Al suo terzo film il regista Francesco Amato ha osato: ha preso due grandi attori del cinema tricolore (il veterano Servillo e il lanciatissimo Marinelli), uno sceneggiatore di livello (Francesco Bruni, già collaboratore di lunga data di Paolo Virzì), abbandonando in parte le linee guida dei suoi film precedenti. Devo dire innanzitutto che "Cosimo e Nicole" e "Ma che ci faccio qui", oltre alla serie tv "I liceali", sono lontani anni luce dalla mia idea di cinema.
Al centro di tutte queste storie ci sono amori irregolari tra persone spesso diverse. In "Lasciati andare" sicuramente c'è questo, ma Bruni, Lentieri e Amato sono bravi ad arricchire la storia con elementi presi da Woody Allen e dai fratelli Coen, sprazzi di psicanalisi, un po' di sense of humour (che non guasta mai) e ambienti tipicamente borghesi. In più per la prima volta Toni Servillo si cimenta in una commedia al cinema. "Non sono io che ho aspettato tanto, sono quelli che avevano la possibilità di propormi una commedia brillante ad aver atteso di contattarmi" - ha rivelato sarcasticamente in un'intervista a "Repubblica". In attesa di diventare Berlusconi per il suo amico Paolo Sorrentino (riprese fissate in estate). Qualcosa aveva già fatto a teatro. Chi lo ha già visto lì non rimarrà sorpreso, mentre per quanto concerne i suoi ruoli cinematografici è un tentativo di rottura dalle solite linee guida. Lo stesso attore partenopeo ha descritto il suo coinvolgimento in una commedia leggera come un "momento di civiltà", visti i tempi. Risultato? Il film è stato già venduto sul mercato internazionale (Nord America, Australia, Grecia, Israele, Spagna, Taiwan e Turchia) e sarà la prima pellicola che verrà proiettata nella sala temporanea del cinema di Amatrice, dopo il terremoto.
Veniamo alla storia.
Lo psicanalista ebreo, di scuola freudiana, Elia Venezia (Servillo) è un uomo rigido, severo, scrupoloso nel suo lavoro, ma anche furbo. Il suo motto è “nella vita non si cambia, nessuno ha parlato di guarire. Al massimo possiamo discutere dei motivi della sua sofferenza”. In parole povere i problemi non li risolve. Eh sì, ogni paziente guarito è un paziente perso. Non c'è dubbio. Negli anni però il suo lavoro è diventato solo routine. È distaccato, gelido e mette in soggezione quei "rompipalle" dei suoi pazienti. È un intellettuale piuttosto altezzoso, snob e misantropo, stile Jep Gambardella di sorrentiniana memoria. Conduce una vita monotona, piatta e non va più in sinagoga da tanto tempo. È separato dalla moglie Giovanna (Carla Signoris, consorte del comico Maurizio Crozza) con cui condivide lo stesso pianerottolo. Lei ancora lava e stira per lui, gli prepara qualche boccone da mangiare, lo porta a teatro una sera ogni tanto. Nel frattempo, stanca della reticenza dell'ex marito, prende una sbandata per l'ing. Biraghi (Giacomo Poretti, componente del celebre trio con Aldo e Giovanni) che, ovviamente, è cliente di Elia. Per non farsi mancare niente è perfino tirchio, tanto da andare, ogni tanto, a scroccare la cena al ristorante del figlio.
Elia tiene tutti a distanza di sicurezza. Per alleviare il dolore della solitudine, l'uomo tende a mangiare dolcetti e ad ingrassare. Il problema è che ha la glicemia alta. Un improvviso malore lo costringe ad andare dal medico di fiducia (il mio concittadino Antonio Petrocelli) che gli prescrive l'obbligo di dieta e di attività fisica regolare. Apriti cielo! Per Elia la cosa si fa seria perché ha sempre odiato fare palestra, ma è costretto a farlo. I suoi dogmi e le sue certezze vanno a farsi fottere. Quel mondo lui lo odia con tutto sè stesso perché in palestra "regna la superficialità innocua". Per uno che cura il dominio della mente sul corpo, è una bella botta. Così ritira fuori dall'armadio le vecchie tute in acetato della Nazionale degli anni '90 (scelta quanto mai azzeccata) e inizia a fare attività fisica. Qui conosce un'eccentrica personal trainer spagnola di nome Claudia (Veronica Echegui). "Un analista che si fa guidare da una personal trainer? Questa mi mancava" - si interroga in maniera scettica Elia.
