Cast: John BOYEGA, Will POULTER, Anthony MACKIE, Jack REYNOR
Durata: 2h e 23 minuti
Distribuzione: Eagle Pictures
Uscita italiana: 23 Novembre 2017
Qui il trailer italiano
Nel cinema americano al momento esistono solo due registe donne capaci di unire il dinamismo delle scene d'azione con un'attenzione all'attualità politica e sociale. La prima è stata l'afroamericana Ava DuVernay nell'ottimo "Selma - la strada verso la libertà" (leggi qui), la seconda è Kathryn Bigelow (peraltro ex moglie di James Cameron, regista di Avatar e Titanic).
La regista californiana, classe 1951, è una donna grintosa, coraggiosa, intelligente che sa andare contro il sistema. Per i suoi occhi la violenza è ovunque, dietro ogni angolo (francamente è difficile darle torto). Ha preso gusto a raccontare storie difficili, violente come "K19", "Zero Dark Thirty" e il film premio Oscar "The Hurt locker". Gli ultimi due in particolare parlavano, rispettivamente, della guerra in Iraq e della caccia a Osama Bin Laden. Le storie non erano affatto convenzionali, tanto che in entrambe l'America (la nazione che esporta la democrazia nel mondo) ne usciva con le ossa rotte. Stavolta lo zoom della prolifica regista cade su un fatto di cronaca dimenticato dai più. Il parallelismo con l'America di Trump è fin troppo evidente. Non c'è nemmeno bisogno di sforzarsi più di tanto, è fin troppo facile da capire. Detroit è una città nota alle cronache per i bagni di sangue e per le alte concentrazioni, nei sobborghi, di neri e proletari. Ma è anche la città simbolo della sperimentazione della crisi economica che ci mordendo dal 2008. Nel 2013, dopo esser andata in default, si è spopolata e quei pochi abitanti rimasti hanno sperimentato strade alternative.
Kathryn Bigelow con la sua camera a mano nervosa e irrequieta ci riporta lì in mezzo alla rivolta tra il 23 e il 27 luglio 1967, facendoci respirare quel clima d'odio. Esattamente 50 anni fa le battaglie per i diritti civili dei neri erano molto aspre. Oltre a Detroit, ci fu il famoso episodio di Selma, in Alabama, raccontato dal film di Ava DuVernay.Nel 1968 Marthin Luther King fu assassinato a Memphis, nel Tennessee. Il nuovo film di Kathryn Bigelow è come quando fate un respirone. Prima si inspira, poi si trattiene il fiato e poi si butta fuori l'aria. Dapprima si racconta cosa fa scattare la scintilla, poi vengono raccontati i fatti del Motel Algiers e alla fine si mostra le conseguenze di tutte le azioni. Infatti al centro della narrazione c'è un normale controllo della polizia in un bar privo di licenza nel ghetto nero. Questo episodio fu la scintilla che fece scatenare il pandemonio: 43 morti, 1189 feriti, più di 7200 arresti e la città fu invasa dalle macerie. Oltre 2000 edifici furono distrutti, alcuni quasi rasi al suolo. Ad alimentare questi gravi episodi ci si mise anche il presidente Johnson che inviò l'Esercito.
Questa furia è interessante analizzarla cinquant'anni dopo perché mette in mostra cosa può provocare la rabbia repressa e come può facilmente propagarsi a macchia d'olio. La Bigelow ce lo mostra con una maestria tecnica ed un realismo invidiabile (sulla scia di Paul Greengrass di "Bloody Sunday", "Mississippi Burning" di Alan Parker e "Il braccio violento della legge" di Friedkin). Pare di respirare quel clima, di sentirsi addosso quella sporcizia (cosa che ad esempio mancava a "Dunkirk" di Nolan). Il film si concentra poi sull'episodio del Motel Algiers (molto noto negli Stati Uniti, assai meno in Europa) dove la polizia sequestrò un gruppetto di giovani neri e due ragazze bianche (considerate pericolose perché "tendenti al sesso misto"). Queste persone subirono violenze raccapriccianti sullo stile del massacro italiano alla "Diaz" di Genova (il film di Daniele Vicari è uno dei migliori film degli ultimi anni). Tutto ciò sprigionò rabbia a dismisura da una parte e dall'altra con effetti collaterali devastanti. In questo caos accaddero cose incredibili: alcune persone cambiarono, altre rimasero indifferenti, ci furono reciproci apprezzamenti sessuali tra bianchi/e e neri/e.
