un crowdfunding” sta contribuendo alla costruzione di una forte, quanto poco afferrabile negli impatti economici, retorica sull’impresa e sulle start-up.
Un fenomeno che si percepisce soprattutto nelle start-up a carattere sociale, portando potenziali imprenditori a credere che il recupero di capitale sia diventato più semplice e meno impegnativo grazie alle piattaforme sul web rispetto al rivolgersi alla banca.
C’è però, da qualche tempo, un’ulteriore novità: alcuni Comuni italiani, tra i più “innovativi” e “smart”, hanno iniziato a sperimentare la pratica del crowdfunding per finanziare interventi di restauri di opere d’arte o architettoniche o, addirittura, politiche sociali. La sottoscrizione pubblica si incrocia qui con il tema della cittadinanza e anzi con la “cittadinanza attiva” e viene presentata come un fenomeno connotato da ricadute positive, in particolare per la sua capacità di riavvicinare i cittadini al bene comune e alla solidarietà. La pratica del crowdfunding civico è stata sperimentata a Bologna per la raccolta dei fondi, 300 mila euro, per il restauro del Portico di San Luca (vedi qui).
Anche a Milano è appena stata lanciata l’iniziativa dell’assessora Tajani per una raccolta di fondi che consenta di finanziare progetti per lo più nell’ambito delle politiche sociali per i soggetti più fragili e che coinvolge i cittadini anche nella definizione delle priorità di spesa. Progetti e idee - dice Tajani - che potranno spaziare dallo sviluppo di una città più accessibile grazie alla rimozione delle barriere tangibili e intangibili per soggetti con fragilità psico-fisiche, passando per l’aumento della connettività o la riduzione del digital divide sino a nuovi servizi per la cura della persone e la conciliazione famiglia-lavoro e il miglioramento della qualità della vita e progetti d’impresa sociale” (vedi qui).
Per chi si intenda di bilanci partecipativi che prevedono il coinvolgimento dei cittadini nell’ambito delle priorità di spesa del bilancio del Comune si tratta di un balzo in avanti, non necessariamente positivo. Normalmente nel Bilancio Partecipativo si discute insieme ai cittadini come spendere una quota del bilancio comunale nell’ambito di settori non particolarmente “sensibili”. Il meccanismo del bilancio partecipativo prevede una completa delega ai cittadini sulla cifra messa a loro disposizione e non – come nei casi di percorsi di partecipazione su altri temi – un successivo passaggio da parte degli Amministratori che mantengono la responsabilità della effettiva decisione. Proprio per questo si preferisce lavorare su temi che non comportino l’impatto su problematiche particolarmente complesse e che potrebbero danneggiare fortemente alcune politiche comunali: si discute di ambiti quali i lavori pubblici, l’ambiente e non, per intendersi, di politiche sociali. Questo perché delegare la scelta di come spendere le risorse per categorie di cittadini sostanzialmente deboli (bambini, disabili, adolescenti, anziani e altri ancora) alla scelta non mediata di semplici cittadini potrebbe produrre scelte squilibrate o comunque non accorte. Questo “salto” sia nell’ambito della tutela dei beni culturali e architettonici, sia delle politiche sociali, ha dei riflessi nell’interpretazione dei rapporti tra Stato e cittadini che non sono, e non possono essere, considerati come neutri.
Si intravedono, infatti, potenziali ricadute negative su più livelli - ovvero sia sugli esiti che sulle premesse teoriche della relazione tra individui e tra Stato e cittadini - che ci fanno leggere questo fenomeno come marcatamente “sovversivo” rispetto all’ordine costituzionale.
Dal collettivo all’individuale
Iniziamo dai perché.
Innanzi tutto per quale ragione i cittadini dovrebbero versare dei soldi che hannno già versato con le tasse? A cosa servono allora le tasse? Cittadine e cittadini partecipano a una “sottoscrizione” attraverso le tasse che servono, appunto, per sostenere spese in molteplici ambiti di interesse pubblico.
Un livello di tassazione piuttosto elevato in Italia non è sufficiente, evidentemente, a garantire denaro costruire bilanci pubblici capaci di sostenere spese con ricadute “civiche o sociali”, mantenimento di opere d’arte, beni pubblici, assistenza sociale e welfare diffuso.
L’evasione fiscale e i tetti di spesa imposti dall’Europa riducono potentemente la capacità di spesa dello Stato e degli enti locali: gli amministratori pubblici, invece di mettere realmente in discussione l’austerità europea o incrementare la lotta all’evasione chiedono ai cittadini di contribuire, ancora, per pagare alcune spese “esemplari”: un bel porticato, un servizio pubblico, e considerano questa addirittura una opportunità per fare sentire i cittadini ancora più vicini ai beni comuni e alla solidarietà.
Quello che appare interessante, sotto questo punto di vista, è che si va diffondendo, anche tra i cittadini, l’idea che questa soluzione sia interessante e innovativa e che possa incrementare il protagonismo e la propria partecipazione. È particolarmente curioso perché le tasse - solitamente invise ai cittadini - in questa narrazione “scompaiono” quasi che non sia un diritto rivendicare l’uso di quei soldi per la realizzazione di porticati e politiche sociali. Sembra più forte il desiderio di sentirsi protagonisti, di sentirsi buoni, di contribuire al buon mantenimento dei beni comuni.
