Il 2016 per Larrain è stato l'anno della svolta: viene chiamato a dirigere il suo primo film americano, "Jackie" (presentato in anteprima al Festival di Venezia). Per la prima volta il cileno si occuperà solo della regia (e non della sceneggiatura) e si staccherà anche dal suo direttore della fotografia di fiducia, Sergio Armstrong. Nel cast tecnico ecco alla stesura dello script, Noah Oppenheim (Divergent, Maze Runner), e alla fotografia Stephane Fontaine (collaboratore di lunga data di Jacques Audiard). Nel cast artistico ecco il premio Oscar Natalie Portman, affiancata da John Hurt (recentemente scomparso) e Billy Crudup. Sulla carta questo progetto poteva spaventare lo zoccolo duro di fan del regista cileno. Dopo aver visto il film, devo ammettere che la sua poetica sgorga meravigliosamente scansando la retorica. Questo rischio con altri registi era possibile, ma la bravura di Larrain è quella di evitare tali ostacoli. Il cileno si reinventa per l'ennesima volta. Con "Jackie" rilegge un'altra pagina di Storia, stavolta al di fuori dei confini nazionali. L'approccio si avverte già nella prima scena.
29 novembre 1963. Il giornalista di "Life", Theodore H. White (Billy Crudup di "Big Fish"), intervista la vedova Jackie Kennedy (Natalie Portman) una settimana dopo la tragica uccisione di JFK, a Dallas. Subito si capisce che la donna ha un carattere forte. “Non ha mica intenzione di pubblicare queste chiacchiere? Anch'io ho fatto la giornalista". Il regista allora indaga sulla questione intima, personale. Si capisce che il suo volere è quello di indagare sulla natura, le contraddizioni e le tante sfumature di questo intenso personaggio femminile. Larrain non vuole dare in pasto allo spettatore la verità. Come dice la stessa protagonista è "impossibile dirla" per cui il biopic è impossibile, è solo una ricostruzione parziale. Così come la verità: non esiste quella assoluta. "Arriva un punto in cui le persone di cui leggiamo sono più reali di quelle che ci sono a fianco". Lo stesso concetto era alla base di "Neruda", ma anche di "No i giorni dell'arcobaleno": il dominio dei detti più che dei fatti, le immagini sovrastano le cose.
Dopo aver riscritto le regole del biopic nel bellissimo "Neruda", qui sancisce la definitiva rottura mandando in cortocircuito i tempi della narrazione. Tutto è volutamente "confuso" (nel senso buono della parola), come se lo spettatore fosse catapultato nella testa della vedova Kennedy. Quindi dimenticatevi i discorsi del Presidente, i suoi (tanti) tradimenti. Qui c'è solo questa donna che lotta contro tutto e tutti, soprattutto con sé stessa. Jackie non è affatto una santa. Il film racconta le torture interiori della donna, il rapporto con i figli, indugia sui suoi sguardi preoccupati dal finestrino dall'auto (ispirandosi a "Carol" di Todd Haynes). Era una first lady "precaria" che divenne ben presto una donna senza marito e senza corona. Non aveva niente di suo, nè il cognome nè la casa. Non a caso il titolo è semplicemente Jackie, il soprannome della donna. Come se Larrain volesse tirar fuori un alter ego di questa risoluta e complessa figura femminile ritenuta “la donna famosa più sconosciuta dell’era moderna”.
La sceneggiatura (premiata giustamente a Venezia) fa emergere i particolari sul dolore della donna, i mobili, gli arredamenti, i vestiti (straordinari), l'organizzazione del funerale, il trasloco dalla Casa Bianca, le tradizioni, i protocolli, le analogie con Lincoln e gli altri presidenti assassinati, il peso della Storia. E naturalmente i sensi di colpa per non aver potuto coprire il marito dai proiettili di Dallas. Da quel giorno, come dice al prete (John Hurt), la donna si è seriamente persa. Tanto che ogni giorno prega di morire.
L'amore infinito per JFK è una cosa tangibile perchè per lei il suo uomo era una persona ordinaria "capace però di cambiare il corso degli eventi”. Questo le fa sentire il Peso della Storia (non è un caso che dormisse nella stanza dove Lincoln firmò il trattato della fine della schiavitù). Ma nei film di Larrain c'è sempre qualcosa di più: la descrizione degli ambienti popolati da fantasmi, i confronti tra Jackie e il cognato Bob (Peter Saarsgard) in cui la prima non resiste alla tentazione di manifestare la propria amarezza "per tutto ciò che di buono avremmo potuto fare". E poi c'è la questione Camelot.
Fu proprio il giornalista White a tirar fuori questa leggenda. Jackie amava questo musical e spesso rimembrava i balli con il marito. Per chi non sapesse di cosa stia parlando, questo luogo mitologico (la residenza di Artù) veniva usato per riferirsi al periodo della presidenza di John Fitzgerald Kennedy (1961-1963), considerato come un'epoca idilliaca (bruscamente interrotta dall'assassinio dello stesso Kennedy, spesso paragonato alla caduta di Artù).
Il regista ci dice che i bei tempi sono finiti e l'America sta per piombare in un baratro. Il fatto che il regista sia cileno mi fa convincere che Larrain voglia anche far capire agli americani degli errori del passato. Tali conseguenze portarono alla situazione ampiamente descritta nei film precedenti. Quelli sul suo Paese, il Cile (Tony Manero su tutti). Insomma un film necessario da vedere anche più di una volta per apprezzare tutti i particolari. Anche agli Oscar questa pellicola avrà il suo spazio. 3 Nomination meritatissime: splendidi i costumi e la colonna sonora che manifestano il disordine nella testa di Jackie. E poi c'è quello scricciolo di 160 cm chiamato Natalie Portman. E' lei il vero motore del film. La sua misteriosa ambiguità, la sua determinazione, il suo perfezionismo, il suo mimetismo (guardate la postura e il posizionamento delle mani) fanno di lei una delle attrici più importanti del panorama cinematografico odierno. Quest'anno tiferò per lei nella categoria miglior attrice protagonista (anche se probabilmente vincerà Emma Stone). D'altronde era facile immaginare che era una predestinata, sin dal lontano 1994 quando esordì a fianco di Gary Oldman e Jean Reno nello splendido "Leon".
FRASE CULT : Quando cerchi il senso delle cose, arriva sempre il momento in cui ti rendi conto che non c’è risposta. O lo accetti o ti suicidi. Oppure, semplicemente, smetti di farti domande.
TOP
Regia, fotografia e costumi semplicemente sublimi
Una sceneggiatura ben scritta
Natalie Portman regala un'interpretazione sfaccettata e ambigua. Merita l'Oscar
Pablo Larrain ha le idee chiare riguardo quello che vuole comunicare allo spettatore
La coerenza di Larrain con tutti i film precedenti
Larrain annienta tutti i canoni e le regole del biopic classico: prima con Neruda e adesso con Jackie
FLOP
Rispetto ad altri film di Larrain, la narrazione è un po' appesantita in alcuni tratti (specie nella prima parte)
Essendo un film americano ad alto budget, alcuni meccanismi sono convenzionali per gli standard di Larrain