In effetti la cosa sembra strana: da una parte un uomo con il culto del dominio della mente, dall'altra una donna con il dominio del corpo. Fossero stati nazisti, sarebbe stato un perfetto esempio di eugenetica. Menti sani e corpi sani che si fondono. Sembra un delirio, ma lo facevano per cercare di creare una razza superiore. In questo caso Elia e Claudia inizieranno un proficuo rapporto professionale di aiuto reciproco. Tra i due nascerà una grande amicizia nonostante le (tante) differenze. Il famoso proverbio suggerirebbe che gli opposti si attraggono. Secondo me la realtà è ben diversa e questo è il più classico dei cliché.
Intorno ai due protagonisti c'è una fauna di personaggi secondari molto bravi: l'ironica e saggia ex moglie Carla Signoris, il calciatore Giulio Beranek, ma soprattutto Luca Marinelli e il "compare" Vincenzo Nemolato. Ancora una volta l'ex Zingaro de "Lo chiamavano Jeeg Robot" regala un'altra performance delle sue, nei panni del balbuziente galeotto fidanzato di Claudia. Il risultato finale è una commedia di bravi attori (Marinelli e Servillo su tutti) che finiscono per prevalere su una regia che li lascia andare a briglia sciolta. Amato sembra "osservare" le perfomance tra i limiti disegnati dagli sceneggiatori. Tuttavia è un'operazione che non ha l’ambizione (altrimenti fallirebbe) di ironizzare sulle nevrosi in stile Woody Allen, ma dà semplicemente un messaggio: sfidate le proprie (in)sicurezze e apritevi al caos della vita. Lasciatevi andare insomma.
Il film nel complesso, però, ha dei difetti. Non riesce a svicolare dalle solite tradizioni del cinema italiano quando invece avrebbe potuto. Basta vedere il finale. Se fosse finito 3 minuti prima, il tutto avrebbe assunto un'altra dimensione e sarebbe stato sicuramente meno prevedibile. Altri esempi di superficialità sfociano nei soliti vecchi cliché: gli ebrei tirchi, la donna come forza centrifuga che sconvolge l'esistenza dell'uomo pantofolaio, ristretto in una vita piatta e monotona. Queste sono soluzioni da film medio. Lo spettatore se le aspetta, le sa e probabilmente le vuole anche. Marinelli riesce nell'impresa di improvvisare qualcosa. Quando lo fa, il film decolla anche grazie all'azione che imperversa nell'ultima parte e all'autoironia di Toni Servillo (soprattutto nelle parti grottesche). Anche con pancetta (finta) e con una inguardabile tuta in acetato degli anni '90, fa la sua sporca figura. Quando non ci sono loro, c'è una brava Veronica Echegui, la cui presenza assicura elettricità e dinamicità al film.
Questa pellicola, seppur non originale con modelli che richiamano la commedia americana, poteva rappresentare una svolta per il cinema italiano. La voglia di far qualcosa di differente pare esserci. Il difficile resta la concretizzazione del cambiamento. Volere è potere, al cinema come nella vita.
LA FRASE: " Nessuno ha mai parlato di guarire... Tutt'al più possiamo riflettere sui motivi della sua sofferenza! "
TOP
- Alcune soluzioni tipiche della scrittura di Francesco Bruni (vedi il guizzo della tuta in acetato riesumata dal protagonista);
- I temi trattati con notevole leggerezza e un discreto sense of humour;
- Toni Servillo in un ruolo autoironico dapprima in stile Jep Gambardella e poi in versione comico/grottesca con annessa tuta in acetato;
- Luca Marinelli assicura il giusto mix d'improvvisazione e pazzia;
- Il messaggio del film è giusto, anche se è facile cadere nei clichè;
- Veronica Echegui assicura dinamicità alla storia.
FLOP
- Cliché da film medio (gli ebrei tirchi, la donna come forza centrifuga che sconvolge l'esistenza dell'uomo pantofolaio, ristretto in una vita piatta e monotona, gli opposti si attraggono,ecc....);
- Il prevedibile finale poteva essere evitato. Se il film fosse finito 3 minuti prima, sarebbe stato molto meglio;
- Il film strizza l'occhio a Woody Allen e ai Coen, ma poi converge sul terreno della farsa per evitare il confronto (improponibile).