Quando sono usciti film come I'm not your negro, 12 anni schiavo e Django Unchained, molti in America ebbero la sensazione di una visione cinematografica sadica e pornografica della violenza. Anche se non era del tutto vero. Questo alla Bigelow non interessa affatto. "Detroit" è un thriller psicologico ruvido, nervoso, muscolare, sporco che scava nella testa delle persone e le costringe a riflessioni non banali. Gli uomini bianchi hanno in mano il potere, i mezzi, le risposte, le assoluzioni. La passività dei neri era (ed è) palese. Infatti il film si apre con un "bignami" di storia degli afroamericani: deportazioni, l'abolizione della schiavitù fino alla presa di coscienza dei loro diritti. Negli anni Sessanta il cambiamento sembrava una cosa fattibile. La Bigelow lo dice da donna bianca e questo testimonia il suo coraggio. Tra il sentire e il vedere non sembra esserci più differenza, almeno nelle opere della regista californiana. Al resto ci pensano i tempi di montaggio che rasentano la perfezione. Le oltre 2 ore e venti minuti di durata scorrono agevoli, anche se il film non è perfetto. Probabilmente era meglio fare un documentario sul contesto della Detroit di cinquant'anni fa. La sceneggiatura del fido collaboratore (e compagno nella vita) Mark Boal questa volta non sempre è all'altezza nella parte ambientata nel motel. E poi quando si entra nella vita dei personaggi, il film perde la sua linfa vitale.
Tutto è abbastanza convenzionale: c'è un John Boyega (Star Wars: Il risveglio della Forza) che, passivamente, "imita" Denzel Washington, Jack Reynor che interpreta Demens (di nome e di fatto), il solito giudice. Se avete visto alcuni film di genere, capirete cosa voglio dire. Merita attenzione invece la performance di Will Poulter (Redivivo) con il suo sguardo sadico, truce e allucinato. Tuttavia il tutto non crea sempre la giusta empatia e si capisce dove si vuol andare a parare. Le trasformazioni psicologiche dei personaggi si intuiscono in rapporto a quanto succede nelle strade di Detroit. Quello che conta da sempre nel cinema della Bigelow sono i teatri delle battaglie. Anche qui c'è la stessa sensazione che, nel corso della narrazione, diventa realtà. Questa contraddizione insita nel film rende "Detroit" un'opera che difficilmente entrerà nell'immaginario collettivo. Anche se per qualità del cinema di oggi, questa pellicola merita di essere vista soprattutto per capire le analogie tra passato e presente. L'Algiers Motel, infatti, oggi non esiste più. È stato raso al suolo, e al suo posto c'è un campo incolto, squallido, triste, dove cresce la gramigna. Studiare la storia serve soprattutto a capire dove occorre agire. Non c'è tempo da perdere, il da fare non manca. E noi italiani purtroppo non ne siamo immuni.
La frase da ricordare:
Do per scontato che siate tutti criminali!
I punti di forza:
- Lo stile della Bigelow, sulla scia di Greengrass, Parker e Friedkin
- Una regista bianca che si schiera con i neri, entrando in forte connessione con "Selma" di Ava DuVernay
- La forte connessione con le opere precedenti della regista, ovvero The hurt locker e Zero Dark Thirty
- Il coraggio di raccontare una storia dimenticata dai più
- Il parallelo con l'America di Trump, incarnata dallo sguardo di Will Poulter
- Il montaggio
- La camera a mano della Bigelow ci fa percepire e respirare il clima della rivolta
- La Bigelow ci fa sentire un clima nervoso, muscolare e lo sporco del conflitto
- La parte iniziale del film
I difetti:
- La parte finale non è elettrizzante e abbastanza convenzionale (epilogo da dramma giudiziario)
- La sceneggiatura diventa didascalica quando si entra nella vita dei personaggi
- John Boyega a tratti sembra imitare Denzel Washington (senza riuscirci)