L’esausto dunque ha esaurito a priori tutte le possibilità, come se tutte le “categorie” fossero esaurite. Citando una frase di Beckett, Deleuze scrive:
“L’insieme del possibile si confonde col niente di cui ogni cosa è una modificazione […] I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo. Hanno troppo a che fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere, […] perché hanno rinunciato a ogni bisogno, preferenza, significato.” Ma in questo esaurirsi di significati, valori, preferenze, scelte ciò che sembra essere è paradossalmente una pienezza dell’essere. Una pienezza divina dell’essere in cui tutto è pieno di essere ma non ci sono più possibilità. Tale è la condizione dell’esausto che si riflette perfettamente nei personaggi beckettiani che si collocano nel mondo “non come poli d’identità intenzionale”
ma che proprio per questo sono capaci di creare qualcosa di diverso. Un’altra immagine può esser richiamata alla mente, ed è quella di Eraclito: “αιών (l’eterno, l’indeterminato) è un bambino che gioca e il mondo è il regno di un bambino”. Si apre quindi una contrapposizione tra questo stato di innocenza eterna, infantile, fanciullesca, tra questa pienezza d’essere, questo “spinozismo accanito” (come lo chiama Deleuze) e dall’altro lato un’immanenza assoluta dell’uomo che ha progetti, si dota di valori, si orienta nel mondo secondo una rete di significati, preferenze, scelte. Insomma tra una condizione di infanzia eterna, resa possibile proprio dall’esaursi di possibilità e valori e quello che potremmo chiamare nomos, una legge che ci obbliga a scegliere, a selezionare, a preferire. Il termine nomos infatti etimologicamente significa distinguer, discernere tra più possibilità.
In un altro testo deleuziano, “l’immanenza: una vita” , del 1995, si fa riferimento a un racconto di Dickens, “il nostro comune amico”. La storia parla di un uomo cattivo, malvagio, disprezzato dagli altri proprio per la sua negatività. Dopo alcune vicissitudini il protagonista si ammala ma sul punto di morire tutti coloro che lo avevano disprezzato cominciano a prendersi cura di lui, intravedendo persino una scintilla di bontà. Una volta guarito invece l’uomo tornerà malvagio come era stato fin sul punto di morte e torna ad essere malvoluto dalla comunità che si era presa cura di lui. Ciò su cui Deleuze si sofferma è proprio quella scintilla di bellezza, di bontà che può essere separata dal soggetto. Quella scintilla è solo vita. Vita e basta, vita in sé stessa. È la bellezza e la bontà della vita in sé e per sé, senza che neanche debba venire attribuita al suo proprietario, all’individuo. Quella vita brilla di luce propria, è pura, trasparente, non è più passabile di valori, distinzioni, è pura innocenza. Da qui si arriva allora, prosegue Palazzo, alla differenza, in Deleuze, tra una metafisica della trascendenza e una metafisica dell’immanenza. La metafisica della trascendenza si richiama a Platone. È stato lui ad aver costruito le idee, come fondamento della doxa. Nel mondo si scontrano diverse opinioni (chi è il buon politico, il buon cittadino, l’uomo giusto ecc..), e si tratta allora di selezionare tra doxai buone e vere e doxai cattive o false. Già di per sé comunque la doxa, l’opinione non è qualcosa di neutro, non è una semplice apparizione, ma qualcosa di costruito, è una “costruzione culturale”, diremmo oggi.
Essa infatti implica dei presupposti, come il fatto che debba esistere un soggetto di attribuzione, che ci sia qualcosa di stabile, di presente. È quindi qualcosa di già complesso e raffinato. Ad ogni modo, nella “lotta” tra doxai c’è bisogno di un criterio superiore e universale per poter discernere tra opinioni buone e opinioni cattive e questo criterio altro non è che l’idea. Un’opinione è buona se partecipa dell’idea, un giudizio è vero se si conforma al giudizio universale; un’opinione è buona allora, quando corrisponde ad un modello universale di cui è la copia. In questo sistema – modello universale o idea e sotto di esso l’ opinione che partecipa della verità dell’idea, del modello eterno e universale – non trova però posto quello che Deleuze chiama simulacro. Quest’ultimo infatti non è una copia perfetta, è ciò che sfugge di natura alla conformazione all’idea, sfugge al binomio modello eterno-copia. Il simulacro è fuori da questo sistema in cui la doxa buona per esser tale deve partecipare dell’idea, e in quanto fuori da esso è anche fuori dall’essere. È quella zona di realtà su cui incombe l’ombra minacciosa del nulla. È la materia, il divenire, il caos. La doxa (insieme di significati, preferenze, valori..quello che oggi chiameremmo buon senso o senso comune) per esistere ha bisogno dell’idea platonica; il simulacro (l’esistenza estetica, legata al sensibile, che non costruisce storie ma vive nell’attimo) è relegata fuori, nel non essere. È il ribelle che si svincola dalla legge del padre, che si sottrae al nomos.
