Giovedì, 07 Gennaio 2016 00:00

The Danish girl

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Copenhagen, anni ’20 del ‘900, Einar Wgener, pittore paesaggista vive con l’amata moglie, Gerda, pittrice ritrattista. I due sono molto affiatati, giocano, scherzano tra loro, si incoraggiano nei rispettivi lavori, pur risultando piuttosto agli antipodi caratterialmente: lei spregiudicata, sicura di sé, esplosiva, vivace; lui più introverso, solitario, timido, fragile anche fisicamente, intento in maniera forse quasi maniacale a riprodurre sulla tela i paesaggi di campagna, con laghi e grandi alberi, che avevano costellato la sua infanzia. Gerda prova a vendere i suoi quadri, senza riscuotere però successo, finché un giorno, per gioco, chiede al marito di posare per lei, ma come donna. I due comprano vestiti femminili, calze, parrucca, scarpe che trasformeranno Einar in Lili Elbe. Il volto angelicamente bello, etereo, dotato di effimera bellezza e purezza e le sue pose aggraziate ritratti sulla tela da Gerda non passano inosservati e sbalordiscono anche l’acquirente a cui più volte Gerda aveva cercato di vendere i suoi quadri e si apre per la giovane donna una strada fatta di successi e di mostre, perfino a Parigi, dove i due protagonisti si recheranno per qualche tempo.

Quello che però era iniziato come un gioco risveglia in Einar ciò che veramente è: uno “spirito” (come lo chiama più volte lui) femminile imprigionato in un corpo maschile. Einar non si trasforma soltanto apparentemente in Lili, ma diventa realmente Lili, la quale pian piano prende il sopravvento su di lui. Durante una mostra conosce un uomo e dopo qualche bacio fugace comincia a frequentarlo, senza però mai andare oltre. Cerca di scrutare ogni movimento femminile di donne che le passano accanto, assumendo il loro stesso atteggiamento, le loro mosse graziose, i loro sguardi che dicono e non dicono, il loro abbassare gli occhi con un fare pudico e nello stesso tempo maliziosamente seducente; smette di farsi toccare dalla moglie che assiste impotente alla “trasformazione” del marito, pur restando sempre accanto a lui/lei. Einar comincia allora a consultare medici sperando di trovare una qualche soluzione o aiuto per il suo sentirsi intrappolato in un corpo che non riconosce come suo, ma ognuno di essi tratta il suo caso come quello di uno schizofrenico o di un pazzo, cosa che egli sa benissimo di non essere. Alla fine, dopo un conflitto interiore Einar accetta pienamente di essere Lili e smette del tutto i panni dell’uomo, perché lui non è più quell’uomo. Gerda inizialmente supplica Lili di sforzarsi di lasciar vivere Einar, di essere ancora e di nuovo Einar almeno per lei, almeno in casa sua, ma poi di rende conto che non può lottare contro la vera natura di Einar, contro ciò che egli sa di essere e non può che assecondare un destino che è giusto si compia: lasciar che Einar sia la donna che intimamente è, lasciar che Einar diventi Lili a tutti gli effetti. Gerda è consapevole di aver perso Einar come marito, e pur avvertendone la struggente mancanza, fisica e sentimentale, l’amore che nutre per lui la spinge a non abbandonarlo mai e a restargli fedele, in tutti i sensi così che entrambi finiscono, in maniera quasi spontanea, seppur a tratti molto dolorosa per Gerda, a dar vita a un rapporto che va oltre l’amore e l’amicizia femminile. Lili però continua ad essere irrequieta perché non si riconosce in un corpo che è ancora maschile e che quindi è in contraddizione con il “suo spirito”. Fa allora un ultimo tentativo, rivolgendosi a un dottore che pratica medicina sperimentale e che finalmente le offre una sperata soluzione: amputazione degli organi maschili e successiva implementazione di ovaie e poi utero. Si tratta però di un’operazione di rassegnazione sessuale mai fatta prima e il medico fa presente a Lili tutti i rischi cui potrebbe incorrere qualora qualcosa andasse storto. La donna però è risoluta e totalmente fiduciosa in quella che le sembra l’unica possibilità per tornare a essere ciò che è realmente, per correggere quell’errore di natura che le ha dato un corpo non corrispondente alla sua vera essenza. Nonostante la preoccupazione, Gerda, anche in questo caso, sosterrà l’ (ex) amato marito nella sua decisione e gli resterà vicino durane l’operazione e durante tutto l’iter che deve passare dal primo intervento a quelli successivi, consapevole che è l’unico modo che Lili ha per poter essere veramente se stessa e per poter essere felice.

Il film, di Thomas Hopper, già acclamato regista per lo splendido Il discorso del re e de I miserabili trae la vicenda di Einar/Lili dall’omonimo romanzo di David Ebershoff (The danish girl) che si ispira alla biografia di Lili Elbe, artista danese nata, nel 1882 con il nome (e il sesso maschile) di Mogens Einar Wegner che è stata identificata come prima transessuale della storia e la prima ad essersi sottoposta a un intervento chirurgico di cambio di sesso.

