Oltre due ore di pellicola catartica. Una struttura classica e prevedibile, con archetipi o stereotipi che riescono a non irritare neanche nel caso della coppia di italiani (ovviamente meridionali) che festeggiano Niki Lauda quasi fossero bambini delle elementari. Sarà merito di Favino, che “fa pari” vestendo i panni di Regazzoni alla guida della Ferrari. O sarà che l’impatto complessivo lascia con la sensazione di essersi alienati dal presente, cosa sempre più difficile nel XXI secolo.
Passati i titoli di coda si pensa di aver scorso davvero un pezzo di anni ’70 (almeno per chi non li ha vissuti). Merito degli ottimi costumi e di una cura scenografica che permette alla regia e alla fotografia di dare il meglio di sé (si parla di sistemi di 30 telecamere per riprendere dalle varie angolature).
Decisamente apprezzabile la scelta di non inchiodare lo spettatore alla poltrona con la colonna sonora. Un’ottima selezione musicale rimane sullo sfondo, quasi volesse lasciarsi apprezzare da chi riesce a riconoscerne gli artisti (intervallati dalle composizioni di Hans Zimerr).
Come si dimostra che è un film ben costruito e coinvolgente? Lo spettatore medio rimane indifferente alle morte dei piloti di Formula 1, che decedono quasi a decine durante il film, mentre viene travolto dal coinvolgimento emotivo durante il ricovero di Lauda.
Il trailer che con largo anticipo rimbalzava in quasi tutte le sale è uno dei migliori degli ultimi anni, quasi un cortometraggio autosufficiente. Questo, insieme all’insistente campagna pubblicitaria, coltivava pregiudizi, almeno per il sottoscritto. Invece le aspettative che ci si possono creare rimangono appagate.
Per chi è cresciuto con il cinema a stelle e strisce, c’è una sensazione di familiarità (aiuta la produzione in parte europea), quasi una patina di nostalgia per una spensieratezza che con difficoltà è possibile trovare in una storia priva di supereroi o elementi fantascientifici. Una storia umana, con personaggi (sportivi) reali, che attraverso un passato ormai distante può recuperare un’epica astorica (non a caso Boris Sollazzo ha azzardato un eccessivo «Ron Howard come Omero» - in realtà attribuendo le qualità omeriche all’ottimo Peter Morgan, lo sceneggiatore che aveva già regalato a Howard Frost/Nixon).
In scena va uno scontro tra due modi di concepire l’agonismo, entrambi privo di romanticismo. Non si può scegliere fino in fondo nessuna delle due parti. È la storia che travolge e trascina lo spettatore, grazie ad un ottima recitazione di quasi tutti (su cui emerge imponente D ) e a una scrittura (anche dei dialoghi) che ti lascia qualcosa di cui discutere dopo il film anche se non sai assolutamente nulla di corse automobilistiche.
Vale decisamente la pena. È la grandiosità dell’essere umano reale, secondo le lenti di Hollywood, che va in scena.
[Voto 8/10, Rush, USA, 2013, durata 123', regia di Ron Howard]
Immagine liberamente tratta da www.filmtv.it