Anche nella filosofia cristiana e nell’idealismo tedesco c’è sempre una zona rilegata nella contraddizione. Anche in Cartesio, laddove è la follia a risultare fuori dal cogito. In Kant questo ruolo “ribelle” è tenuto dal “libero gioco dell’immaginazione”; in Hegel nella natura le determinazioni spazio-temporali sono fuori dalla vita dello spirito; nella filosofia cristiana è ammessa solo l’esistenza morale, mentre quella estetica, legata al sensibile, alla corporeità, alla materia, è tagliata fuori, è da rigettare nella contraddizione. Ma la domanda è: è davvero possibile pensare una zona dell’essere minacciata dal non essere? E perché l’esistenza estetica (come la chiama Kierkegaard) è da respingere, da bollare come contraddittoria? Per Deleuze l’istituzione di una trascendenza, di un nomos che forma, edifica progetti, concetti, rete di valori, significati e scelte non è un’operazione della natura, bensì un’operazione che la filosofia attua per legittimare le pretese del senso comune, l’esigenza di un orizzonte veritativo che da questo provengono e per proporre un modello alternativo a quello “spinozismo accanito” di cui si parla nell’Esausto. Secondo la concezione spinoziana letta dal filosofo francese non esiste affatto un essere di primo grado di cui l’esistente sarebbe una copia il cui essere è tale solo per partecipazione dell’Essere di primo livello. Non c’è un uno plotiniano, un principio primo che per emanazione infonde gradualmente l’essere ai livelli successivi fino ad arrivare alla materia – che è non essere, nulla, caos, oscurità in quanto troppo distante nella scala che parte dall’uno e quindi impossibilitata a ricevere la luce dell’essere. Per Spinoza – e Deleuze – l’essere si deve dire allo stesso modo di tutto ciò che c’è. C’è una sorta di ripresa quasi parmenidea dell’univocità dell’essere. Siamo di nuovo nella pienezza d’essere, nell’innocenza eterna di cui si parlava prima.
Certo, con questo Deleuze non vuole eliminare il nomos, la legge, il giudizio, la formazione di idee e concetti, di significati orientativi, in quanto è e rimane un momento necessario della vita, ma vuole porre l’accento su quegli “interstizi”, su quegli attimi, quei frammenti fragili, quasi effimeri, eterei che si insinuano, come un battito d’ali, tra due regni del nomos: in un attimo “rivoluzionario”che compare tra due nomoi. Un attimo che ne scardina uno per poi porne un altro. Un esempio può essere quallo della rivoluzione francese, che ha distrutto un nomos e ne ha poi riproposto uno nuovo, un altro nomos, ma che quindi ha aperto, un breve orizzonte di possibilità. Si tratta di qualcosa di evanescente eppure incontaminato e in quanto tale richiama perciò alla figura del bambino da cui Palazzo è partito. ma se l’essere è tutto ciò che c’è, come si può dire che può nascere qualcosa di nuovo, che ancora non c’è senza cadere di nuovo in contraddizione? Si ha a che fare con l’impossibile: la novità, l’immagine, ha a che fare con l’infondato. Come scrisse Benjamin a proposito dei giacobini della rivoluzione francese “nuovi Giosuè, ai piedi di ogni torre, sparavano ai quadranti per fermare il giorno”, e dunque congelano quell’istante prima che scompaia. Ecco è un po’ questo l’impossibile cui accenna Deleuze, l’attimo che scardina il tempo e che per un attimo fa brillare la scintilla di una impossibilità, o di una possibilità impossibile, in quanto ancora non è. E quando poi e se si realizzerà sarà di nuovo un nomos.