A dir la verità una storia che poteva risultare molto potente e intensa, nel film risulta forse un po’ sbiadita e il tutto produce un effetto un po’ patinato, edulcorato e lezioso. Certo, ogni inquadratura è impeccabile, quasi a riprodurre ogni scena come fossero delle tele dipinte, in sintonia con il mestiere dei protagonisti e vi è una continua insistenza sui primi piani di Eddie Redmayne, il recente vincitore dell’oscar nei panni di uno straordinario Stephen Hawiking ne La teoria del tutto. In questo ruolo però, l’attore, pur fisicamente perfetto, in quanto dotato di lineamenti dolcemente androgini e delicati, e un fisico mingherlino sembra troppo autocompiacersi ed eccede in un tripudio di sguardi, moine, sorrisini che a lungo andare si rivelano quasi stucchevoli. La mimesi, la metamorfosi fisica di Einar in Lili è comunque sorprendente e appare perfettamente concretizzata nei tratti visuali e corporei dell’attore, ma non accompagnata da un dissidio altrettanto convincente. Inoltre il personaggio a volte appare perfino irritante, chiuso in un egoismo autocentrico che solo rare volte sembra aprirsi a un’empatia nei confronti della moglie che pur “sopporta” tutto, senza mai smettere di appoggiarlo e sostenerlo nonostante la sofferenza per aver perso, in un certo senso, la persona che aveva sposato. È forse proprio lei, una bravissima, seppur da noi poco nota, Alicia Vikander, a dare piena forza al film e al personaggio di Gerda che non funge da semplice spalla per i virtuosismi di Redmayne, ma anzi, diviene assoluta co-protagonista e forse filo conduttore di tutto il film, come se la vicenda di Einar/Lili passasse tutta sotto il suo sguardo e il suo sentire, tanto che il titolo può esser letto ambiguamente, in modo che la Danish girl possa riferirsi tanto a Lilli quanto a lei.

Gerda è un personaggio dotato di una forza e di una vitalità impressionanti e la Vikander riesce perfettamente a lasciar trasparire tutte le sfumature della donna, tutto quell’amore quasi incondizionato e tutto quel coraggio che le permettono di accettare e appoggiare la scelta di Einar, non in maniera rassegnata, ma perché lo ama profondamente con un sentimento che pian piano scopre andare al di là del rapporto moglie-marito, al di là del sesso, al di là del’amore “tradizionale”, e perché desidera la felicità di Einar/Lili, anche a costo di sacrificare parte (una grossa parte) della sua. Non si scandalizza, non è scossa per il fatto che Einar si senta una donna imprigionata in un corpo maschile, ma soffre per la perdita della persona che amava, o comunque di una fetta di quella persona e di quel che rappresentava per lei. Nonostante però l’incisività del personaggio, l’interpretazione dei due attori (sebbene appunto forse un po’ eccessivo Redmayne) e l’impeccabilità dei costumi, della fotografia e dell’ambientazione, sembra che al film manchi qualcosa, come se non riuscisse pienamente a rendere tutta la tensione e il conflitto interiore, ma soprattutto fisico, che dovrebbe provare il protagonista.

Anzi, sono forse proprio questa impeccabilità e armonia dell’insieme, i toni soffici delle scene e i colori tenui e il più delle volte chiari e luminosi, che fanno perdere l’insita disarmonia che il protagonista avverte tra il suo corpo e la sua anima. L’insistente attenzione sullo scambio di sguardi e sui primi piani hanno l’effetto di epurare tutta la tensione e il dramma del corpo. Vi sono solo un paio di scene in cui questo corpo viene messo in discussione in maniera evidente, in cui si avverte il peso di un’anatomia in cui non ci si riconosce. Per il resto vi è un’ interiorizzazione e una “spiritualizzazione” del conflitto di Einar/Lili e un forzato e troppo casto sorvolo su quello fisico. Si avverte forse una quasi fastidiosa cautela, quasi una paura a spingersi oltre, una paura di disturbare un pubblico facilmente scottabile di fronte a certe tematiche (o per lo meno questo sembra pensare il regista) un timore di sfociare nello scandalo, di mostrare troppo, come se lasciar parlare di più i corpi rischiasse di deturpare la bellezza e la purezza patinata, artistica, che il regista si sforza di raggiungere in ogni inquadratura, facendo quasi dimenticare il tormento del protagonista. E le sue scene risultano sì dei bellissimi quadri, ma quadri che restano un po’ muti e fini a sé stessi, in cui parlano gli occhi, è vero, ma non il corpo, se non quando assume atteggiamenti e pose femminili, ma quindi sempre in maniera troppo eterea e casta, che possono esprimere solo accennata e tenera sensualità ma non la disperazione di una sessualità che non è la propria. Vi è forse una delicatezza estrema, un morbido pudore che stona con una storia che parla di sesso (non di rapporti sessuali, ma del proprio sesso), una cura estetizzante che tende a far dimenticare, con i suoi paesaggi impeccabili, i suoi splendidi interni, la dettagliata scelta cromatica delle scene, un dramma fisico così forte. C’è un’epurazione quasi platonica delle “scorie” corporee, del soma/séma (e in questo caso i termini greci che significa corpo e tomba, si addicono, dato che Lili vuole far “morire” il corpo maschile di Einar) che dovrebbe invece esplodere con maggiore intensità e potente tragicità, anche a costo di disturbare il potenziale spettatore più arretrato.

Ultima modifica il Mercoledì, 06 Gennaio 2016 14:45
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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