Da un canto, dunque, si profila l’idea di uno Stato che deliberatamente afferma che ci sono degli ambiti troppo onerosi per le magre finanze pubbliche per sostenere i quali è necessario il coinvolgimento dei cittadini. Uno Stato e degli enti locali che, senza rivedere le proprie norme, senza esplicitarlo si sottraggono a compiti - dal decoro pubblico, alla coesione sociale, dalla conservazione artistica alla tutela dei soggetti più fragili - che, dalla Costituzione alle altre fonti normative, per una serie ottima di ragioni sono demandate alla gestione pubblica, e che in questo modo potranno sempre più ridurre i propri compiti anche in altri ambiti andando a ripristinare di fatto un sistema di beneficenza pre-repubblicano e poco democratico.
Dal diritto alla benevolenza
Ragionare in questi termini significa inscrivere dentro i diritti costituzionali meccanismi di “benevolenza” e affermare che di fronte all’incapacità di sostenere certe spese è ammissibile che alcuni progetti siano finanziati su sollecitazione dell’amministrazione grazie alla benevolenza di chi può permetterselo. Secondo alcuni è addiritttura ammissibile contemplare la possibilità che i cittadini che finanzino progetti che scelgono tramite un crowdfunding possano avere degli sconti fiscali sulla tassazione generale. In quest’ottica diventa, cioè, accettabile (o addirittura auspicabile) derogare a una programmazione collettiva della spesa pubblica a favore di un “menù individuale” attraverso il quale il cittadino facoltoso possa scegliere a cosa destinare i propri soldi, con buona pace della dimensione solidale e del bene pubblico. Se questo meccanismo salta, se salta il collante che tiene insieme il Paese, si costruisce una situazione nella quale chi ha molto può decidere, per propria soddisfazione personale, di regalare una parte di quello che ha a chi invece ha necessità. La carità si sostituisce cioè alla cura collettiva dei bisogni, proprio mentre la retorica che accompagna queste pratiche parla di nuova dimensione collettiva e di coesione sociale. Significa anche che, in mancanza di una cornice di riferimento chiara, sarà possibile una progressiva “sottrazione”: oggi è il porticato, domani saranno i marciapiedi o altre cose indispensabili. Chi stabilisce il confine? Chi stabilisce cosa è “diritto” e cosa no?
Incremento potenziale delle diseguaglianze
Un sistema di questa natura rischia di causare grandissime diseguaglianze: immaginiamo che sia più facile finanziare un porticato a Bologna che un porticato in una sconosciuta cittadina del sud Italia, sia per il prestigio del luogo, che per il reddito pro capite dei suoi abitanti, che per il senso di appartenenza e identitario che i primi, rispetto ai secondi, spesso hanno maturato. Come saranno le città in cui per tradizione, povertà, diseguaglianze consolidate i cittadini non hanno a cuore i beni collettivi? Quanto si acuiranno le differenze tra le città dove si sta bene e quelle con un basso livello di qualità della vita? La coesione sociale, si sa, si produce anche grazie alla spesa pubblica. Non sfiora il dubbio che se questo meccanismo diventa davvero diffuso rischia di amplificare le diseguaglianze tra aree del paese in cui la cittadinanza è più sensibile e più ricca e quelle più deprivate che lo saranno sempre di più. Incrementare o sottrarre?
Il lato particolarmente “buono” ed enfatizzato di questo discorso è il plus di solidarietà che queste pratiche producono, appunto, cittadinanza attiva, valori positivi e molto buon cuore. Storicamente, in effetti, le comunità civiche si riuniscono intorno a obiettivi, li sostengono e li finanziano con il proprio impegno in denaro e il proprio lavoro volontario. Le case del popolo, ad esempio, sono nate così, con un crowdfunding, con l’acquisto collettivo di beni. Non era però un intervento a “sostituzione” dello Stato, né era direttamente su un bene dello Stato che si interveniva ma, semmai, si agiva su un terreno che era parallelo a quello dello stato, per portare avanti attività e azioni fortemente connotate politicamente e che, invece, a partire da singoli casi esemplari sollecitavano la definizione di politiche pubbliche universalistiche. La cittadinanza attiva tipicamente è un pungolo al sistema istituzionale perché migliori la propria offerta ed estenda il proprio intervento.
Prendendo spunto da sperimentazioni civiche si costruivano diritti e politiche che facevano diventare “beni comuni” a disposizione anche per chi non si era attivato, anche per chi era più svantaggiato e non era neanche capace di aggregarsi per costruire qualcosa di analogo.
In questi crowdfunding civici la direzione è tutta in “diminuire” non a costruire, non si costruiscono politiche, diritti, coesione, ma la capacità retorica e attrattiva di questa pratiche è, almeno in una certa fetta di società, fortissima. Varrebbe davvero la pena, in un prossimo pezzo, domandarsi perché.