Ubaldo Fadini ci propone infine una lettura di Deleuze attraverso due testi di due autori un po’eccentrici e grandi amici del filosofo francese: Pierre Klossowski e René Schérer. Il testo del primo è del 1972, quindi siamo in un contesto storicamente determinato, dunque anche molto lontano dalla tradizione teorica, teoretica di ricostruzione e recupero del pensiero deleuziano. Sia Klossowski che Schérer sottolineano in particolare nel pensiero dell’amico, il valore dell’abbandono. “Ciò che viene abbandonato” – scrive Schérer nel suo testo pubblicato nel 98, dopo la morte di Deleuze – “ è il perno, l’asse compromesso che forma l’io egoista”. Siamo davanti a una sorta di confronto radicale, un vero corpo a corpo che sembra tenere e contenere la soggettività chiusa, irrigidita, ma proprio in quanto tale, da sottoporre a critica. Questo perno deve essere messo in questione, deve essere abbandonato appunto, per poter accedere a quelle forze, quei flussi di energia, di intensità, di passioni e desideri di cui parla Deleuze. In questo tema dell’abbandono è in gioco un’altra tematica molto cara a Deleuze, che è quella dell’impersonale. Se si guarda al testo di Klossowski, si vede come l’autore radicalizzi l’intenzione di fondo di Deleuze, l’intento deleuziano perché lo coglie nella liquidazione del principio di identità, per recuperare il valere/valore dello sviluppo dell’impersonale. C’è un attacco all’io egoista, fissato, chiuso, determinato in maniera avvilente, mortificante. Vi è in Klossowski una radicalizzazione del discorso deleuziano, una iperbolizzazione del progetto di “liquefazione del principio di identità”. Tale liquidazione significa operare una complicazione di una finzione essenziale (l’identità fissa, stabile, irrigidita del soggetto), che così viene messa in crisi. Tale operazione a sua volta significa complicare la stessa impresa docente, l’impresa dell’insegnamento, la pretesa dell’insegnamento.
Si arriva perciò a un elemento paradossale di cui Deleuze è ben consapevole: arrivare a mettere in dubbio la possibilità di dire qualcosa e soprattutto di insegnare qualcosa, di fare filosofia evidentemente contraddice ciò che Deleuze stesso fa anche affermando tale messa in discussione (un po’come il relativismo che nega l’esistenza di qualsiasi verità ma di fatto o afferma questa sua sentenza come vera, e dunque si contraddice o nega anche se stesso, ma quindi diviene a sua volta poco attendibile, o comunque se ne può fare tranquillamente a meno). Lo sforzo di Deleuze però va oltre questo apparente paradosso e lo supera, rendendolo, se si può dire, ancor più estremo e paradossale. Intraprende un’avventura che non è quella tradizionalmente attribuita al filosofo, è un’avventura che non sta in piedi,perché è quella dell’”insegnare l’ininisegnabile”. Insegnare ciò che non si può insegnare. Più parodossale di così si muore. Deleuze cerca di insegnare la filosofia contro la filosofia (forse anche per questo, pure chi non è addestrato al pensiero filosofico trova sempre qualcosa nell’opera deleuziana, qualcosa che non è strettamente filosofico ma che incessantemente lavora il pensiero filosofico rendendolo più aperto). Klossowski ci aiuta a portare avanti questo ragionamento affermando che Deleuze si smarca, si rende marginale, si pone ai bordi rispetto a tutto ciò che ha la pretesa di essere insegnabile, comunicabile, rispetto a qualsiasi insegnamento istituito o istituzionale. Se ad esempio guardiamo al quadro delle scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia…), alla sua architettura teoretica, continua Klossowski, ci accorgiamo che per le scienze umane non esiste l’ininisegnabile, mentre per Deleuze esso si dà e nel suo darsi, nel suo porsi, articola una contestazione seria, dura, rispetto a qualsiasi architettura teorica che pretenda di contenere ogni avventura e figura dell’umano. Klossowski dice che l’ininisegnabile in Deleuze si dà, tanto che uno “spirito scaltro” come lui pensa lo stesso di insegnarlo. Anche qui siamo nel paradosso, ma se ci si pensa, tutta o quasi, l’impresa teorica di Deleuze è da comprendersi e leggere nell’articolazione di una logica del paradosso.
