Venerdì, 18 Gennaio 2013 00:00

Il Lincoln di Spielberg e la storia

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Lo scorso anno si era affacciato nelle nostre sale un curioso filmetto con una trama tanto improbabile quanto curiosa nel quale si immaginava che il giovane Abramo Lincoln avesse un’identità segreta: giovane di bottega, studente di legge e poi politico in carriera di giorno e cacciatore di vampiri di notte (La leggenda del cacciatore di vampiri diretto da Timur Bekmambetov conosciuto per aver messo su pellicola i primi due capitoli –I guardiani della notte e I guardiani del giorno- di una trilogia Fantasy dello scrittore russo Sergej Luk'janenko).

Su Abramo Lincoln è uscita negli USA, e fra pochi giorni anche in Italia, l’ultima fatica di Steven Spielberg il quale, dopo Amistad, tratta un’altra volta il tema della lotta contro la segregazione razziale nel suo paese.

Dico subito che Lincoln è un kolossal di circa 2 ore e mezzo, un affresco potente, un ritratto rigoroso degli Stati Uniti fiaccati da anni di guerra civile (9 Aprile 1861-12 Aprile 1865), ed in cerca di un’identità nazionale. Daniel Day Lewis (Abramo Lincoln) è sontuoso nel regalarci il ritratto del Presidente degli Stati Uniti. Bellissime anche la sofferta interpretazione di Sally Field (la moglie Mary Todd), o le figure del Repubblicano abolizionista radicale Thaddeus Stevens, al quale Tommy Lee Jones presta il suo volto ruvido unito ad una recitazione mai così asciutta, così come un ispirato David Strathairn il quale, dismessi i panni del Dr. Rosen nel serial “Alphas”, interpreta qui un convincente e naturale William Seward, Segretario di Stato durante l’amministrazione Lincoln.

La storia non è una biografia del più amato fra i presidenti degli Stati Uniti d’America, ma si concentra sugli ultimi mesi di vita di Lincoln a partire dal Gennaio 1865 (ovvero due mesi dopo la rielezione), e sviluppandosi principalmente intorno alla battagliava alla Camera sulla proposta di modifica della Costituzione (il celeberrimo XIII emendamento) che aboliva la schiavitù, arriva alla fine della Guerra Civile e all’omicidio del Presidente avvenuto la sera del 15 Aprile 1865, ad appena 3 giorni dalla fine della guerra.

Il film non è apologetico, certo non mancano scene e situazioni nelle quali la retorica americana sul coraggio del “commander in chief”, o sulla convinzione che l’uomo sia sempre padrone e responsabile del proprio destino. vengono dispensate con una certa generosità, anche se, va detto, senza un’enfasi eccessiva. Il segno complessivo però è un altro.

Tutto il film si sviluppa, sostanzialmente, fra le stanze della Casa Bianca e quelle del Parlamento, e racconta la faticosa, tortuosa e spietata battaglia condotta da Lincoln e dai suoi fedelissimi per conquistare, utilizzando ogni mezzo, i voti necessari a far passare alla Camera l’emendamento: le promesse, le pressioni e le vere e proprie minacce che caratterizzarono quei mesi tumultuosi, fino addirittura all’accusa, rivolta a Lincoln da parte dei Democratici, di aver ritardato di qualche mese la possibile fine della carneficina che stava dilaniando gli USA, nella convinzione che una volta allentata la pressione, sarebbe stato impossibile un voto positivo su quel testo così importante e delicato.

Esiste però quella che io considero una lacuna nella storia. Se da un lato emerge, con palmare chiarezza, la responsabilità dei Democratici nel permanere dello schiavismo, cosa che in Italia nella percezione di massa è assolutamente sconosciuta, dall’altro risultano deboli le ragioni strutturali per le quali, i grandi proprietari terrieri del Sud ed il partito che maggiormente li rappresentava, si opponessero a quel processo storico. Solo in pochissimi passaggi si esce da una rappresentazione tutta centrata sul rispetto dei diritti civili, introducendo quelle che furono le ragioni più potenti sia della genesi della guerra di secessione, che nella direzione dell’abolizione della schiavitù, ovvero che quella che si combatté fu, in realtà, una seconda rivoluzione americana, ma questa volta una rivoluzione economica in virtù della quale il nord Repubblicano proiettato verso un’industrializzazione tumultuosa, non poteva più tollerare l’andamento lento, come una vecchia ballata, dell’economia rurale e contadina del Sud Democratico e, in questo senso, gli schiavi dovevano essere liberati non solo per ragioni umanitarie, ma perché indispensabili al fine di diventare il nuovo proletariato di una nazione destinata ad essere la prima potenza economica del mondo.

Questo “pudore” nell’approfondire le ragioni più scomode di quella esperienza, non inficia però il valore artistico e storico di un’opera che dipana il proprio racconto senza mai annoiare a testimonianza, ancora una volta, della capacità di Spielberg nel riuscire a rendere avvincente un film (basti pensare all’ormai classico Duel), partendo dalla storia, dalla sceneggiatura e dalla capacità interpretativa degli attori. E anche quando, come in questo caso, non si risparmiano risorse sulla fotografia, i costumi, o gli effetti speciali, essi risultano sempre essere al servizio della storia e non vice versa.

Immagine tratta da cineblog.it

Stefano Cristiano

Laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa. Felicemente sposato e padre di due splendide bambine, è attualmente Segretario Regionale toscano del PRC. Non rinuncia, tempo permettendo, a coltivare una decennale passione per il cinema.

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