L’idea decisiva di Deleuze, – che appare particolarmente evidente nei testi degli anni ’70 e nei suoi lavori con Félix Guattari – è quella di attaccare una condizione istituzionale della ricerca, di ogni ricerca e impresa teorica o filosofica che esclude da sé ogni elemento che appare in insegnabile. In questo Deleuze appare come un combattente in filosofia, un pensatore di combattimento, ma non di guerra, non è un ribelle, ma un combattente, dice Fadini. Ogni impresa teorica, ben attrezzata, ben indirizzata, ben formalizzata si afferma sul principio che non si possa andare avanti senza il supporto di un ultimo livello di investigazione. La convinzione di fondo che regge qualsiasi tipo di ricerca ben istituita è quella di dire che al di là di quell’ultimo livello, piano investigativo si precipiterebbe nel caos, nell’insensato. Quell’ultimo livello deve perciò essere salvaguardato, conservato, dato che è ciò che tiene ferma la ricerca, che la fonda, la radica, è ciò che le permette di andare avanti. Senza di esso c’è la vertigine del caos. Il precipizio nell’infondato. Per mantenere fermo questo gradino, dice Deleuze, ciò che va tenuta ferma è la nozione antropomorfa di “integrità della persona”. Per il filosofo francese però è proprio tale nozione a dover esser messa in questione, per consentire all’ “insegnante” di sprofondare in quel caos che tanto teme ma che è caos relativo, agganciabile – d’altronde, scrive Deleuze, “che cosa sarebbe pensare se non misurarsi continuamente con il caos?”. La domanda allora che adesso si pone è la seguente: cosa sta sotto, cosa sub-giace alle stesse strutture che regolano qualsiasi discorso di ricerca, di investigazione? Cosa sta sotto le “sottostrutture” di ogni impresa teorica, sotto quell’ultimo livello oltre il quale non si può andare, pena lo sprofondare nel caos? Sotto le sottostrutture, sotto il livello ultimo che consente all’insegnamento di andare avanti, c’è qualcosa che si muove, dice Deleuze e che se si valorizzasse porterebbe a una sorta di disintegrazione, a una messa in discussione radicale dell’unità della persona.
Klossowski individua questo qualcosa che sta nel sottosuolo, nei sotterranei che soggiacciono alle sottostrutture come l’Integralità, ovvero una dimensione poco afferrabile, solo parzialmente percettibile e comprensibile. Quest’integralità è il rinvio o il recupero di quella “polimorfia sensibile” che Klossowski vede ben rappresentata da Sade (sul quale ha scritto diversi saggi), laddove acquisirebbe la veste di mostruosità o di insieme di perversioni. L’ininisegnabile diventa allora per Klossowski la dimensione del polimorfico, del metamorfico, del divenire pulsante che sgretola e sfalda l’unitarietà identitaria. Solo attraverso l’attacco all’indiscussa integrità della persona si arriva, secondo Deleuze (e Klossowski nella lettura che ne fornisce) a recuperare tutto quel proliferare di singolarità, quelel singolarità nomadi mai perfettamente individualizzabili, mai irrigidite in un’identità fissa, singolarità che sono appunto pre-individuali, che sono un fascio di intensità, di forze mai ingabbiabili. Un flusso metamorfico che rende la dimensione dei processi di soggettivazione estremamente mobile, plastica. Un tale attacco però, tende a precisare Deleuze, non è contro l’umano, ma anzi, mira a riconfigurare in maniera diversa la figura dell’umano e a scoprire ciò che la muove, ciò che la spinge al cambiamento, al divenire, al fluire incessante. Il discorso deleuziano è tutto giocato su una dinamica della simulazione che scuote l’identità, la demolisce per tirarne fuori le innumerevoli potenzialità, le energie che sempre la scavano e sempre la trasformano in altro da sé. Un’impresa teorica del genere che si pone in maniera critica nei confronti di tutte le altre imprese che si pretendono istituite non può che essere un’impresa fantascientifica, conclude Fadini, in quanto prende in considerazione mondi che sono altri rispetto a quelli di cui si occupano le altre imprese teoriche. Ma la fantascienza implica però proprio quel recupero vitale, vivifico della pienezza sempre in divenire dell’umano. Solo quando si rompe l’integrità e la fissità di un’identità mortificata e irrigidita, imprigionata e impoverita, si può accedere a quella “molteplicità di bagliori differenziali, come fuochi fatui che si riflettono da una facoltà all’altra, una virtuale scia di fuochi, senza mai avere l’omogeneità della luce naturale che caratterizza il senso comune” e ci si può lanciare “in un divenire […] sempre contemporaneo, difficilmente ingabbiabile nelle ragioni/regioni dell’io istituito, rigorosamente individuato, proprio perché si delinea in forma di un frammento anonimo infinito, che non cessa di fare scandalo”. (U. Fadini, Soggetti a rischio)